SFIGATTO
Sono un gatto nero, bellissimo, ho un pelo folto simile al velluto e due occhi grigi saettanti.
Eppure, ho imparato a mie spese che alla gente faccio paura: cambia strada quando mi vede, si tocca, stringe un cornetto portafortuna se lo trova a portata di mano.
Perché pensano che porti sfortuna? La mia mamma, una splendida gatta grigia tigrata è stata felicissima della mia nascita e di quella dei miei fratelli e sorelle. Ricordo con quanto amore ci ha allattato, leccato, giocato con noi e come sembrava non essere affatto dispiaciuta nel ricordare il focoso incontro con Nerone, il gattone nero dei vicini di casa.
Vivevo felice accanto a lei, ma un bel giorno ho capito che non potevo rimanere sempre con la mia famiglia, eravamo troppi e occorreva trovare un altro luogo in cui vivere. Uno dopo l’altro, i miei fratelli e sorelle partivano, ero rimasto l’ultimo, ma arrivò il giorno in cui anch’io lasciai la mia famiglia umana e non.
Arrivai in questa bellissima casa, dove mi trovo tutt’ora, attorniata da un grande giardino, orto, pollaio, nonché piscina e alberi frondosi… Non potevo credere alla mia fortuna e pensavo con ansia alla sorte dei miei fratelli e sorelle. La mia umana mi accolse con un sorriso di benvenuto e mi preparò cibo, acqua e una casetta dove avrei dormito. Ma stranamente non mi fece una carezza, non mi prese in braccio, eppure ero piccolo e assomigliavo ad un peluche. Non ne capivo il motivo, anche quando cercai di entrare in casa, dove avevo adocchiato un bel camino e comodi divani, fui allontanato dicendo che non potevo entrare, e non mi furono date ulteriori spiegazioni.
La prima notte nella casetta di legno fu triste e piansi nel ricordare il calore della mamma. Forse era un’usanza così, avrei dovuto fare un po' di quarantena, ma poi certo sarei diventato un membro di questa famiglia che mi piaceva: adulti allegri, bambini simpatici, insomma mi si prospettava una bella vita.
Il tempo passava ma nulla cambiava. Cercavo di entrare in casa con ogni stratagemma: appena l’umana lasciava la porta aperta, cercavo di entrare, speravo di rendermi simpatico strusciandomi contro le sue gambe, la seguivo nell’orto cercando, mentre raccoglieva gli ortaggi, di incontrare la sua mano per una carezza, ma nulla. Diventai un gatto equilibrista, cercando di arrampicarmi su un glicine che arrivava al balcone, camminavo sulla ringhiera sperando di entrare di soppiatto in un luogo caldo in cui fare le fusa e ronfare accanto al fuoco. Ma fu tutto inutile. Allora mi disperai, uscivo dal giardino e incontravo altri gatti con cui condividevo la mia storia: ero un gatto coccolone a cui era negata una carezza. I gatti vicini di casa mi prendevano in giro: un gatto nero e per giunta ignorato dalla sua famiglia, per caso mi chiamavo “Sfigatto”?
Li lasciai ai loro scherzi e pensai di andarmene da quel paradiso, in cui non trovavo la mia dimensione. Camminai a lungo e mi ritrovai in una cascina dove di gatti ce n’erano tanti, andavano e venivano dalla porta di casa; mi unii a loro, che sembrarono accettarmi, ma quando arrivò la ciotola con il cibo e mi avvicinai, avevo giusto un po' di languorino, mi azzannarono e fuggii a zampe levate prima di rimetterci un occhio.
Cammina, cammina, mi ritrovai in un’aia dove un vecchio mi notò, mi chiese da dove venivo e mi portò del cibo che divorai all’istante. Quest’uomo mi accarezzava e non si ritraeva quando mi strofinavo contro le sue gambe. Parlava con un accento strano, diverso da quello della mia casa e mi pareva, durante le carezze, mi tastasse troppo le cosce e dicesse: “Come starebbero bene queste coscette con pomodorini e olive…”
Avevo una strana sensazione a cui non sapevo dare un nome e, per non correre rischi, abbandonai anche quel rifugio. Era arrivato il freddo e il tempo della neve: affamato e bagnato decisi di ritornare da dove ero partito. L’umana fu felice di rivedermi, mi rimpinzò di cibo e mise una cuccia morbida nella mia casetta. Non era cambiato nulla, ma decisi di rassegnarmi e di godere di quello che avevo.
In primavera, quando il giardino era un tripudio di fiori, le persone che venivano in visita si complimentavano con l’umana per il suo pollice verde e per il mio aspetto, lei ne era orgogliosa e mi definiva con affetto: “il mio gatto da esterno”. Dunque ero alla stregua dei vasi di fiori, delle sedie che accoglievano gli ospiti sotto le fronde del salice? Beh, meglio di nulla, avevo il mio ruolo.
In un giorno di sole caldo, in cui l’umana aveva lavorato molto nell’orto, visibilmente stanca si lasciò andare a fare un riposino sulla sdraio sotto il salice. Si addormentò subito ed io, non potendo credere alla mia fortuna, salii piano piano e mi accoccolai accanto a lei. Misi la testa sotto la sua mano e invece di attendere una carezza che non veniva, strofinai il capo lungamente sotto il suo palmo. D’improvviso, uno starnuto forte come un tuono risuonò nell’aria e mentre correvo via dalla mia postazione, vidi l’umana scossa da tosse e starnuti. Quella sera la guardai dalla finestra, che avevo raggiunto abilmente, scossa da brividi e con il termometro in bocca…
Era questo l’effetto che le facevo? Dunque era allergica al mio pelo? Non potevo credere che, nonostante questo, mi avesse accolto nella sua casa, pur con le dovute precauzioni.
Nei giorni seguenti, mi tenni a debita distanza, però l’osservavo riprendersi, e ne ero felice.
Dunque, ero un gatto da esterno, consapevole del mio ruolo, con un’umana dal cuore d’oro: che cosa volevo di più? Da quel giorno la mia vita fu tutta un’altra storia.