RACCONTO DI UN SECOLO
PROLOGO
Pensando un giorno di riordinare le stanze a casa dei miei, intanto che guardavo mia madre ormai in età avanzata, mi soffermai al cassetto del comodino (nelle camere da letto, prima, ce n’era uno solo). Non era strano per me trovarvi dentro una serie di rosari provenienti da ogni santuario, immaginette sacre, libri e libricini rigorosamente di chiesa, di cui mia madre, seppur non sapesse leggere, era fornita.
Da uno di questi messali, quando lo presi in mano, cadde un foglio di carta, leggero come una piuma. Il foglio, volteggiando qualche attimo, si librava nell’aria e pareva cercare di attirare il mio interesse, quasi fosse un essere invisibile ad averlo estratto dal suo nascondiglio. Un’atmosfera magica pervase la stanza, e quella lettera cadde fra le mie mani protese. Incuriosita, l’aprii e con stupore mi trovai a leggere uno scritto a caratteri minuti che decifravo appena: era difficile capire le parole che vi erano impresse, anche se avevo inforcato gli occhiali. Mi avvicinai alla finestra, e con la luce diretta, iniziai a mettere insieme lo scritto.
Era la missiva di un conte, Romualdo Vittorio Amodei di Napoli, indirizzata a una certa Lucrezia di Pizzotano, il borgo calabrese dov’ero nata e dove tuttora vivevo, datata 10 gennaio 1901.
Il conte scriveva così:
“Mi fa piacere aver ricevuto dal notaro Amilcare Giuseppe Magistris la vostra disposizione circa la possibilità di un vostro trasferimento nelle mie proprietà, per i servigi da me richiesti. Aspetto il vostro arrivo nei tempi stabiliti comunicati dallo stesso notaro.
La mia servitù sarà ad attendervi nella tenuta di Posillipo. Io arriverò con la contessa Maria Elvira Alberti di Soriano, mia moglie, nei giorni a venire.
Romualdo Vittorio Amodei”
Seppur di poche parole, sembrava una lettera importante, una lettera che in quel momento vedevo come la prima pagina di una storia che voleva farsi scoprire proprio da me.
Rimisi scrupolosamente ogni cosa nel cassetto, sapendo quando mia madre tenesse ai suoi ricordi. Trattenni la lettera, con l’intento di chiedere spiegazioni proprio a lei, che ultimamente ricordava gli eventi del passato assai più di quelli presenti. Intanto fantasticavo, pensando a quella donna.
Mi vennero in mente i bisbigli sentiti qualche volta in paese, circa le origini poco chiare di una famiglia forestiera, la cui storia, tramandata di generazione in generazione, aveva assunto contorni fiabeschi. Avevo sempre pensato che fosse uno dei tanti racconti fantasiosi, che nelle sere d’inverno servivano a rompere la monotonia. Ora, però, mi solleticava la curiosità di scoprire di più sulla vicenda.
Iniziai le mie investigazioni quel pomeriggio stesso, davanti a un buon tè e circondate dal calore del caminetto, rivolgendomi all’unica persona di mia conoscenza che potesse essere al corrente di quei fatti antichi: mia madre. Ora toccava a lei raccontarmi la storia.
1. LA PARTENZA
Lucrezia aveva deciso di affrontare il viaggio in treno per Napoli, seguendo il consiglio dello zio, il notaio Magistris: egli molto legato al conte Romualdo Vittorio Amodei, del quale curava gli affari. Alla richiesta del conte di trovare per sua moglie una dama di compagnia, lo zio non aveva avuto esitazioni: Lucrezia, anche se molto giovane, era la persona giusta, poteva raccomandarla con fiducia.
Aveva mandato il giovane Francesco, che lavorava nelle sue terre, ad accompagnare la nipote alla stazione. Sebbene fosse la fine di marzo, la stagione era ancora fredda, e quella mattina il gelo entrava nelle ossa. Per suo consiglio, la ragazza aveva indossato un abito pesante e si era portata una coperta per proteggersi durante il viaggio. I convogli non erano riscaldati e il vento gelido si sarebbe fatto sentire.
Lucrezia prese posto in carrozza, mentre Francesco le sistemava i bagagli; a Napoli avrebbe trovato un servitore del conte per accompagnarla a Posillipo.
Il fischio del capostazione diede il via; lentamente il treno iniziò a muoversi e, svelando gli ultimi scorci della stazione, si addentrò in sterminate campagne. I sedili erano piuttosto scomodi e, nonostante la coperta, freddo e polvere entravano da ogni spiffero. Dopo la concitazione della partenza, con i dovuti saluti soprattutto alla nonna, che continuava a farle raccomandazioni, la giovane abbandonò il capo contro lo schienale imbottito e chiuse gli occhi.
Pensava alla spensieratezza che si stava lasciando alle spalle, mentre di fronte aveva il futuro, le speranze dettate dalla determinazione che non le mancava.
Il convoglio attraversava la nebbiosa campagna e le carrozze sembravano ondeggiare, con benefiche tappe, nelle piccole stazioni. Lucrezia, seduta vicino al finestrino, aveva dato appena un’occhiata alle persone che occupavano lo scompartimento: di fronte a lei c’era una donna elegante in un completo da viaggio rosso porpora, e di lato, vicino al corridoio, un signore con una ragazzina dai colori malaticci.
Lucrezia sfiorava la lettera del conte chiusa nella sua borsetta: l'aveva letta mille volte e si chiedeva se sarebbe stata all'altezza del ruolo che lo zio aveva scelto per lei.
Ripensava agli anni anni trascorsi con la nonna Clarice, lo zio Giuseppe e la cuoca Felicita. Con loro aveva vissuto un’infanzia serena, anche se la mamma le era sempre mancata. Di lei ricordava poco. Era morta di una malattia sconosciuta, prima dei suoi cinque anni. Nel salotto, però, nonna Clarice aveva fatto appendere un grande dipinto della mamma in tutto il suo splendore, in un vestito blu con lo strascico che scendeva al pavimento, guanti bianchi a coprire le mani appoggiate alla poltrona, e un viso bellissimo nei lineamenti e nei colori.
Lucrezia avrebbe sempre avuto un bel ricordo di quella casa: in particolare, amava la grande tavola ovale, con al centro una ceramica a forma di barca, bianca e dorata. Già da piccola aveva avuto l’accesso a quella tavola, anche se le era permesso parlare solo quando veniva servito il dolce. Nonna Clarice, già allora, era una persona avanti con l’età, ma manteneva un portamento diritto ed elegante.
L’intera famiglia era molto legata alla cuoca Felicita, non solo perché brava in cucina, ma anche perché, oltre al lavoro che le competeva, accompagnava la nonna dappertutto e spesso facevano lunghe chiacchierate insieme. Nei vent’anni di servizio alla villa, era sempre stata un punto di riferimento, e Lucrezia le era molto affezionata: ricordava come si divertiva, da piccola, quando Felicita la vestiva e la pettinava con grandi fiocchi colorati.
Aveva imparato dalla nonna a servire il tè e disporre i pasticcini sui piatti d’argento, e quando arrivavano le amiche, nei pomeriggi delle merende, dopo averle salutate con una bella riverenza, suonava per loro il pianoforte. Prendeva lezioni da una vecchia signorina, insegnante di musica e amica della nonna, ma non sempre era un’allieva eccezionale. Ogni mattina si pregava, la domenica si andava in chiesa per la messa e per confessarsi, spesso si recitava il rosario davanti al crocifisso sullo scrittoio, per chiedere protezione e aiuto. Bisognava anche studiare e leggere, ma per Lucrezia non era un peso, amava molto scrivere e, tra i libri della biblioteca, che a lei pareva immensa, aveva trascorso ore infinite.
In quella casa, con quelle persone, si era sempre sentita tranquilla e protetta, ma ora tutto sarebbe cambiato: stava per arrivare alla meta, nella grande Napoli. E sarebbe stata da sola. La paura per quel cambiamento di vita incominciava a farsi sentire: per vincerla doveva accantonarla e restare ferma e determinata, respingendo ogni confusione e gettandosi a capofitto nella nuova esperienza.
2. PRIME LETTERE DI LUCREZIA ALLA NONNA
Posillipo, 30 marzo 1901
Carissima nonna Clarice,
quando sono partita, ho promesso di scriverti ogni giorno, ora adempio il mio giuramento. Ieri avevo bisogno di riprendermi dalla stanchezza del viaggio e prepararmi alla nuova vita che devo affrontare. Sono arrivata a Napoli nel tardo pomeriggio e, come mi aveva assicurato zio Giuseppe, ho trovato un servitore del conte alla stazione. Dopo esserci accertati delle nostre identità tramite il nome ‘Amodei’, il solo conosciuto da entrambi, quell’uomo mi ha aiutata con i bagagli. Siamo usciti dalla stazione e, oltre il marciapiede, un’elegante carrozza ci attendeva per accompagnarci a Posillipo. Devo dirti che, vedendo tante persone e il trambusto usuale della città, a cui non sono abituata, mi sono eccitata. La carrozza, però, ha abbandonato il centro, attraversando quartieri più tranquilli e inerpicandosi sulla collina. Di tanto in tanto, spostavo le pesanti tendine di pelle, poste davanti ai finestrini per non far entrare polvere e schizzi di fango sollevati dei cavalli: purtroppo pioveva, e quel grigio panorama, in quel momento, rispecchiava i miei sentimenti.
Improvvisamente, ho visto apparire la torre di una villa isolata: un interminabile muro la teneva lontana dalla vita rurale del borgo.
La sua imponenza mi ha fatto pensare all’importanza della famiglia presso cui avrei abitato.
Ad accogliermi sullo scalone laterale dell’ingresso principale, ho trovato la governante, che si chiama Sofia. Subito mi è sembrata una donna austera, perché mi osservava dall’alto in silenzio, ma quando l’ho avuta di fronte, si è mostrata gentile, chiedendomi notizie del viaggio, e mentre mi accompagnava nella mia camera, mi ha già mostrato qualcosa della casa, parlandomi delle abitudini che la regolano. La villa ha un atrio centrale, da dove partono lunghe gallerie che si aprono in un giardino interno; percorrendole, ti trovi in mezzo a grandi sale riccamente decorate.
Un giorno, chissà, nonna, se potessi venire, sarei felice di farti vedere le meraviglie di questa casa che d’ora in poi sarà anche la mia.
La mia stanza si trova nell’ala destra della villa ed è tappezzata con seta cinese di vari colori, devo dire che mi piace. Questa notte ho dormito poco, sarà stato il trambusto del cambiamento, ma soprattutto l’ansia di dover aspettare ancora fino a domani l’incontro con il conte e la contessa Elvira.
A te posso dirlo, ho paura, ma ripenso a ciò che mi hai insegnato, allora mi dico di lasciarmi andare e godermi questa favola mondana e dorata per cui tu mi hai preparata. Non voglio deludere te e zio Giuseppe.
Ora aspetto la governante Sofia a cui darò la lettera da spedire, poi sistemo i bagagli.
Ti riscrivo presto, intanto saluta lo zio e Felicita.
A te, cara nonna, un abbraccio grande.
Tua nipote Lucrezia.
Posillipo 31 marzo 1901
Carissima nonna,
l’altra notte, nell’attesa di questo giorno, non ho dormito: ero agitata, come il vento che continuava a soffiare tra i pioppi attorno alla villa. Mi sono alzata molte volte a guardare dalla finestra, ho immaginato l’arrivo dei conti attraverso il viale: mi vedevo pronta all’ingresso, con il resto della servitù, per dare loro la giusta accoglienza.
Stamattina ho indossato il vestito grigio con il corpino di pizzo rosa, quello che mi hai detto di riservare alle grandi occasioni, oggi lo era sicuramente.
Da quando lo zio mi ha proposto di essere la dama di compagnia della contessa, non vedevo l’ora di incontrarla: è stata la governante Sofia a presentarmi ufficialmente. Ora spero solo di essere la persona giusta per lei e, credimi, ce la metterò tutta per farmi apprezzare.
Alle nove eravamo tutti nell’atrio, fortunatamente il vento si era calmato e il giardiniere era riuscito a spazzare il viale. Quando i conti sono scesi dalla carrozza, avevo il cuore in gola, ma, facendo la mia prima riverenza alla contessa, non ho abbassato lo sguardo. Ho subito ammirato la sua semplicità e il suo pacato modo di agire: mi ha guardata come se mi aspettasse da sempre; devo dirti che questo approccio mi ha fatta sentire meno sola. La contessa Elvira ha voluto che ci appartassimo nel salotto blu: è una stanza molto bella, con divani di seta azzurra e un antico caminetto di marmo giallo. La governante mi ha detto che di solito vi ospita le dame del suo rango, o le sue cugine. La contessa mi ha parlato con semplicità delle sue abitudini, di quello che faremo insieme durante la giornata. Mi ha chiesto molto anche di me. Le ho parlato del rapporto speciale con te, che sei la mia nonna-mamma, dei miei studi e dell’educazione religiosa che mi hai dato. Credo abbia molto apprezzato tutto ciò. Poco dopo è arrivato il conte: li ho lasciati soli a riposare e mi sono ritirata nella mia camera, per scriverti ogni cosa.
Un saluto e un caro abbraccio allo zio, a Felicita e a te.
Tua nipote Lucrezia.
Posillipo 1 aprile 1901
Carissima nonna Clarice,
dopo il primo giorno trascorso con la contessa, mi sento già meno timorosa di ieri. Siamo state insieme molto tempo, e ho potuto ammirare più a fondo la sua bellezza, sia esteriore che interiore.
È una donna molto colta, perché, come mi ha raccontato, ha avuto un’educazione umanistica completa, impartitale da religiosi, ed è stata allevata da una zia, una gran dama vissuta a corte. Sembra che questa zia abbia anche molto viaggiato, parli svariate lingue e conosca molto bene il latino.
La contessa Elvira, al contrario di quanto pensavo, è molto giovane, alta, attraente: ha una massa di capelli rossi raccolti sulla nuca e i suoi occhi castani brillano d’intelligenza.
Sembra, però, avere un carattere timido e riservato: mi ha fatto capire che è molto religiosa e trascorre diverse ore in preghiera, non ama la mondanità né i pettegolezzi dei salotti.
Anche se non le piace molto conversare, in compenso credo sia una buona ascoltatrice. Spero, col tempo, di conquistare la sua fiducia, e diventare la sua confidente!
Ora, nonna, ti lascio, devo prepararmi per la cena.
Saluto tanto lo zio, Felicita e te, vi abbraccio con affetto.
Tua nipote Lucrezia.
Posillipo 2 aprile 1901
Carissima nonna Clarice,
oggi il conte si è presentato nel salotto blu, per avere notizie dello zio, e gli ho riferito quanto mi aveva raccomandato. Lui è stato molto cordiale, mi ha annuncialo il prossimo arrivo dello zio a Napoli per curare alcuni suoi interessi; non so però se avrò modo di vederlo a Posillipo, io ci spero. Il conte mi è sembrato un uomo di spirito, pronto alla battuta. Certo è abile a tenere la scena, tanto da annullare ogni discorso della consorte, per questo posso dire che non la invidio affatto. Deve avere molti anni più di lei, il suo viso è alquanto rugoso. È comunque un bell’uomo, alto, con un profilo superbo. Ho saputo più tardi, parlando con la governante, che da giovane è stato sballottato tra tradizione e innovazione. La sua educazione, in un primo tempo, era stata marchiata dagli ideali illuministici della madre. Quando è giunto a Napoli dalla lontana Firenze, il padre ha cercato di rimediare, imponendogli un precettore molto rigido, e un sacerdote che doveva seguire ogni suo passo.
Secondo il parere della governante, per questo il conte ha sviluppato un carattere forte e debole nello stesso tempo, a volte anche troppo sensibile.
Oggi, marito e moglie hanno tenuto a informarmi sullo stato di salute della contessa, che ha bisogno di aiuto e tranquillità. Si sono affidati a me, perché le stia sempre vicino. “Lei dovrà essere l’ombra di mia moglie in ogni suo passo” così mi ha detto il conte. La cosa mi ha un po’ preoccupata. Ti scriverò il seguito, intanto penso alle tue benedizioni. A presto, tua nipote Lucrezia
Posillipo, 4 aprile 1901
Carissima nonna Clarice,
dopo aver appreso della salute cagionevole della contessa, ho sentito una maggiore responsabilità. Stamane, sul tardi, sono andata nella sua camera da letto, per aiutarla a vestirsi; mi ha consegnato un’agenda dove annotare gli appuntamenti che l’attendono nei giorni a venire. Talora, mi ha spiegato, sono impegni ufficiali, cerimonie come funerali o battesimi, altre volte si tratta di impegni leggeri, come le visite alle sue cugine, a dame di sua conoscenza o colazioni intime.
Oggi sono sempre stata al suo fianco, anche perché il conte è rimasto per ore chiuso in biblioteca, con ospiti a lei sgraditi, venuti da Napoli per affari. La contessa non ha voluto incontrarli, e mi ha chiesto di porgerle i sali, in un momento di malore.
Fino all’ora del tè siamo rimaste nel salotto blu, trascorrendo insieme un lungo e intenso pomeriggio. Insieme abbiamo letto un trattato su argomenti filosofici, piuttosto difficile.
In questa casa, mi sento attorniata affettuosamente da tutti i domestici: lo stato di salute della contessa richiede molti riguardi, e anch’io beneficio di queste attenzioni. Nonna, puoi stare tranquilla: mi trovo bene qui, anche se il mio compito è più impegnativo di quanto pensassi. Ora ritorno in sala da pranzo, ti riscriverò presto.
Un caro saluto allo zio, un abbraccio grande a Felicita e te.
Tua nipote Lucrezia
Posillipo 7 aprile 1901
Carissima nonna,
oggi sono ritornati gli ospiti sgraditi della contessa Elvira, che sembrano invece molto apprezzati dal conte, tanto che sono rimasti a pranzo. La contessa si è rifiutata di incontrarli, così noi siamo rimaste in camera tutto il pomeriggio. Stamattina, però, lei stessa si è interessata alla buona riuscita del pranzo. Insieme siamo scese nelle cucine scintillanti di rami: con la governante, ha controllato minuziosamente le bellissime argenterie, che i domestici avevano lucidato fino a rendere brillanti. Forchette, coltelli, cucchiai, coppette, pinze per la frutta e per gli asparagi sono stati apparecchiati su una tavola ricoperta di pizzi e fiandre.
Il conte, in questi ultimi due giorni, mi appare continuamente inquieto e di cattivo umore: sarà preoccupato per gli affari, per le visite di questi ospiti, o per la salute della contessa. Quando percorre le sale e i corridoi, ed è particolarmente scosso, a nulla servono le parole di conforto che la contessa prova a rivolgergli. Oggi poi, nel tardo pomeriggio, quando i suoi ospiti sono ripartiti, è passato da sua moglie per un attimo: era alquanto sudato e quasi ansimante, e ha annunciato alla contessa che nei prossimi giorni partirà per Napoli. “Alcuni affari non possono aspettare”. Penso siano gli affari che deve sbrigare con lo zio, e sono felice che possa incontrarlo, magari gli parlerà di me. Poi si è congedato da noi, per rifugiarsi nel suo studio. Ora devo congedarmi anch’io, la contessa mi aspetta per la recita del rosario.
Un caro abbraccio, tua nipote Lucrezia.
Posillipo 9 aprile 1901
Carissima nonna Clarice,
stamattina, aprendo la finestra, la mia stanza è stata inondata di luce, il cielo era più azzurro e le nuvole erano mosse da una leggera brezza. Finalmente vedo il primo sole, da quando sono alla villa, e questo mi rende ancora più entusiasta di iniziare una nuova giornata con la contessa. Non so ancora i suoi programmi, ma vorrei che anche lei si sentisse piena di energia, così da desiderare di uscire e fare una passeggiata nel parco.
Ricordo quando con Felicita percorrevamo il sentiero, deliziate dai profumi e dai colori degli alberi in fiore che circondano la nostra casa. Oggi vorrei che anche la contessa provasse una così intensa emozione primaverile. Vorrei camminare con lei tra le piante che rinascono, i fiori che cominciano a mostrare le corolle e ammirare con lei la stagione del risveglio. Ti racconterò poi se tutto questo è stato possibile.
Ora devo lasciarti, per adempiere il mio dovere: la contessa mi attente nella cappella per le lodi del mattino. Un abbraccio grande.
Tua nipote Lucrezia.
Posillipo 10 aprile 1901
Cara nonna,
poi ieri la contessa, dopo i dovuti riti di preghiera, ha voluto che facessimo una passeggiata.
Sai quanto io lo desiderassi, ma ho scoperto che era così anche per lei, infatti, quando ci siamo ritrovate nel grande parco, tra pioppi e lecci, l’ho vista felice.
Tra quegli alberi secolari, ci sono varie costruzioni, false rovine e grotte, con piccoli laghi, zampilli e capricci d’acqua.
Siamo arrivate fino a un antico edificio, con aperture ad arco chiuse da vetrate, che illuminano corridoi decorati da busti, inseriti in nicchie di epoca seicentesca. La contessa mi ha raccontato che, prima della malattia, veniva qui, con le dame di sua conoscenza, a scherzare tra questi busti, trovando loro improbabili somiglianze e mettendo ghirlande di fiori intorno al loro capo.
Ho notato con gioia che il suo spirito era migliorato.
Mi ha confidato che sarebbe stata felice se il conte fosse stato noi, per rallegrare la nostra passeggiata con le sue battute, ma lui, subito dopo colazione, si è defilato con garbo, rifugiandosi in biblioteca per i soliti affari.
Nel pomeriggio anche noi siamo rimaste nel salotto blu a leggere: la contessa sceglie libri sempre diversi, ieri abbiamo letto opere sulla morale stoica e sull’educazione. Devo dirti che alcuni passi erano interessanti, ho trovato concetti su cui riflettere.
Ogni volta che finisco di leggere ad alta voce, la contessa dice di avermi ascoltata volentieri, perché “so trasportarla nel libro stesso.”
Ora ti lascio, ma voglio che tu dia un saluto speciale alla mia Felicita, dille che mi manca tanto e le vorrò sempre bene. Saluta anche lo zio.
A te un abbraccio grande, ti riscriverò presto, tua nipote Lucrezia.
Posillipo 13 Aprile 1901
Carissima nonna,
oggi era il mio compleanno, mi siete mancati molto, tu, lo zio e Felicita.
Già ieri la contessa aveva ordinato la torta alla cuoca, ma non tutto è andato come mi aspettavo, anche se oggi, insieme a tutti gli abitanti della casa, ho avuto una grande gioia.
Come ogni sabato stamattina, è arrivato il cappellano per la messa; all’ora prestabilita, insieme alla servitù, ci siamo ritrovati nella piccola cappella della villa. Io ero seduta di fianco alla contessa, durante la celebrazione l’ho vista impallidire, ha dovuto sedersi. Il conte, accorgendosi del malessere, si è agitato tantissimo: voleva che tornassimo in camera, ma fortunatamente è bastato porgerle i sali.
Finita la messa, anche se oggi era una bella giornata di sole, non siamo riuscite a ripetere la passeggiata nel parco. Il conte ci ha seguite nel salotto blu, e ci ha proposto di scendere in carrozza fino alla spiaggia per una passeggiata sulla battigia.
“La salsedine e l’odore del mare aiuteranno la tua salute,” ha detto alla contessa. Ma lei ha voluto rimanere a casa.
“Oggi non mi sento, riprenderò i miei ricami a modello francese,” ha risposto.
Così siamo rimaste di nuovo sole, e il suo malore dopo un po' è ritornato: ho avvisato subito il conte, che non era partito proprio per lo stato di salute di sua moglie.
“Non possiamo attendere il dottor Morelli da Napoli. Sofia, fai chiamare il primo medico disponibile in paese.”
La carrozza è subito partita, per ritornare poco dopo con il dottore.
La contessa lamentava dolori addominali. Qualche giorno fa, Sofia mi aveva parlato di ciò che immaginava, il dottore lo ha confermato.
“La signora Contessa aspetta un bambino: dovrà riguardarsi, almeno nei primi mesi.”
La gioia è stata grande e condivisa da tutti, qui a palazzo. Per la prima volta ho visto negli occhi del conte un’espressione raggiante e incredula.
Per me è stato come un bel regalo di compleanno: l’arrivo di una nuova vita porta sempre felicità, è quello che tu mi hai insegnato da sempre, nonna. Ora dovrò stare ancora più vicino alla contessa, e se qualche volta le mie lettere ti arriveranno con minor frequenza, stai serena, perché sarete comunque nei miei pensieri e con voi la tua benedizione.
Quel “binidittu” che mi accompagna da quando sono nata, oggi mi è rimbalzato alla mente molte, molte volte. Grazie!
Tua nipote Lucrezia
3. ABITUARSI AL NUOVO
Erano già trascorsi tre mesi, da quando anche il dottor Morelli, dopo aver visitato la contessa, aveva confermato la necessità di riposo assoluto per tutta la gravidanza. Lucrezia non era entusiasta della situazione. Seppur abituata sin da piccola a una vita ritirata e tranquilla con la nonna, aveva sperato, a Napoli, di conoscere nuovi posti e gente diversa, insomma, di assaporare qualche novità.
La sua voglia di vivere e di evadere era cresciuta negli anni, ma aveva sempre dovuto nasconderla, come aveva confidato alla contessa in un pomeriggio di confessioni reciproche. Il tempo passato in sua compagnia, doveva ammetterlo, non era stato solo un noioso ed eterno tran-tran, chiuse in una camera tra libri, ricami e preghiere.
Era giugno, e ormai poteva dire di conoscerla piuttosto bene: la contessa stessa gliene dato modo, parlandole apertamente e raccontandole molto di sé.
Come tutte le giovani aristocratiche, Elvira era stata destinata fin da piccola a un ruolo prefissato: la sua vita da adulta era stata impostata e decisa dalla famiglia. Entrambi i genitori erano di antico lignaggio, che discendeva dal Regno delle Due Sicilie: le origini del loro cognome risalivano a un gentiluomo di nome Francesco, che era stato segretario del Re Carlo II d’Angiò. Perciò erano stati i genitori a decidere per la figlia. Ci voleva un marito – allora era quasi inconcepibile per una donna non averlo. Doveva essere ricco, ma, soprattutto, doveva appartenere a un’illustre casata: la protezione del matrimonio e di un buon nome, nel loro ambiente, pareva obbligatoria.
Compiuti i sedici anni, i genitori avevano incominciato a presentare Elvira agli amici più influenti e a farle conoscere possibili partiti; durante i ricevimenti dati allo scopo, la giovane era spesso invitata a suonare il pianoforte intrattenendo gli ospiti.
La contessa ricordava bene quella sera del 1888: dopo pranzo, proprio nel momento in cui avrebbe dovuto suonare, il padre le aveva chiesto di tornare a sedersi con gli altri componenti della famiglia. Elvira aveva compreso dallo sguardo di sua madre e dal tono solenne del padre che sarebbe stato annunciato qualcosa d’importante per lei: il cuore le era salito fino alla gola.
Il marito scelto era il conte Amodei. “È un galantuomo, ti farà felice. Fisseremo la data delle nozze quanto prima.” Questo era stato l’annuncio del padre. In fondo, il conte le avrebbe dato un titolo di grande prestigio; lei per contraccambiare avrebbe dovuto dargli un erede e rimanergli fedele nella buona e nella cattiva sorte.
Elvira, giovane e ingenua, si era fidata dei genitori che la volevano contessa. Come spesso accadeva, le fanciulle date in moglie ai “gentiluomini” diventavano un loro possesso e dovevano rinunciare a ogni loro volontà. Ma quella era stata la decisione di suo padre, così Elvira aveva chinato il capo con un forzato sorriso, e aveva risposto: “Come pensate sia meglio per me, padre, mi rimetto al vostro giudizio.”
Nel raccontare a Lucrezia del suo matrimonio, la contessa non aveva lesinato i dettagli. Il suo non era stato certo un matrimonio d’amore, e forse non era stato neppure visto di buon occhio dalla nobiltà. Perché?
La cerimonia, discreta e non troppo fastosa, fu comunque assai raffinata. L’abito da sposa, cucito in una grande sartoria di Firenze, era un modello esclusivo, pensato apposta per lei, di figura esile: era di raso blu, con la sottogonna in tarlatana. Ogni volant terminava con un fiocco di nastri frastagliati sullo strascico, una tunica pieghettata sul davanti con in basso una frangia di perle bianche, con un corpino accollato foderato di raso come le maniche, il velo e i guanti oltre il gomito. (descrizione confusa, da rivedere).
La freschezza della giovane Elvira era molto piaciuta al conte.
Lucrezia si era meravigliata della descrizione meticolosa della contessa, aveva ricordato proprio tutto del giorno, del suo matrimonio. Il suo promesso sposo aveva allora trentuno anni, era un uomo posato, attento ai beni della famiglia di cui si occupava personalmente in qualità di maschio primogenito, le sorelle dello sposo Amelia e Luigia la contessa le aveva conosciute qualche giorno prima del matrimonio: la prima sarebbe partita qualche giorno dopo per il convento del Sacro Cuore, perché destinata alla vita monastica, la seconda era la prediletta del fratello, ma viveva in una riservatezza estrema per la sua salute cagionevole. La contessa, molto giovane si era affidata così al giudizio dei suoi genitori ed anche se il suo non era stato un matrimonio d’amore, le affinità e l’educazione a detta loro era sufficiente a dare solidità alla sua unione con il conte. Un giorno la contessa raccontò ancora di quando dopo la cerimonia religiosa un gruppo di ragazzi vestisti da paggi durante il ricevimento, avevano cantato un’ode all’amore e alla famiglia, “un canto timido” aveva detto, ma che esplodeva nel ritornello, di cui la contessa ne cantava ancora delle note. In quei mesi trascorsi, tra le altre confidenze Lucrezia aveva anche conosciuto l’increscioso avvenimento che poi alla fine aveva sconvolto molto il rapporto tra la contessa e suo marito: sette anni prima, avevano già avuto una bambina: la piccola Maria Rosaria, volata in cielo ancora in fasce. Questo fatto aveva raffreddato ancora di più il loro equilibrio matrimoniale, il conte d’allora pensava sempre ancora di più esclusivamente agli affari e molto sovente rimaneva nella tenuta di Napoli per serate con gli amici, mentre la contessa, da quando la piccola Maria Rosaria era mancata, si ritrovava sempre più volentieri a Posillipo.
“Ora non posso per il mio stato, aveva confidato a Lucrezia, ma prima il mare e la spiaggia di questo luogo erano la mia forza.”
4. GIORNI DI NOVITÀ
La brezza che arrivava dal mare, spettinando i pioppi e gli alberi intorno alla villa, mitigava il caldo di quel mese di luglio.
La contessa si era ripresa: dopo i primi mesi di riposo, la gravidanza procedeva abbastanza bene. Il conte, anche se spesso era a Napoli per affari, rientrava nel giro di qualche giorno, preoccupato per la salute di sua moglie e per quel bambino, non ancora nato, che attirava già i suoi pensieri.
In molte occasioni Lucrezia aveva notato come il suo atteggiamento fosse cambiato, quasi a farlo sembrare una persona diversa.
La sera si fermava ad ascoltare le letture in salotto e qualche volta, dopo pranzo, deliziava la moglie e Lucrezia suonando il pianoforte, prima di ritirarsi nella sala del biliardo, costruito su misura per lui, troppo alto per potersi curvare su un tavolo tradizionale.
A fine giornata, Elvira e Lucrezia restavano insieme sotto il portico, a godersi lo spettacolo della sera: dal giardino di bossi e aceri bianchi ci s’incantava a guardare il sole tramontare, tra le nuvole spruzzate di rosso.
I conti avevano ricevuto un invito per il 13 luglio: avrebbero dovuto presenziare alla collocazione del busto di Salvatore Tommasi (medico patologo Abruzzese) nel cortile delle statue, all’Università degli studi di Napoli, Federico II.
La contessa aveva molto aspettato l’evento e ora, visto che il suo stato era migliorato, decise insieme al marito di non rinunciarvi.
“Per di più, ho bisogno di farmi fare qualche vestito nuovo, aveva detto al marito. Le forme del mio corpo cambiano, devo rinnovare il guardaroba. Naturalmente, Lucrezia verrà con noi”.
“Va bene! Domattina partiremo di buon’ora, così non dovrai affaticarti, nelle ore più calde”.
Lucrezia quasi non chiuse occhio, quella notte: era raggiante, anche se sarebbe stata l’ombra della contessa. Ma di questo si sentiva orgogliosa.
Quel mattino, aprendo la finestra, la ragazza fu abbagliata dal sole; versò il bricco dell’acqua nel catino e, dopo essersi lavata, indossò il suo vestito migliore, con un cappellino ornato di tulle grigio-blu. Sarebbero rimasti per qualche giorno a Napoli, a palazzo, così preparò una piccola borsa da viaggio con l’occorrente.
Il sole non era ancora alto quando salirono in carrozza.
Mentre procedevano adagio, per evitare scossoni alla contessa, anche se non lo dava a vedere, Lucrezia esultava: quella piccola trasferta le avrebbe permesso di visitare Napoli per la prima volta. Aveva fatto lo stesso tragitto solo qualche mese prima, ora rivedeva quei luoghi con entusiasmo diverso. Ammirava il mare in tutta la sua bellezza, quel blu intenso che sfumava nell’azzurro del cielo. Mentre scendevano per le suggestive rampe che collegano Posillipo a Mergellina, le venne da chiedere alla contessa: “La montagna che si staglia sullo sfondo del golfo… è quello il Vesuvio?” Elvira lo confermò, e il conte aggiunse, chinando un po’ il capo verso il finestrino e indicando la riviera più in basso: “Quello è Castel dell’Ovo, sì, quello che si allunga sul mare… E laggiù, vede quelle ville? Sono le case signorili della Riviera di Chiaia, che incorniciano il lungomare, e si distendono su per la collina del Vomero, fino al Forte Sant’Elmo.”
La carrozza proseguiva il suo viaggio, Lucrezia quasi non riusciva a cogliere tanta bellezza in un colpo solo, ma era felice.
Il conte, apprezzando il suo entusiasmo, propose alla moglie: “Al nostro ritorno a Posillipo, faremo una gita sulla terrazza di Sant’Antonio, così la signorina Lucrezia avrà modo di ammirare la veduta più suggestiva di Napoli.”
Intanto erano giunti in città. Nel centro storico percorsero strade e vicoli affollati: tante persone stavano sugli usci delle botteghe, industriandosi in qualche piccolo lavoro artigianale.
“Per mandare avanti la famiglia,” aveva spiegato la contessa a Lucrezia. A ogni angolo della città, s’incontravano bambini e ragazzi dagli abiti stracciati. “Sono gli scugnizzi,” aveva detto il conte. “Ne vedrai in questi giorni, bisogna stare attenti quando si avvicinano: sono collegati alla malavita napoletana, ma per farseli amici basta donargli qualche moneta.”
Finalmente il cocchiere fermò i cavalli: erano sotto casa. Il palazzo, situato in uno stretto vicolo, in un rione di cui Lucrezia in quel momento non afferrò bene il nome, aveva due grandi portoni arricchiti da sirene di pietra, che invitavano a entrare. Oltre la soglia, due cortili diversi: il primo più semplice, dalla forma semicircolare, decorato da grandi finestre con vetri a cattedrale; nel secondo, una scala monumentale al centro, e dietro un giardino quasi segreto.
I servitori vennero loro incontro, portando i bagagli nelle camere. Dopo un ristoro e un buon riposo, marito e moglie decisero che, per la contessa, era meglio evitare la lunga e noiosa cerimonia nel cortile delle statue. Il conte avrebbe esposto le sue scuse alla commissione, ed Elvira avrebbe potuto dedicarsi a più gradevoli attività.
Quelli seguenti, per Lucrezia, furono giorni di novità: le due donne andarono per negozi e sartorie e, tra vestiti e sottane, alla fine la contessa aveva commissionato mezza dozzina di capi, che sarebbero stati confezionati nelle settimane a venire. Nei loro spostamenti in carrozza, tra i corsi principali, non mancarono di visitare la città, ammirando anche solo di passaggio monumenti come la fontana di Nettuno, l’obelisco all’Immacolata, la chiesa di San Domenico, la statua del Dio Nilo e Castel Nuovo.
La permanenza in città si prolungò qualche giorno più del previsto, per impegni improvvisi del conte.
“Visto che siamo ancora qui, domani potremmo andare in Duomo per la santa messa,” fu la proposta della contessa, una sera dopo cena. Il conte non poteva accompagnarle, ma Lucrezia ne fu entusiasta: avrebbe scoperto un altro pezzo della storia di Napoli.
Il caldo in città incominciava a essere opprimente; ritornarono alla frescura di Posillipo qualche giorno più tardi.
5. UNA TRISTE NOTIZIA
La calura di quell'estate fu spezzata da qualche sporadico temporale e già a fine agosto la frescura, soprattutto serale, iniziava a farsi sentire. Una sera, sotto il portico, ricordò un detto che la nonna sempre le ripeteva: “Agustu è capu di viernu”. La contessa, meravigliata, volle appuntarlo sulla sua agenda.
Già a metà settembre le loro serate sotto il portico vennero a mancare, e solo qualche giorno più tardi arrivò una lettera di nonna Clarice a scaldare il cuore di Lucrezia.
Pizzotano 10 settembre 1901
Mia cara nipote,
vengo a te con questo mio scritto perché lo zio mi ha confermato il suo incontro con il conte, così approfitto dell’occasione per sentirmi e sentirti vicina.
L’istinto di protezione che provo nei tuoi confronti si è radicato in me quando eri piccola: non volevo che crescessi, speravo di poter vivere insieme a te ogni momento, il più a lungo possibile. Sei stata il meraviglioso dono che Dio mi ha dato, ricordalo sempre, soprattutto quando i dubbi e i momenti tristi arriveranno nella tua vita.
Ti so bene nella nuova casa; il rapporto con la contessa, da ciò che mi hai scritto, è davvero speciale: questo mi consola, perciò non aver paura di niente e di nessuno, vivi la tua vita e non farti scoraggiare se qualche volta incontri delle difficoltà.
Hai avuto la fortuna d’incontrare brave persone, ricche di umanità, al di là dei titoli e delle onorificenze: saperti serena con loro che ti apprezzano e ti vogliono bene, fa sentire felice anche me. Sono contenta anche per il conte e la contessa, del lieto evento che presto verrà ad arricchire la loro vita.
Ho pregato lo zio di chiedere al conte di lasciarti venire a casa qualche giorno per il prossimo Natale. Non ho più tante cose da insegnarti, ma ho ancora tanto da raccontarti e molto tempo per ascoltarti. Felicita ti saluta e come me aspetta il tuo arrivo già da ora.
Ti abbraccio di tutto cuore e domando ogni giorno all'Altissimo di benedirti, come io ti benedico.
“Binidittu”, tua nonna Clarice.
Passarono alcune settimane. Lucrezia, dopo l’ultima lettera di nonna Clarice, non ebbe più notizie della sua famiglia. La cosa la rattristava e la rendeva alquanto inquieta: era sempre più agitata all'arrivo della posta e, all’ennesima delusione, cadeva nello sconforto. La contessa cercava di distrarla con letture e chiacchiere varie, ma il tempo trascorso nell’ansia a Lucrezia sembrava interminabile.
Un pomeriggio, su suggerimento di Elvira, andò in biblioteca, dove il conte, intento a consultare alcuni documenti, se la ritrovò davanti in lacrime.
“Scusi, conte Amodei, lei ha forse notizie di mio zio? Già da qualche settimana non ricevo lettere.”
“Tranquilla… Signorina Lucrezia, non si angosci, magari è solo questione di posta che ritarda. Non faccia così, domani le prometto che, andando a Napoli, invierò un telegramma a suo zio, chiedendo spiegazioni. Vedrà che tutto andrà bene.”
Lucrezia, dopo quella promessa, riuscì almeno in parte a vivere i giorni seguenti con più serenità, aspettando la risposta dello zio. Ma ne trascorsero ancora parecchi prima che il conte rientrasse a Posillipo. Quando finalmente arrivò, Lucrezia corse immediatamente nello studio per avere notizie.
La porta era leggermente accostata; la giovane, con il suo groviglio di pensieri, bussò: due toc-toc pieni d’ansia e di contegno. Marito e moglie l’aspettavano insieme.
“Vieni, Lucrezia, accomodati. Finalmente abbiamo notizie, e vorremmo condividerle con te.” Lucrezia si sedette di fianco alla contessa e il conte le porse una lettera: lo zio gliel’aveva fatta recapitare, con la preghiera di non lasciare sola sua nipote nel momento in cui l’avrebbe aperta.
Lucrezia, già dai loro sguardi, aveva intuito la gravità del contenuto. Si rivolse a Elvira, cercandone il sostegno: la contessa le posò la mano sull'avambraccio, per incoraggiarla. Quel gesto fu il suo modo di esserle vicina.
Pizzotano, 10 ottobre 1901
Cara nipote,
con grande dispiacere devo comunicarti un fatto grave che ha sconvolto le nostre vite. Il 2 ottobre scorso, è venuta a mancare nonna Clarice, in seguito ad apoplessia.
È stato tremendo non poterla aiutare, essere inermi davanti a una malattia fulminea come questa. Tutto si è concluso nel giro di qualche giorno. Data la tua lontananza, sarebbe stato inutile farti partire: non saresti comunque arrivata in tempo.
Sappi che la nonna è morta nella grazia di Dio, con il sorriso sulle labbra, e voglio che anche tu sia serena: non sarà facile, soprattutto per te, affrontare questo lutto, ma dovrai essere forte e affidarti alla preghiera, come Lei ti ha sempre insegnato.
Cercherò di venire presto a Napoli: in quell'occasione, con il permesso del conte, verrò a trovarti e passeremo un po’ di tempo insieme.
Un abbraccio, zio Giuseppe.
Quello fu un giorno indimenticabile per Lucrezia, il dolore e la sofferenza per quella notizia erano entrati in lei: la mancanza della nonna era lo sconvolgimento più grande della sua vita. Indimenticabili erano i ricordi che continuavano a balenare nella sua testa, tanti gli aneddoti piacevoli, gli insegnamenti di sua nonna, ma il pensiero che non l’avrebbe mai più rivista la faceva soffrire terribilmente.
Passarono alcune settimane, Lucrezia cercava di rimanere aggrappata a tutte le belle emozioni che avevano fatto parte del suo vissuto con la nonna. Piangeva in silenzio e di nascosto dalla contessa, per non darle preoccupazioni. Si lasciava andare agli sfoghi solo con la governante Sofia. La sera, dopo che il conte e la contessa si erano ritirati, le due donne rimanevano in cucina, davanti a una tazza di tisana rilassante di cui Sofia faceva largo uso.
Era quasi la fine di ottobre, quando fu proprio Sofia a consegnare a Lucrezia una busta con il timbro postale del suo Pizzotano: non c’era mittente e Lucrezia sorpresa e curiosa l’aprì in presenza della contessa. Era una lettera di Felicita.
Pizzotano 24 ottobre 1901
Mia picola Lucreza,
ti scrivo picchì o pensato che in questo momento, ti serve tuto lo appogio posibile. Mi mancasi tu e tanto mi manca la signora Clarice, ma ti o insieme dajnta lu cori mio, io mi aguro chi priestu mi vienisi a trovare. Mo ti penzu chi sei triste e maliconica pi la morti di la tua cara nona, ma devi esere invece serena, picchì idda ghe morta cu la grazia di Dio. Stava bona, ma la malatìa e stata impruvisa. Nelle sue utime simane supa sta terra è stata filici, picchì già pinsava a quannu tu arrivavasi pi Natali. Già mi racomandava ogni cuntu pi quiri pochi jurni chi stavasi qua cu nuj. Mi mi aveva già fattu la lista di cunti da cucinà e di cunti da preparà picchì nenti aviedda mancà quannnu arrivavasi. . Io ti suncu vicina e ti pensu sempi, suncu sempi la tua Filicita, e quannu vuoi mi trovasi qua, puru cu li littiri , quannu vuoi scrivimi, ca io ti risponnu cumi pozzu, ma ru fazzu cu lu cori, picchì ti vogliu beni.
Ti abracio Felicita.
TRADUZIONE
Mia piccola Lucrezia,
Ti scrivo perché ho pensato che in questo momento ti serve tutto l’appoggio possibile. Mi manchi e mi manca tanto anche la signora Clarice, ma vi porto insieme nel cuore, e mi auguro che presto tu mi venga a trovare. Ora penso che sei triste e malinconica per la morte della tua cara nonna, ma devi essere invece serena perché lei è morta con la grazia di Dio. Stava bene, ma la malattia è stata improvvisa. Nelle sue ultime settimane terrene è stata felice, perché già pensava a quando saresti arrivata per Natale, già mi raccomandava ogni cosa, per quei pochi giorni che saresti rimasta con noi. Mi aveva già fatto fare una lista di cosa cucinare e di cose da preparare, perché niente sarebbe dovuto mancare al tuo arrivo.
Io ti sono sempre vicina e ti penso sempre, sono sempre la tua Felicita e quando vuoi, mi trovi qui, per quando vorrai scrivermi, io ti risponderò come posso, ma lo farò con il cuore perché ti voglio bene.
Ti abbraccio, Felicita.
6. ARRIVO DELLA VITA
Quella notte del 24 novembre 1901, a tener svegli gli abitanti della villa furono le doglie della contessa, insieme a una grande bufera che si era abbattuta nel circondario. Fortunatamente il dottor Morelli, fatto chiamare con largo anticipo, era arrivato qualche giorno prima.
Era domenica mattina, quando venne alla luce il piccolo Ferdinando, l’erede tanto atteso, che avrebbe permesso la prosecuzione del casato Amodei. L’evento ruppe la monotonia, portando una ventata di gioia che coinvolse tutti, alla villa, compresa Lucrezia, molto provata per la perdita della nonna.
Fortunatamente, dopo le difficoltà della gravidanza, la contessa aveva avuto un buon parto e nel giro di due settimane poté ritornare a nuova vita, con il piccolo tra le braccia, tanto da pensare ai preparativi del battesimo che si sarebbe celebrato nella cappella della villa, durante le feste del prossimo Natale.
Per l’occasione, nella seconda settimana di dicembre, arrivò in villa un noto commerciante di stoffe, amico del conte. Veniva da Firenze, dove possedeva un grande emporio di tessuti pregiati, fiorentini e non solo, provenienti da ogni parte del mondo. Per il battesimo ci sarebbe stata una grande festa ed Elvira voleva rinnovare le tende del corridoio centrale e del salone: a suo parere i vecchi drappi di pesante velluto lasciavano filtrare poca luce, rendendo l’ambiente tetro e antiquato.
Il 7 dicembre 1901 Lucrezia vide per la prima volta Angelo Giovanni Fiorentini. Fu un incontro brevissimo, mentre lui presentava il suo campionario alla contessa, e Lucrezia percorreva il corridoio per raggiungere la sua stanza, sull'ala destra della villa.
Quel passaggio e una breve presentazione formale bastarono al commerciante per chiedere in seguito notizie di lei al conte.
Fiorentini ritornò in villa la settimana successiva e ci volle un giorno intero per montare i nuovi drappeggi, sebbene quasi tutta la servitù fosse impegnata in quel lavoro.
Angelo Giovanni, quel giorno, fu invitato a pranzo. Lucrezia, a tavola, se lo ritrovò seduto davanti: si sentiva imbarazzata, anche se lui sembrava più attento al suo bicchiere che non all'imbarazzo che le stava causando.
Fu dopo il pranzo, però, dopo che la contessa si era congedata per badare al piccolo Ferdinando, che un po' sul serio e un po' sul faceto, con l’approvazione del conte, l’ospite porse il braccio a Lucrezia per scortarla nel salotto blu.
“Questo ambiente mi ricorda molto la mia casa di Firenze,” le disse Angelo Giovanni, ammirando i raffinati dipinti che idealizzavano un mondo quasi fiabesco. “Mi piacerebbe che un giorno potesse vedere il mio mondo...”
“Chissà,” balbettò Lucrezia, “forse…”
Il colloquio fu interrotto quasi subito dall’arrivo del conte, e Lucrezia si sentì sollevata per l’intromissione. Non sapeva ancora che, per volere del conte e con l’approvazione dello zio Giuseppe, ci sarebbero stati altri fugaci incontri con il commerciante.
Lucrezia non immaginava che quell’uomo avrebbe segnato una svolta imperiosa nella sua vita.
Nel tardo pomeriggio, ultimati i lavori in villa, Angelo Giovanni, dopo un breve incontro con il conte nello studio, venne nel salotto blu per congedarsi anche da Elvira e Lucrezia, ripartiva per Firenze la sera stessa.
“È stato un onore incontrarla, signorina” disse rivolgendosi a Lucrezia. “Rare volte capita d’incontrare una persona e sentire qualcosa di speciale per lei al primo sguardo.”
A Lucrezia, quello sembrò un saluto alquanto sfacciato, ma nel contempo si sentì lusingata di tanta ammirazione, e quando Angelo Giovanni sfiorò con le labbra la mano che lei aveva teso, sentì un brivido correrle lungo la schiena: nessun uomo fino a quel momento si era rivolto a lei con quel garbo e con quello sguardo capace di penetrare nel profondo. Fu solo un attimo, ma le bastò per ripensarci tutta la notte nel buio della sua camera.
Il giorno dopo, Lucrezia si alzò all’alba e rimase alla finestra per un po'. Un vento fugace sembrava volersi appropriare delle scintille di fantasia che le balenavano in mente, e lei lasciò che volassero via.
Si sedette allo scrittoio, intrise il pennino nel calamaio, e scrisse alla sua Felicita.
Posillipo 8 dicembre 1901
Carissima Felicita,
puoi immaginare la grande gioia che ho provato nel ricevere la tua lettera, ti ringrazio infinitamente per questo dono: avevo proprio bisogno di ritrovarti, ora che la nonna non c’è più. Tu sola sei la sola che può ridarmi la gioia di parlare di lei: ho tanto bisogno di ricordare com’era, voglio tener vivo dentro di me ciò che abbiamo vissuto insieme ed evocare ogni momento. Voglio pensare di incontrarla ogni notte nei miei sogni, che mi faccia un sorriso e magari una carezza. Voglio pensare insieme a te che la nonna sia sempre con noi, ricordarla nel cuore e tra le righe dei nostri scritti.
Non so se possiamo racchiudere ogni cosa di chi ci ha amato su un foglio di carta, ma voglio provarci, descrivendolo a te. Continua anche tu a scrivermi, a raccontarmi ogni tuo giorno, sarò felice di fare altrettanto. Sai il bene che ti voglio e non potrei fare a meno del tuo affetto.
Ti abbraccio forte, tua Lucrezia.
7. FESTE E SORPRESE
I fervidi preparativi per il battesimo del piccolo Ferdinando, e il pensiero che per l'evento lo zio Giuseppe sarebbe arrivato a Posillipo, rallegravano Lucrezia, tanto che i giorni trascorsero in un baleno. Anche il Natale, che in quel 1901 cadeva di mercoledì, fu vissuto tra le mura domestiche, pensando alla domenica successiva, giorno in cui si sarebbe svolta la cerimonia.
Erano stati invitati solo alcuni intimi, tra cui le due cugine di Elvira con i rispettivi mariti, qualche amico del conte con le consorti; qualcuno sarebbe venuto da solo, tra cui Angelo Giovanni.
Quella mattina del 29 dicembre lo zio Giuseppe arrivò molto presto e, dopo un grande abbraccio liberatorio da parte di Lucrezia, poterono rimanere per un po' da soli nel salotto blu.
“Avevo proprio bisogno di vederti, zio. Da quando la nonna non c'è più, mi sembra che la famiglia sia dispersa, e questo non vorrei mai che accadesse, soprattutto ora che tu ed io siamo rimasti soli con Felicita”.
“A proposito, lei ti manda i suoi saluti, e mi ha riferito che ora ha iniziato anche a scriverti,” rispose lo zio.
“Sì, zio, sono molto felice per questo. Quando torni a casa, sono certa che saprai come farle sapere il mio affetto, e le racconterai di questa mia nuova famiglia.”
“Già, la famiglia!” riprese lo zio. “Non pensi che sia ora di pensare a formarne una tutta tua?”
“No, zio, non credo di esserne pronta: ho ancora tanti sogni, e vorrei poter decidere della mia vita più avanti, quando avrò più esperienza, e poi, vorrei trovare una persona che mi faccia sorridere e star bene.”
“Queste sono solo fantasie da ragazza,” la interruppe lo zio. “Sei già in età, bisogna pensare anzitutto a un buon partito. Il tempo aiuta anche il sorriso, quando si può godere di un buon patrimonio.”
Lucrezia rimase sorpresa da quelle parole, ma non ebbe modo di replicare. La governante era venuta a chiederle di raggiungere Elvira nella camera dal piccolo Ferdinando, per aiutarla nei preparativi.
“Ci vediamo dopo, in cappella,” disse, rivolgendosi allo zio.
“Sì, ma riprenderemo l'argomento prima della mia partenza.”
Per volere della contessa, Lucrezia ebbe una posizione di primo piano nella cerimonia del battesimo di Ferdinando, era stata scelta come madrina. Il piccino le fu posto tra le braccia nella camera da letto, perché lo portasse nella cappella, adornata per l’occasione di fiori bianchi.
Sofia aveva poggiato sul sagrato anche la bottiglietta dell’acqua, una fetta di pane e l’asciugamano di lino bianco, con cui si sarebbe svolto il rito battesimale. Alla fine della cerimonia, il canonico, venuto dalla diocesi di Napoli, pose al collo del piccolo Ferdinando una medaglia d'oro, con l'impronta del nome di Gesù da una parte e San Giovanni che battezzava il Signore nel Giordano dall’altra.
Per Lucrezia fu una grande gioia sentirsi parte nella cerimonia.
Terminato il rito religioso, il piccolo fu lasciato alle cure della balia, e gli invitati si riunirono nella sala, dov’era stato allestito il tavolo da pranzo. Angelo Giovanni le venne incontro all’ingresso, dimostrando da subito molte premure nei suoi confronti. Lucrezia, con lui, fu educata ma fredda; finse di ignorare gli atteggiamenti servili che l'uomo assumeva davanti allo zio, sperando che quel comportamento passasse inosservato.
Il pranzo si protrasse fino al tardo pomeriggio, quando gl’invitati presero congedo. Mentre il conte ed Elvira si dedicavano alle dovute cerimonie di commiato, Lucrezia si ritrovò ancora a discutere da sola con lo zio. Si erano appartati in un angolo della sala: Lucrezia, dietro i vetri della finestra che dava sull’ingresso principale, osservava gli invitati allontanarsi in carrozza, lo zio con i pollici infilati nel panciotto, le parlava.
“Non pensi che Angelo Fiorentini sia una brava persona?” disse, accennando al commerciante che, con un sigaro tra l’indice e il medio, se ne stava a fissare il camino, mentre uno dei servitori lo ravvivava con la legna.
“Sì, certo! Perché dovrebbe essere altrimenti.” rispose Lucrezia, senza girarsi a osservarlo. “Per quel che lo conosco, è una brava persona. Ma perché parlare di lui, quando avremmo molte cose da raccontarci sulla nonna… su Felicita. Mi piacerebbe tornare a casa per un po’, manco da così tanto tempo.”
“Sì, tranquilla, ci penseremo. Verrai appena possibile, magari questa primavera… ora credo che la contessa abbia bisogno di te. Visto che ti hanno accolta così bene, non mi sembra il caso di lasciarli in un momento come questo. Ferdinando è ancora piccolo, ha bisogno di cure; credo che per ora i conti vogliano godere ancora della tua compagnia… saranno loro a decidere, quando farti tornare a casa.”
“Potresti parlare con loro: mi piacerebbe ritornare presto, almeno per un breve periodo. Ho voglia di vedere Felicita, di far visita alla nonna e alla mamma al cimitero”, riprese Lucrezia.
“Va bene, lo dirò al conte: magari potremmo anticipare di qualche settimana una tua vacanza, sei contenta?”
“Sì, zio, grazie! Ti voglio bene.” Gli schioccò un bacio sulla guancia.
“Su, su, cosa sono queste smancerie? Veniamo a noi…alle cose serie.” disse lo zio, accomodandosi sul sofà e indicandole il posto vuoto per far sedere anche lei.
“Vorrei parlarti di Angelo Giovanni” disse, afferrando la mano della nipote. “Ha chiesto a me e al conte il permesso di venirti a trovare di tanto in tanto. Ha intenzioni serie nei tuoi riguardi, per di più ha una buona posizione, perciò vorrei tu fossi gentile con lui.”
“Zio, ma…”
“Mia cara, voglio che tu lo faccia per il tuo bene. Ora siamo soli, l’hai detto tu stessa, non voglio che quando io non ci sarò più tu possa rimanere ancora più sola: devo pensare al tuo futuro, e se un uomo di qualità come Angelo Giovanni può essere il tuo domani, sarò ben felice di approvarlo e sostenerlo, nel tuo interesse.”
Lucrezia rimase senza parole, incapace di ribellarsi. “Te lo prometto, zio, sarò gentile. Lo considererò un amico.”
Arrivò Elvira a toglierla da quella situazione. Alla vista della contessa lui si riscosse.
“Si è fatto tardi, disse. Perderò l’ultimo treno se non mi sbrigo.”
“Mi congedo anch’io da questa bella compagnia. Così, se le fa piacere, possiamo andare insieme fino alla stazione” osservò Angelo Giovanni, posando su un vassoio l’ultimo calice di vino rosso, che stava rigirando tra le dita. Il notaio diede un ultimo saluto a Lucrezia, ringraziò il conte e la contessa per la cordialità dell’invito e si ripropose di ritornare presto a far loro visita. Fiorentini si congedò a sua volta e si accinse a salutare Lucrezia con un intenso baciamano.
Mentre compiva quel gesto seduttivo, Lucrezia si ritrovò a incontrare il suo sguardo: era conscia del fascino di uomo maturo. Osservò la mascella ben segnata, gli occhi neri contornati da piccole rughe, che lanciavano occhiate maliziose e innescavano pensieri nella sua mente già confusa.
8. ARRIVO DEL 1902
Il discorso dello zio aveva lasciato Lucrezia con tanti pensieri e interrogativi. Avrebbe voluto parlarne con Elvira, ma ultimamente la contessa era molto presa dal piccolo Ferdinando, che si era preso l’influenza, e non lo lasciava con la balia neanche per un momento.
Il 1902, alla villa, era arrivato in sordina, senza festeggiamenti.
L’ultimo dell'anno, Lucrezia, dopo che i servitori ebbero spento le luci, si era ritrovata nella sua camera, ad osservare i bagliori lontani che illuminavano la città. Dopo le parole dello zio, tutto le sembrava triste, si sentiva sospesa tra la nostalgia del passato e l’incertezza del futuro.
La notte dell’epifania, non riuscendo a chiudere occhio, riaccese il lume e preso un foglio di carta scrisse alla sua Felicita: solo a lei poteva raccontare quei pensieri che non le davano tregua.
Posillipo 5 gennaio 1902
Mia cara Felicita,
mai come in questo momento avrei bisogno di averti vicina. Ho chiesto allo zio di poter tornare a casa per qualche giorno, e confido che questo desiderio possa realizzarsi. Qui vivo bene, mi sento come in famiglia, ma ho tanta voglia di rabbracciarti e aprirti il mio cuore.
Sono stata felice di vedere lo zio, venuto in villa per il battesimo; questo incontro, però, mi ha portato un’angoscia inattesa per il mio avvenire.
Lo zio mi ha prospettato un eventuale matrimonio con il signor Fiorentini, un commerciante di stoffe molto amico del conte. Ho conosciuto quel signore, è una brava persona, dai modi gentili e affabili, ma il suo aspetto denota gli anni che ci dividono. A te posso dirlo: non immaginavo che lo zio mi avrebbe imposto una decisione così importante. Io vorrei poter vivere ancora la mia spensieratezza, ma dalle parole dello zio sembra che questo non sia più possibile, visto che il commerciante ha chiesto il permesso di venire a farmi visita di tanto in tanto. La questione m’inquieta, so bene che non puoi aiutarmi, ma già parlarne con te mi libera l'anima.
Dopo la delusione che mi ha dato lo zio, solo tu ed Elvira siete il mio sostegno. Ricorda che aspetto sempre tue notizie e ti voglio bene.
La tua Lucrezia.
I tempi per una risposta di Felicita alla sua lettera sarebbero stati lunghi, Lucrezia lo sapeva bene, ma ogni giorno chiedeva a Sofia se nella posta c'era una lettera indirizzata a lei.
Passarono alcune settimane, il piccolo Ferdinando guarì, così Elvira, tranquillizzata, riprese con Lucrezia gli incontri confidenziali nel salotto blu. Questo rincuorò la ragazza, che le parlò dei suoi timori per l’eventuale matrimonio; ma proprio durante uno di quegli incontri, in un pomeriggio di fine gennaio, la contessa avvisò Lucrezia che di lì a qualche giorno sarebbe arrivato alla villa il Fiorentini.
“Ci ha spedito un telegramma questa mattina” le disse. “Viene a Napoli per affari e ha espresso il desiderio di passare per un saluto, soprattutto a te. Capisco che non sarai entusiasta di questa visita, ma devi cercare di non angosciarti.”
“Si, ma...” balbettò Lucrezia.
“Ascolta, cara, prova a vedere la cosa da un altro punto di vista. Se cercherai di non avere pregiudizi, forse riuscirai a scoprire in Angelo Giovanni qualcosa che ti stupirà, che ti appagherà in pieno…” continuò Elvira.
Poi si chinò verso di lei, le prese una mano.
“Io ti capisco: tutte noi, da ragazze, vorremmo godere della nostra giovinezza. A volte, abbiamo obiettivi diversi dal matrimonio e ci costa molto fare il volere delle persone che amiamo. È capitato anche a me, ma credimi, alla fine ci si abitua, ci si convince che l'amore romantico, forse, non esiste. Oggi ti posso assicurare che il mio solo amore è il piccolo, e non importa se ho dovuto rinunciare ai miei sogni, negli anni passati. Vittorio, più volte, ha dimostrato insensibilità nei miei confronti, ma oggi mi basta guardare il mio bambino e ogni amarezza va in fumo.
Il Fiorentini è una brava persona, lo conosco da molto tempo e credo possa essere un buon marito per te: saprà rispettarti e col tempo renderti felice.”
Lucrezia, sebbene delusa dalle parole di Elvira, ebbe il tempo di ripensarci più volte, di chiedersi se in fondo non avesse ragione: come poteva lei, giovane e inesperta, confutare il giudizio della contessa, che era anche sua amica?
Quando, tre giorni più tardi, si ritrovò sola con il commerciante nel salotto blu, lasciò che il corteggiamento del Fiorentini facesse il suo corso. Lui si mostrò un gentiluomo di garbo e, quando le perse la mano, Lucrezia non fece niente per tirarsi indietro. Visti così da vicino, i suoi occhi emanavano una dolcezza rassicurante e lei decise di avere fiducia, come le aveva consigliato Elvira.
“Mi sei piaciuta dalla prima volta che ti ho vista …” Iniziò così il suo discorso, Angelo Giovanni. “Ora voglio per te… per noi, una vita insieme. Ti prometto che a Firenze, quando saremo sposati, non starai chiusa in casa, ti affiderò il negozio. Se tu lo vorrai, credo che saremo felici… Non devi rispondermi subito, dimmi solo che ci penserai.”
La voce di Sofia, che veniva ad annunciare la cena, coprì il bisbiglio di assenso di Lucrezia. Da un lato, la ragazza si sentì sollevata, ma quella mano calda che stringeva la sua aveva scosso piccoli brividi nella sua anima.
Lui le porse il braccio e si avviarono insieme verso la sala da pranzo, dove Elvira, con un cenno del capo e un piccolo sorriso, le dimostrò approvazione.
Qualche giorno più tardi arrivò anche la risposta di Felicita.
Pizzotano, 30 gennaio 1902
Mia picola Lucreza,
un sapisi la granni gioia che ho avuto quannu e arrivata la littira tua. Lu nutaru me dittu ca stavasi bona, quistu mi basta. Mi dispiaci sulu ca tu nu si cuntenda di lu zitu chi te capitatu, ma zio tua me dittu ca è na bona pirsuna. Mi dispiaci puru ca nu ti pozzu sta vicinu cumi lu cori mia vulissi, propriu mo chi ni tenisi bisuognu, ma pi lu beni chi ti voglio statti tranquila, io ti suncu vicinu lu stessu. Ru saccio ca lu maritu si trova cu l’amori, ma si ti vo beni l’amori puo vieni da sulu. Io ru sapisi ca nu meggiu mai spusata e nu capiscu nenti, ma quistu signuri di firenze me dittu zio tua e unu chi sta buonu picchi teni pur una putìa di robbi boni. Mo statti tranquila e ‘umincia a ru canosci e puo si vidi chiu quira via si Dio vodi e ri vuoi beni veramente puru tu. Scrivimi quannu vuoi io sungu sempi qua, fussi puru cuntenta si vinerasi a mi truvà, spero ca lu nutaru parla cu lu conti e vienisi priestu. Ta aspeto sempi, e mi ja giurà ca stai serena.Ti abracio
Felicita.
TRADUZIONE
Mia piccola Lucrezia,
non puoi immaginare la grande gioia che ho provato quando è arrivata la tua lettera. Il notaio mi aveva già riferito che stavi bene, questo mi basta. Mi spiace solo, che tu non sia contenta del fidanzato che ti è capitato, ma tuo zio mi ha assicurato che è una brava persona. Mi dispiace anche che non posso starti vicina come il mio cuore desidera, soprattutto ora che ne hai bisogno, ma per il bene che ti voglio cerca di stare tranquilla, ed io cerco di starti vicina lo stesso. Capisco che l’uomo della propria vita si trova con l’amore, ma se lui ti vuole bene, poi l’amore arriva da solo. Tu sai che io questa gioia non l’ho mai avuta, ma questo signore di Firenze, mi ha raccontato tuo zio, sta anche bene economicamente: ha un negozio di stoffe di pregio, perciò stai tranquilla incomincia a conoscerlo e poi più in là se Dio vuole e tu gli vorrai bene si vedrà. Scrivimi quando vuoi, io sono sempre qui, e sarei felicissima se potresti venire quanto prima, spero davvero che il notaio parli con il conte per farti venire presto. Ti aspetto e giurami che starai serena. Ti abbraccio
Felicita.
9. LA DECISIONE
A quella prima visita ne seguirono altre: per varie coincidenze o precisa intenzione, Angelo Giovanni si ritrovava spesso a Napoli.
Nei mesi di febbraio e marzo di quel 1902, gli capitò spesso di intrattenersi con Lucrezia in villa.
Dopo la lettera di Felicita e i consigli di Elvira che la incoraggiavano a frequentare il Fiorentini, la ragazza a poco a poco mutò il suo atteggiamento. Ogni volta si lasciava andare un po’ di più alle galanterie dell’uomo, e in un tardo pomeriggio di metà marzo, quando lui la baciò sulle labbra, non fece nulla per sottrarsi.
In più di un’occasione, Angelo Giovanni le aveva portato in regalo delle stoffe, e Lucrezia decise di recarsi quanto prima a Napoli, con Elvira, per farsi confezionare dei vestiti.
Ormai il suo destino con il Fiorentini sembrava segnato, ma il suo cuore ancora non si dava pace.
Fu una lettera dello zio a farla gioire, liberandola per un po’ dai pensieri e dai sentimenti contrastanti che la turbavano in quel periodo.
Pizzotano 10 marzo 1092
Mia cara nipote,
come ti avevo promesso durante l’ultimo nostro incontro, ho parlato con il conte Amodei che si è detto disponibile a lasciarti ritornare a casa per qualche giorno. Ho saputo altresì che le visite con il signor Fiorentini continuano ad essere frequenti, questo mi dà modo di venirti incontro, perché sono convinto per il tuo bene che sia la scelta giusta.
Quando rientrerai a casa, quindi, parleremo del prossimo futuro. Avrei desiderato farti tornare per le festività, ma quest’anno la Pasqua è bassa, per il trenta marzo non riuscireste a organizzarvi, perché il conte mi ha confermato che Angelo Giovanni vorrebbe trascorrere le festività in villa. Allora credo sia opportuno che tu stia con loro; noi potremo vederci per il tuo prossimo compleanno, il tredici di aprile e dirò a Felicita di prepararti comunque quel dolce che ti piace tanto: lu Pucciddatu di Pasqua.
Aspettiamo già da ora il tuo arrivo, un saluto da Felicita e buona Pasqua da noi.
Tuo zio Giuseppe.
Posillipo, 20 marzo 1902
Caro zio Giuseppe,
non sai la gioia che ho provato nel ricevere la tua lettera e leggere del mio prossimo ritorno in paese: è il regalo più bello che potessi ricevere per il mio compleanno e sarò felicissima di trascorrerlo insieme a te e Felicita. Non vedo l’ora che arrivi quel momento. Mi mancate tanto e mi manca il nostro mondo, ho voglia di ritrovare i miei sogni di bambina, lì dove li ho lasciati, tra le mura della nostra casa. Grazie per aver parlato con il signor Amodei e grazie per ogni cosa che fai per il mio bene. Non voglio deluderti, per questo cerco di essere sempre molto gentile e disponibile anche nei confronti del signor Fiorentini. Ultimamente viene spesso a farmi visita e posso dirti che avere un amico è diventato per me motivo di svago, non credo di riuscire ad essere la persona che si aspetta che io sia, ma ho imparato ad apprezzarlo per i suoi modi gentili nei miei riguardi. Per questo farò ogni cosa secondo la tua volontà e voglio obbedirti: il destino con il tempo farà il suo corso. Grazie perché ci sei, grazie perché sei il punto fermo più importante della mia vita. Ti abbraccio e auguri per la Santa Pasqua a te e Felicita. Ci vedremo presto.
Tua nipote Lucrezia.
Lucrezia ed Elvira erano solite ritrovarsi all’ora del tè nel salotto blu, fu così anche in quel pomeriggio del 29 marzo; aspettavano con il conte l’arrivo del Fiorentini, che sarebbe giunto per festeggiare insieme la Pasqua. Lucrezia in cuor suo era emozionata e quasi attendeva con gioia quel momento, ma nello stesso tempo l’ansia le divorava i pensieri, non poteva e non riusciva ad accettare pienamente quel rapporto, che altri volevano decidere per lei. Quel pomeriggio, un ritardo fece arrivare Angelo Giovanni oltre l’orario; questo però non scoraggiò il suo sorriso. Lucrezia non riusciva a capire come potesse illuminarsi tanto, ogni volta che la vedeva, nonostante gli eventi contrari. Non mancò di proporre alla ragazza, con il permesso dell’Amodei, di andare alla veglia pasquale, nella chiesa di Santo Strato, che si erge nel quartiere di Posillipo nello storico borgo del Casale.
“La carrozza è ancora fuori ad attenderci,” disse rivolgendosi a Lucrezia.
Il conte aveva già dato la sua approvazione ed Elvira a modo suo aveva fatto capire alla giovane che non c’era niente di imbarazzante nell’accettare l’invito di un gentiluomo.
Così Lucrezia, dopo aver appuntato il cappellino sui capelli e infilato il mantello, si disse pronta. Gli occhi del Fiorentini esprimevano sicurezza e le davano ottimismo, tanto da rispondere al suo sorriso.
“Merita fiducia,” pensò nella sua mente. Voleva provarci, per gli altri ma soprattutto per sé stessa. La chiesa era affollata e le funzioni andarono per le lunghe, era tardi quando ripresero la carrozza per rientrare alla villa.
“Penso che sei proprio bella e te lo ripeterò ogni giorno” disse lui, “ma tu mi ami?”
Lei fece solo un cenno con gli occhi, non pensava fosse un’approvazione o una disapprovazione, era confusa e imbarazzata. Lui allora l’abbracciò e con le labbra contro l’orecchio le scompigliò i capelli, la strinse e la baciò: lei si lasciò andare, ma le sue mani avevano iniziato a tremare e mentre lui sapeva tenerle a bada anche la paura, si sentiva il cuore scoppiare. Il freno della carrozza fece sobbalzare anche il Fiorentini, l’arrivo alla villa destò entrambi come da un sogno.
“Ho camminato dentro una tempesta e viaggiato nelle emozioni. Buonanotte!” disse il commerciante, prima di congedarsi da lei.
Lucrezia corse via in fretta, era tardi, aveva un immenso bisogno di rimanere sola. Quando la porta della sua camera si chiuse alle sue spalle, assicurata da un colpo di chiavistello, si sentì più al sicuro. Ma poi, mentre ripensava all'accaduto, il silenzio che la circondava si fece assordante. Quei momenti d’intimità con il Fiorentini, i primi della sua vita, l'avevano profondamente scossa.
Il mattino dopo si svegliò da sogni agitati: la notte inquieta non aveva fatto che aumentare le sue incertezze.
Fu però Angelo Giovanni stesso a distoglierla dalle paure, venendole incontro col più rassicurante dei sorrisi. Ed Elvira, bisbigliandole parole incoraggianti, la spronò a vivere quel momento. Così, dopo il pranzo di Pasqua con i padroni di casa, anche se il fresco di fine marzo era ancora pungente, Lucrezia si ritrovò al braccio del commerciante, a passeggiare tra i lecci e i pioppi nel parco della villa. Arrivarono all'antico edificio, quello delle aperture ad arco chiuse da vetrate, e fu lì che l'uomo esternò ancora una volta l'amore per lei.
“Non voglio vederti triste… io ti sposerei anche domani, se fosse possibile! Per questo ho chiesto a tuo zio di anticipare i tempi, e lui si è detto disponibile, appena avrà sistemato i beni per la tua dote. Come vedi, non devi preoccuparti di nulla, tutto è fatto,” disse lui.
“Che cosa significa tutto è fatto?” chiese Lucrezia.
“Tuo zio voleva informarti della decisione, quando saresti arrivata al paese, ma ho voluto dirtelo io stesso, non ho potuto resistere al desiderio di parlarne…”
Mentre le parole continuavano a fluire dalla bocca di lui, Lucrezia pareva non ascoltarle. Ormai lo zio aveva deciso, anche circa la dote, e lei non poteva tirarsi indietro: aveva imboccato una via senza ritorno e la sua vita futura sarebbe stata con il Fiorentini.
10. RITORNO AL PAESE
Passarono solo due settimane, poi finalmente, il sabato prima del suo compleanno, Lucrezia poté partire per il suo Pizzotano. Il conte stesso l’accompagnò con la carrozza alla stazione. Neanche Elvira, circa il matrimonio, le aveva lasciato intravedere vie d’uscita.
“Se proprio non riesci ad accettarlo parlane con tuo zio, ma credo che ormai abbia deciso e non vi sia punto di ritorno.” Così aveva detto. Durante tutto il viaggio, lei ripensò a questa frase, ma era comunque determinata a parlare dei suoi dubbi con lo zio.
Appena scesa dal treno, quando lo zio le venne incontro e l'abbracciò, tutti i discorsi che si era preparata, e che erano rimasti ingabbiati nella sua testa, andarono in fumo. Fu un abbraccio forte, come Lucrezia non ricordava. Ci sentì tutto l’affetto della sua famiglia, dei cari che tanto le mancavano, e ne fu così coinvolta da restare senza fiato.
In paese tutto era come quando era partita, le strade in pietra levigata, i negozietti di generi alimentari, dove si vendevano anche mercerie, tabacchi e carta. Ciccuzzu era sempre lì, all'inizio del paese, e riforniva di vino l'osteria di fianco. Anche la piazza con i maestosi olmi a fare da cornice era rimasta la stessa. Lucrezia, attraversando quei luoghi in carrozza, ritrovava ogni pezzo del suo passato come se lo vedesse per la prima volta.
Felicita era immobile davanti al cancello e non appena la carrozza si fermò, con il grembiule si asciugò le lacrime, prima di chiudere il viso della ragazza tra le mani e stringerla a sé. Erano entrambe felici ed emozionate, sembrava che il tempo non fosse mai passato. Ogni angolo della casa era come Lucrezia l'aveva lasciato, anche i suoi libri nell’immenso studio erano lì silenziosi, inattesa di qualcuno che li aprisse, per far vivere le storie che vi erano sepolte dentro.
Lo zio invitò Lucrezia a riposare, ma lei non volle.
“Felicita, che ne dici se andiamo a trovare la nonna e la mamma? Ho bisogno di loro.” “Subito,” rispose la cuoca, slacciandosi il grembiule e fermando una ciocca di capelli con una forcina.
Camminarono insieme verso il cimitero appollaiato nel verde, scambiandosi le notizie di quell'anno particolare.
La morte della nonna aveva sconvolto le vite di entrambe. Vagando tra marmi, cemento e fosse di terra abbellite, Lucrezia si rese conto di quante persone da lei conosciute fossero mancate nei mesi della sua assenza. La nonna era con la mamma nella tomba di famiglia, dietro a una fotografia non troppo somigliante.
“Tuo zio vuole che ogni giorno qualcuno della servitù passi per sistemare una rosa profumata,” disse Felicita.
“Sono contenta, la nonna amava i fiori, soprattutto le rose. Sai, avrei ancora tante cose da raccontarle…”
“Puoi sempre farlo, lei ti vive accanto, come tua madre.”
“Ma non possono aiutarmi, soprattutto in questo momento con lo zio… Sarò costretta a fare come lui desidera, e nessuno potrà aiutarmi.”
“Ci sarò io per ogni cosa,” rispose la cuoca. “Ora rientriamo, ho preparato tutti i piatti che piacciono a te.”
Ritornarono verso casa, ma quella visita per Lucrezia profumava di assenza, assenza definitiva.
11. LA SVOLTA
Quel 13 aprile del 1902 era domenica, Lucrezia era felice di poter festeggiare i suoi ventidue anni con lo zio e Felicita, che per l'occasione aveva preparato non la torta ma “lu puccidatu” tipico della Pasqua con sopra le uova e granella di zucchero colorata.
La ragazza, deliziata dal pranzo e dalle attenzioni ricevute, aveva persino dimenticato di pensare al matrimonio, e lo zio si guardò bene dal farvi cenno.
Nel pomeriggio con Felicita andò a passeggio per le strade del paese, che la riconducevano a mille ricordi e sensazioni dell'infanzia e dell'adolescenza; rivide il giardino delle suore che l'aveva accolta appena nata ed era stata la sua palestra di vita negli anni della sua crescita: nulla era mutato in quei posti e in ciò che rappresentavano per lei. Anche la casa conservava il suo fascino: la sala da pranzo della nonna emanava sempre il misterioso profumo che la incantava da piccola, e la biblioteca l’odore buono dei libri antichi. Quella sera stessa ebbe la prova che ad essere cambiata era lei, Lucrezia.
Lasciò passare due giorni dopo il suo compleanno, poi decise di scrivere ad Elvira: si era sfogata con Felicita, ma Elvira doveva sapere quello che le stava accadendo.
Pizzotano 15 aprile 1902
Cara Elvira,
ti sembrerà strano ricevere una mia lettera, ma ho bisogno di raccontarti un fatto grave capitato qui.
Domenica, nel tardo pomeriggio, aggirandomi per casa, mi sono ritrovata nello studio dello zio e ho notato alcuni documenti sulla scrivania. Credimi, non era mia intenzione controllarne il contenuto, ma mi sono incuriosita nel vedere che su uno di essi, scritto a caratteri cubitali, c'era il mio nome associato a quello della nonna e di mia madre: l'ho aperto e nel fascicolo era inserito l'atto di vendita delle nostre proprietà e un compromesso d'accordo per la mia dote. Sono rimasta di stucco. Perché lo zio non me ne aveva parlato?
Mi sono sforzata di pensare che avesse fatto tutto per il mio bene; ma poi, nello stesso fascicolo, ho visto un plico con il nome del Fiorentini. L’ho aperto: erano i documenti che aveva consegnato allo zio per avviare la procedura del matrimonio.
Aveva deciso tutto, quindi, e senza consultarmi: scoprirlo così mi ha davvero bruciata, direi quasi ustionata.
Mi è subito balzata agli occhi la data di nascita di lui: 2 ottobre 1860. Questo, capisci bene cosa significa, lui ha già 42 anni… posso comprendere che una certa differenza di età sia accettabile, ma tanti così… e poi – in quel momento mi è diventato chiaro – io non lo amo, non è ciò che desidero per il mio futuro.
Ho riflettuto bene sul da farsi, e prima che lo zio mi sorprendesse nello studio, ne sono uscita. La sera stessa, però, ho insistito per conoscere la verità sui progetti che mi riguardano.
Mi ha confermato di aver venduto tutto per farmi una buona dote, ma non era questo che io volevo. Come non voglio Angelo Giovanni per marito, sono decisa a combattere per questo! Più lo zio mi spiegava che le procedure per il matrimonio sono avviate, più sentivo montare la rabbia nei suoi confronti.
Discutere con lui non sarebbe servito, perciò ho cercato di dominarmi, cercando di restare fredda, ma determinata nell’opporre il mio rifiuto.
Ieri ho parlato con don Luigi, il nostro parroco: lui si è detto disponibile ad aiutarmi, facendomi accogliere per un certo periodo in convento, se lo zio non dovesse cambiare opinione. Questo mi ha dato ancora più forza per combattere la mia battaglia.
Mi spiace se deludo anche te, ma comprendimi, amica mia: si tratta del mio futuro e voglio viverlo con la persona giusta.
Spero che questo momento difficile passi e che il tempo cancelli l'amarezza che provo adesso. Mi auguro che lo zio non sia irremovibile e possa capire ciò di cui ho bisogno.
Spero vivamente che anche tu e il conte possiate sentire e accettare questo mio grido; mi dispiace terribilmente se vi ho delusi.
Quando tornerò a Posillipo tra qualche settimana, a riprendere le mie cose, potremo parlarne. Sono convinta della tua comprensione.
Un abbraccio a te e al piccolo.
Tua Lucrezia
Passarono alcune settimane: l'aria in casa era diventata irrespirabile, i rapporti tra zio e nipote erano freddi e distaccati. Spesso lui rimaneva fuori anche per il pranzo, dicendo a Felicita che si trattava di affari.
Lucrezia, determinata a resistere, in quel periodo riprese in considerazione una cara e vecchia passione: la pittura. Negli anni dell’adolescenza, dipingere per lei era stato uno sfogo, l'emozione di mettere su tela i suoi sentimenti, insieme ai colori.
Sarebbe ripartita da quel sogno, represso per compiacere lo zio.
Adesso era maggiorenne e poteva contare sulla dote. Stavolta sarebbe tornata a Napoli con uno scopo diverso: voleva riprendere gli studi, e lo confidò a Elvira in una lettera.
Pizzotano 16 giugno 1902
Mia cara amica,
scusa se ti scrivo con ritardo, ma qui, dopo gli avvenimenti di cui ti ho parlato l'ultima volta, le cose si sono complicate.
Ho deciso di iscrivermi all'Accademia di Belle Arti a Napoli, benché lo zio non sia favorevole: secondo il suo parere, una ragazza per bene non va a vivere da sola per inseguire i suoi sogni. Sto lottando ogni giorno, perché lui si convinca che questa è la mia felicità, e non voglio rinunciarvi.
Ha venduto tutte le proprietà di mia madre, a cui non potevo ancora accedere: questa è stata la più grande delusione. Mi verrebbe da odiarlo per i suoi soprusi e per i suoi modi autoritari; ora poi è diventato molto freddo e sfuggente. Più volte mi ripete che ha sempre fatto tutto per il mio bene, eppure il suo amore mi dà l'idea di un rapace che si cala sulla preda…
Lo zio, però, è tutto ciò che mi rimane della mia famiglia: in fondo lo amo e voglio mettercela tutta per portarlo alla ragione con un dialogo pacato e sereno. Chissà se sarà possibile… Intanto, cerco di mostrargli la mia determinazione.
Spero di ritornare a Napoli a fine settembre; sarò felice di passare con voi qualche giorno prima di trasferirmi in centro per gli studi e per affrontare il futuro. Intanto ti abbraccio e invio un pensiero al piccolo Ferdinando, tua Lucrezia.
12. ELOISA
Era la fine di giugno quando a Pizzotano, ospite dello zio, arrivò Eloisa. …? (Non si capisce chi sia)
Felicita non era affatto entusiasta di quella donna dai modi spigliati, dai vestiti troppo scollati e dal parlare poco raffinato. Le fu data la camera degli ospiti, era venuta per conoscere i luoghi incantati della Calabria: quel paese arroccato tra mare e monti, di cui lo zio le aveva sempre parlato, quella tranquillità che in una città come Napoli non aveva mai vissuto.
Da subito Lucrezia instaurò con lei un buon rapporto: era eccentrica, ma socievole, tanto da portare la ragazza a confidarle i progetti dello zio per il suo futuro e tutti i suoi timori.
- Tranquilla, ti aiuterò io - le aveva detto. - Tuo zio ti vuole bene e ha un cuore anche lui. Insieme possiamo fargli cambiare idea, ce la faremo, vedrai!
Eloisa le aveva dato speranza, e dopo una settimana, quando ripartì per Napoli, le cose sembrarono cambiare per davvero.
Lucrezia non seppe mai quello che Eloisa aveva potuto dire allo zio, ma forse, grazie a lei, in futuro avrebbe potuto essere felice.
In realtà, non tutto era ancora definito, ma lo zio sembrava già un’altra persona: quella presenza femminile, forse, lo aveva aiutato a riflettere sul vero bene di sua nipote.
13. RITROVARSI
Dopo la partenza di Eloisa, trascorsero alcune settimane prima che lo zio si dimostrasse benevolo nei confronti di Lucrezia. Il suo atteggiamento verso di lei era molto cambiato, ma per orgoglio non lo dava a vedere. Lucrezia, nel frattempo, viveva quel periodo con più serenità, grazie a Eloisa che prima di partire l'aveva rassicurata.
- Vedrai, insieme ce la faremo – aveva detto.
Un pomeriggio, finalmente, lo zio la volle con sé in biblioteca, dove le riferì le sue decisioni.
- Per te avevo pensato a un buon matrimonio e credevo che con il Fiorentini questo fosse possibile. Evidentemente mi ero sbagliato, perché non è quello che vuoi tu. Anche Eloisa si è schierata dalla tua parte per farmi cambiare idea!
Non so ancora se questa sia la giusta decisione, ma ho promesso alla nonna che avrei fatto di tutto per renderti felice e voglio assolvere il mio giuramento.
Tornerò a Napoli tra qualche giorno e vedrò di parlare con il conte per l’eventualità che tu resti nella loro casa, almeno per il primo periodo; intanto cercheremo una sistemazione più congrua alle tue esigenze, in modo che tu possa seguire i tuoi studi.
In quel momento, Lucrezia sentì come un fuoco accendersi nel suo petto: era felice, ma allo zio non voleva darlo a vedere. Intanto lui continuava a parlare con rammarico delle possibilità che quel matrimonio le avrebbe dato: una sistemazione di agi e benessere.
- Zio, ti prego, non ritorniamo sulla questione, - disse la ragazza. - Sai bene quello che voglio, e ti ringrazio per tutto ciò che hai fatto e continuerai a fare per me.
– Ma la dote, di quella dobbiamo parlare – ribadì lo zio. – Ho venduto ogni cosa, perché pensavo che, sposando il Fiorentini, non saresti mai più ritornata al paese. Inoltre, sto diventando vecchio per badare alle proprietà; ormai la cosa è fatta, ma ciò che era di tua madre servirà per i tuoi studi, farò in modo di sostenerti.
Voglio comunque una tua promessa: quando ritornerai a Napoli, dovrai spiegare al Fiorentini la tua decisione, cercando di non ferirlo. Magari chissà… un giorno… potreste ritrovarvi. Chiederò al conte di far in modo che ciò avvenga, per favore, non tirarti indietro.
- Lo prometto, zio: credo anch'io che meriti una spiegazione. Lo farò.
Lucrezia uscì felice da quel confronto. Ora doveva solo aspettare la fine di settembre, poi avrebbe potuto iniziare a realizzare i suoi sogni.
Condivise la sua gioia con Felicita, in un abbraccio liberatorio.
Quella notte, non riuscendo a chiudere occhio per l’eccitazione, scrisse alla sua amica Elvira.
Pizzotano 10 agosto 1902
Carissima Elvira,
questa è una notte straordinaria, il caldo si è affievolito e la frescura fa muovere il salice sotto la mia finestra, vedo le lucciole brillare nel giardino e tutto mi sembra magico, forse perché magica e felice è la mia anima. Finalmente lo zio Giuseppe si è ravveduto, riguardo al mio futuro, non so ancora se lo ha fatto fino in fondo, ma la cosa certa è che potrò continuare i miei studi, e non dovrò sposare Angelo Giovanni.
Ancora non ci credo: mi sento libera e vorrei urlarlo al mondo intero, lo faccio con te.
Devo dirti che questi mesi non sono stati facili, lo zio pareva irremovibile, fino a quando non è arrivata un’ospite speciale: Eloisa, amica dello zio e mia salvatrice!
Con lei, fin da subito, ho avuto modo di aprirmi e confidare le mie angosce; mi ha consolata, dandomi la certezza che avrebbe parlato con zio, per fargli comprendere come mi sento, ciò che desidero realizzare.
Eloisa è una signora che vive a Napoli, di più non so dirti: non è esattamente la persona ci si aspetterebbe di vedere accanto allo zio, eppure, come ho potuto constatare, ha una grande influenza su di lui. Nonostante l’età, indossa vestiti eccentrici, ma di gusto, scarpe alla moda e trucco pesante, ma in quei colori esibisce una forte personalità: ha capelli neri tagliati corti, occhi di un grigio verde profondo e labbra carnose, che dipinge di rosso. È piombata nella mia vita proprio grazie allo zio, ed è diventata la mia ancora di salvezza.
È ripartita da qualche settimana, ma nel frattempo credo che lo zio abbia riflettuto sulle sue parole, e oggi finalmente il mio penare è diventato lieve. Volevo raccontarti ogni cosa e condividere questa gioia con te, che in quest'ultimo anno mi sei stata vicina in ogni momento, cosa di cui ti ringrazio infinitamente.
Spero di tornare presto da te e Ferdinando per un grande abbraccio, intanto accetta il mio saluto più caro,
tua Lucrezia.
14. L'OFFESA
Era arrivato l'autunno, ma la stagione continuava ad essere tiepida. Quella mattina il cielo era terso e il sole splendeva accendendo il paesaggio con la sua luce dorata: Lucrezia, dopo aver abbracciato Felicita (che con il cuore gonfio si asciugava le lacrime con il dorso della mano) e salutato lo zio, avvolta nel mantello salì sulla carrozza senza voltarsi indietro. Ora sapeva perfettamente che cosa voleva, e più niente e nessuno avrebbe potuto impedirlo.
Fu tutto come la prima volta, alla stazione trovò, mandato dal conte, il fedele Domenico, che dopo aver sistemato le valigie sulla carrozza la riportò a Posillipo. Durante tutto il viaggio, nella mente le era esploso un flusso di ricordi, come un torrente. Avrebbe voluto cancellare molti di quei maledetti pensieri, ma riusciva solo a farli fluire, sperando che il tempo avrebbe potuto lenire il suo dolore.
Sofia venne ad aprire la porta, ma subito dopo, nell’atrio principale, Elvira l’attirò a sé in un abbraccio.
- Mi sei mancata, amica mia, - le disse. Pochi passi dietro a lei, Ferdinando, tra le braccia della balia, muoveva la piccola mano a mo’ di saluto.
La sorpresa più grande fu quella che ancora Lucrezia non aveva incontrato: Angelo Giovanni la stava aspettando in salotto, con il conte. Se lo trovò di fronte, a un passo da lei, e non poté far nulla per evitarlo.
- Ti ringrazio per avermi concesso ancora una volta di vederti, - le disse il Fiorentini. - Sono passati tanti mesi dal nostro ultimo incontro, mi hanno riferito la tua decisione, voglio rispettarla, anche se provo una punta di rabbia. Forse ho fatto qualcosa di sbagliato, di cui non mi sono accorto?
Era visibilmente restio a lasciarla andare.
– No! non sei tu, - rispose Lucrezia, turbata.
Era strano a dirsi o anche solo a pensarlo, ma in quel momento, con lui davanti, era rimasta senza parole; scambiò un'occhiata fugace con Elvira, che cercò di toglierla dall'imbarazzo.
- Vieni, ti accompagno in camera. Ne riparlerete dopo cena, ora mi sembri stanca.
Non era affatto stanca, ma non aveva trovato il coraggio di guardarlo negli occhi, aveva voglia di fuggire da quella stanza più in fretta possibile.
– Mi odia, lo capisco, - mormorò con Elvira, - forse mi odio anch'io, ma voglio realizzare il mio sogno. Chissà, forse col tempo avremo altre occasioni. Per ora ho il cuore troppo saturo di emozioni, per dargli qualche opportunità. Tu mi comprendi, vero, amica mia?
– Io posso comprenderti, ma devi essere tu a dargli la spiegazione che merita.
– Va bene, se lo farò domani? Stasera non voglio vederlo, resto in camera per la cena, inventa una scusa per me. Domani sarà un altro giorno.
Elvira le promise che avrebbe fatto del suo meglio: provava un moto di tenerezza per lei e avrebbe fatto qualunque cosa per confortarla e poterla aiutare, ma l’indomani non ci sarebbero state più scuse. Aveva chiesto al Fiorentini di rimanere alla villa proprio per questo.
La notte avrebbe placato il tormento della ragazza che, più serena, sarebbe riuscita ad affrontarlo e a chiarirgli i suoi stati d’animo.
Rimasta sola, Lucrezia si avvolse le spalle nello scialle della nonna e con un libro tra le mani si mise a letto. Era notte fonda, quando si svegliò di soprassalto, in un bagno di sudore. Bevve un sorso d'acqua dal bicchiere sul comodino, si alzò a sedere sul letto e si massaggiò le tempie. L'ansia per l'incontro del giorno dopo cominciò a riaffiorare, e nonostante i suoi sforzi, non riusciva a ricacciarla indietro. Se almeno fosse riuscita a dormire ancora un po'… Riprese il suo libro e si stese sotto le coperte.
Nel cuore della notte uno scricchiolio del parquet le fece riaprire gli occhi.
- Angelo Giovanni, tu qui? Non posso crederci… - mormorò sbalordita, quando lui aveva già chiuso la porta alle sue spalle.
– Non ti aspettavi di vedermi, lo so. Ma…volevo parlare con te e temevo che tu non… io non riesco a rassegnarmi. Sin dalla prima volta che ti ho vista, ho pensato che fossi la persona giusta per me.
Lo sguardo di Lucrezia, suo malgrado, si posò sugli occhi del Fiorentini. Rammentò come fosse stata attratta dal suo comportamento da gentiluomo, eppure in quel momento la corporatura robusta, le spalle larghe, quei muscoli prepotenti che trasparivano dalla camicia fuori dai pantaloni e soprattutto quello sguardo di fuoco le fecero paura.
– Ho portato una bottiglia di buon rosolio, penso che un bicchierino potrebbe tranquillizzarti, - lo sentì mormorare, e quel tono insinuante le gelò il sangue nelle vene.
– Domani parleremo, - gli disse. – È notte fonda, vorrei dormire.
Strinse lo scialle a coprire la trasparenza della sua camicia da notte, mentre il Fiorentini, come se non l’avesse sentita, versava il rosolio nei bicchieri; gliene porse uno, ma Lucrezia non riuscì ad allungare la mano per accettarlo, e neppure per respingerlo. Ora lo temeva, c’era qualcosa in quell'uomo che la terrorizzava: il forte odore della sua pelle quasi la paralizzava.
– Sei testarda e irriverente, – esclamò lui, quasi divertito.
Quel cambio repentino di umore portò Lucrezia guardarlo più attentamente: era ubriaco.
– Chiedo rispetto nei miei confronti, - riprese il Fiorentini dopo aver bevuto un altro bicchiere di rosolio, - anzi, lo esigo!
Alla ragazza quella parve una minaccia.
Non rispose, sentendo la paura invaderle il corpo.
– Sei davvero tutto quello che un uomo può desiderare: giovane, bella, innocente…
Alzò la mano per accarezzarle il viso, che lei scostò bruscamente.
- Sei ribelle e caparbia…
Rise quasi, e con decisione le strinse i fianchi. Lucrezia cercò di liberarsi dal suo abbraccio, ma lui era troppo forte. Fu lui a staccarsi per poggiare il bicchiere vuoto sul comodino e, senza guardarla, le afferrò un braccio e la spinse sul letto.
A quel punto Lucrezia tirò fuori tutta la forza che possedeva e si liberò dalla stretta.
– No! Non verrò a letto con voi, - disse sconvolta, con tutto il disprezzo che aveva. Cercò di divincolarsi, ma perse l'equilibrio cadendo sul pavimento.
– Che cosa ti ho fatto per meritare il tuo rifiuto? – le domandò sinceramente confuso il Fiorentini, mentre lei perdeva i sensi.
Qualche ora dopo, Lucrezia tornò in sé. La camera era avvolta nel silenzio, lui non c'era più. Si accorse di essere mezza nuda e vide sul suo corpo segni di lividi: probabilmente il Fiorentini glieli aveva procurati nel corso del litigio. Si rannicchiò in un angolo e nascose il viso nel cuscino, mentre un singhiozzo le scuoteva il petto.
15. LA FUGA
Nella tarda mattinata Sofia le aveva preparato un bagno caldo: aveva bisogno di togliersi dalla pelle l’odore del Fiorentini, ma soprattutto doveva sforzarsi di non cedere in alcun modo, non poteva permettersi di mostrare a Elvira la sofferenza che le attanagliava il cuore. L’appuntamento con i Conti per il pranzo era saltato, ma nel pomeriggio Elvira venne a trovarla in camera.
- Sofia mi ha riferito della tua indisposizione, possiamo fare qualcosa per te? Hai bisogno del medico? Come posso aiutarti?
- Tranquilla! È solo un gran mal di testa, stanotte ho dormito poco al pensiero di dover affrontare Angelo Giovanni.
- Be’ credo che per il momento quest'ansia puoi abbandonarla. Questa mattina è partito di buon'ora, senza avere la compiacenza di salutare, ha solo consegnato a Domenico un biglietto per mio marito, scusandosi per un impegno improvviso che aveva accantonato.
Lucrezia, pensò che avesse fatto solo quello che era giusto fare. Sparire! Forse era pentito, ma a lei non importava, per lei ora contava solo la risposta di don Luigi. Restò chiusa in camera per due giorni, poi decise che era giusto mostrarsi all'amica e parlarle i suoi progetti per non darle troppe preoccupazioni. Lo fece subito dopo cena, in una sera di fine settembre. Quante serate aveva trascorso l'anno prima sotto quel portico, a consolare la contessa e rendere piacevole l'attesa del piccolo; ora era lei ad aver bisogno di compagnia, perché più rimaneva sola più le era difficile non pensare a quella notte.
- Ho chiesto a don Luigi un aiuto per essere ospitata in un convento.
Iniziò così a confidarsi con lei.
- Perché, Lucrezia? Non ti trovi bene qui da noi?
- No, non è quello, ma ho bisogno di iniziare questo percorso da sola. Dovrò studiare molto e voglio farcela nei tempi giusti, ho perso già troppo tempo a fare il volere degli altri. Ora che la nonna non c'è più e lo zio sembra star bene con la sua Eloisa, voglio pensare a me stessa. Avremo comunque occasione di ritrovarci di tanto in tanto: sarò a Napoli, potremo vederci quando vogliamo. Per questo Elvira conto su di te: ho bisogno che parliate con lo zio di questa decisione, e che siate comunque felici per me.
- Io sono già felice per te, - rispose la contessa. - Avrei voluto avere la tua forza quando anch’io fui destinata a una vita che non sentivo mia. Ti voglio bene e sai che sarò al tuo fianco sempre. Mi spiace che sarai lontana da me e dal piccolo, ma hai ragione, non vai in capo al mondo, e ti prometto che verremo a trovarti ogni qualvolta ce lo chiederai.
Il tempo era interminabile nell’attesa, ma ad allietare le ore c'era sempre il piccolo Ferdinando, che iniziando a muovere i primi passi cercava attenzione in ognuno: occuparsi di lui portava Lucrezia lontana da ogni pensiero.
Ci vollero più di due settimane prima che giungesse la risposta di don Luigi. Finalmente, in una fredda mattina di metà ottobre, Sofia venne a cercarla nella sua camera, per consegnarle la posta. Era solo un telegramma, con un indirizzo e poche parole: “Faccio il tuo volere, per il giuramento fatto alla chiesa. Pregherò per te.”
Era tutto ciò che Lucrezia voleva. Corse nel salotto blu ad avvisare Elvira: sarebbe partita per il convento la mattina dopo.
Lacerata dall’enorme segreto che aveva potuto confessare solo a don Luigi, passò una nuova notte inquieta, ma era tempo di provare le sue forze, spiccare il volo, e la sua testardaggine le sarebbe stata di aiuto.
Quella mattina il cielo era grigio e pieno di nuvole, Domenico aveva caricato le valigie sulla carrozza ed Elvira con Sofia erano nell’ atrio per l'ultimo saluto prima della partenza. Attraversarono parte della città prima di giungere al convento, situato non molto lontano dall’Accademia: all'esterno era quasi un palazzo qualunque, immerso nella Napoli perbene. Appena scesa dalla carrozza, impugnò il battente del portone e lo percosse fino a quando qualcuno non venne ad aprirle. Si presentò come suor Costanza. “Ti manda don Luigi?” chiese. Poi le indicò un sedile, a sinistra rispetto al portone, e le fece segno di sedersi. Domenico, lasciate le valigie nella piccola guardiola, era andato via.
Mentre aspettava l’arrivo di qualcuno, Lucrezia gettò lo sguardo intorno, nell'enorme chiostro che si presentava ai suoi occhi: era strano, ma chiusa in quel convento si sentiva libera, sollevata da un’oppressione.
Intanto Elvira si era impegnata a fare da tramite con lo zio Giuseppe, scrivendogli una lettera.
Posillipo 19 ottobre 1902
Carissimo Dott. Magistris,
con questa mia lettera vengo a informarLa circa la decisione di Lucrezia di stabilirsi per lo studio in un convento, che gentilmente il vostro parroco don Luigi si è disposto a cercare. Ho discusso a lungo con lei della questione, neanch’io avrei voluto il suo allontanamento dalla nostra dimora, eppure mi è sembrata molto determinata. Ha cercato il mio appoggio e ho ceduto alla sua richiesta, per darle modo di vivere da sola la sua vita e il suo percorso di studi, come mi aveva espressamente chiesto.
Lucrezia vuole fiducia, e credo che Lei ed io – le persone di cui in assoluto si fida di più – siamo in dovere di mostrargliela.
In quest'ultimo anno, è diventata per me un'amica importante: desidero che abbia il meglio, e non ho alcun dubbio nella sua capacità di riuscire in ciò che si è prefissata.
Sono sicura che anche Lei, come parente più prossimo, voglia il suo bene, pertanto mi auguro che non proverà in alcun modo a contrastarla. Se le saremo vicini e la sosterremo, il suo futuro sarà anche la nostra gioia.
Confido in questo e aspetto in una sua prossima visita, appena verrà a Napoli, così potremo parlarne di persona. Insieme a mio marito la saluto cordialmente.
Elvira Amodei
16. IL CONVENTO
Non le importava quanto fosse piccola la cella dove suor Costanza l'aveva accompagnata: tra quelle mura Angelo Giovanni non sarebbe mai arrivato.
Sotto la finestra affacciata sul cortile c’era un tavolino: le avrebbe dato modo di studiare e di guardare la vita nel chiostro. Un letto con il comodino di lato e ai piedi il catino, un armadio a due ante e due sedie completavano l’arredamento.
Suor Costanza, mentre l'aiutava a disfare i bagagli, le aveva elencato una serie di regole: lodi al mattino, vespri alla sera e obbligo della messa domenicale alle otto nella cappella. Per i pasti bisognava rispettare gli orari del refettorio, che Suor Giulia le avrebbe fatto avere di lì a poco. Come altre ragazze che soggiornavano nel convento, avrebbe dovuto impegnare il suo tempo allo studio: non era possibile prolungare la permanenza oltre gli anni previsti per arrivare alla laurea. Lucrezia annuiva a ogni informazione di suor Costanza.
“Sono venuta per realizzare il mio sogno lontano dal mondo, e lo studio, per i prossimi cinque anni, sarà la mia priorità assoluta,” assicurò la ragazza.
“Tra poco verrà suor Giulia, puoi rivolgerti a lei per ogni cosa” le disse ancora suor Costanza prima di chiudere l'uscio alle sue spalle.
Rimasta sola, Lucrezia, superato il primo istante di smarrimento, trasse un lungo sospiro e iniziò a sistemare libri e vestiti: in quel luogo si sentiva al sicuro. Nessuna incertezza e nessun rimpianto doveva appesantire il suo cammino: era più che mai determinata a costruire il suo futuro.
Un ticchettio sulla porta la distrasse dai libri che Elvira le aveva regalato e che aveva incominciato a sfogliare.
“Buongiorno, signorina, sono suor Giulia. Felice di incontrarvi e ben arrivata nella nostra comunità.”
La suora era giovane e bella, con gli occhi come un cielo sereno. Lucrezia ne fu subito attratta: non sapeva ancora che negli anni successivi sarebbe diventata la sua amica, il suo punto di riferimento.
“Sono felice anch'io di trovarmi qui con voi, le rispose, e spero che, oltre a vivere sotto lo stesso tetto, potremo passare un po’ di tempo insieme.”
“Sicuramente! Qui le giornate sono scandite da molte incombenze, ma potremo trovarci nei ritagli di tempo. Il mio compito è stare vicino a voi nel miglior modo possibile, perciò spero che vi rivolgiate a me, soprattutto nei momenti di bisogno.”
Quelle parole, agli occhi di Lucrezia, fecero di suor Giulia una persona ancora più bella.
Il suo sorriso, il suo sguardo limpido e carezzevole, il suo dire pacato comunicavano un immediato senso di pace e fiducia: erano medicina e luce per il suo spirito. Si strinsero le mani e per Lucrezia fu come una carezza al cuore, che riuscì a disperdere i pensieri che l’avevano turbata negli ultimi tempi.
“Ci ritroviamo per l'ora di pranzo, la puntualità è una regola importante” disse la suora, accennando alla lista degli orari sul comodino. “Più tardi vi accompagnerò dalla madre superiora e a visitare il convento.”
“Allora perché aspettare? Facciamolo subito!” rispose la ragazza. “Non vedo l'ora di incontrare facce nuove e conoscere il posto dove ho deciso di vivere nei prossimi anni.” Attraversarono il chiostro, l’aria sottile e fredda portò Lucrezia a stringersi nello scialle di lana color arancio.
“Bello!” disse suor Giulia.
“Era di mia nonna e ci sono affezionata.”
Intanto erano arrivate alla cappella; poi visitarono la sala delle letture, dove le pareti rivestite di libri facevano da cornice ad alcuni tavoli per lo studio e la ricreazione.
In fondo c’era il refettorio, con dietro la cucina fornita di una grande dispensa.
“Questa è suor Vittoria, la nostra cuoca. La nostra nuova ospite,” disse suor Giulia, presentandole a vicenda.
Continuarono la visita fino al piano superiore, dove si apriva un lungo corridoio con altrettante celle occupate dalle suore. Dall’altra parte, un salone dalla volta dipinta, dominato da un enorme crocifisso, faceva da anticamera all’ufficio della Madre Superiora. “Se avrete bisogno, la troverete sempre qui, pronta ad ascoltarvi,” disse suor Giulia. “Sta sempre rinchiusa qui, tra le sue carte e il suo male alle ginocchia: scende mal volentieri le scale, anche per recarsi in cappella.”
Dopo un breve tocco sulla porta, dall'interno una voce sostenuta rispose “Avanti!”
“Madre, le ho portato a conoscere la nuova arrivata, Lucrezia …”
“Riverisco, Madre” disse Lucrezia, alquanto timida.
“Spero vi troverete bene qui con noi. Don Luigi ha tessuto molte lodi nei vostri riguardi. Vi do il benvenuto, e per ogni cosa suor Giulia sarà a vostra disposizione, come me e le altre consorelle. Le regole sono quelle che suor Costanza vi ha elencato, perché lo fa con tutte.
Il vostro dovere è ubbidire e studiare, e se volete rendervi utile in qualche mansione, oltre al vostro studio, saremo contente di farci aiutare: le braccia e le menti non sono mai troppe. Qui facciamo ore di lettura e ricamo; don Luigi ha esaltato le vostre doti nella lettera di accompagnamento, spero vogliate condividerle con le altre ragazze. Ci troveremo per i vespri, ora andate pure, ho molto da sbrigare.”
“Sarò felice di potermi rendere utile in qualche modo. Vi ringrazio, Madre, per la fiducia che riponete in me. Buona giornata.”
Lucrezia uscì da quella stanza con la consapevolezza di aver trovato una casa.
Lo zio le aveva promesso con un breve telegramma che sarebbe venuto presto a trovarla, ma erano trascorsi quasi due mesi e di lui non aveva notizie, se non quelle scritte da Felicita.
Nel suo cuore, Lucrezia stava costruendo una nuova dimora. Amava sempre di più la tranquillità del convento: il mondo oltre il cancello, per lei, si limitava alle lezioni in Accademia e alla corrispondenza con Elvira. La quotidianità era scandita dallo studio in cui si era tuffata.
Quel mese di novembre aveva portato nuvole, accompagnate spesso da una pioggia sottile, insistente e soprattutto triste. Ma quando si trovava con Suor Giulia, Suor Costanza, le altre suore e le ragazze che nel frattempo aveva iniziato a conoscere, Lucrezia riusciva ad accantonare la sua pena: per loro indossava una maschera di allegria e solarità, anche se portava dentro una ferita che nessuno poteva vedere e rimarginare. Le notti erano già più lunghe, il silenzio scendeva presto ad accentuare la sua malinconia.
In una di quelle sere buie, mentre era sola in camera a studiare, Lucrezia si sentì svenire, e si ritrovò a notte fonda con la testa riversa sui libri. Quel malore le parve un campanello d’allarme e la portò a sperare con tutto il cuore di non essere rimasta incinta: non avrebbe potuto tollerare che la progenie di Angelo Giovanni mettesse radici nel suo ventre.
Temeva per quello che sarebbe potuto accadere, ma decise che comunque non c'era modo di uscire da quella situazione, seppure fosse capitato il peggio: bisognava solo aspettare, il tempo le avrebbe dato la risposta.
Nei giorni seguenti si affidò alle preghiere, continuando a vivere come se nulla fosse successo: cercò di allontanare quel pensiero concentrandosi nello studio.
Infine, sebbene non potesse raccontarle tutte le sue ansie, scrisse alla sua amica Elvira.
Napoli, 16 novembre 1902
Carissima Elvira,
Anzitutto mi rammarico per non aver risposto prima al tuo messaggio di augurio e saluto ricevuto un mese fa, ma come puoi ben comprendere la necessità di iniziare gli studi ha assorbito molto del mio tempo. La frequenza universitaria è iniziata già da qualche settimana e ti dirò che sono molto affascinata dal percorso che ho deciso di intraprendere. Tu sai quanto ci tenevo, e la lotta che ho affrontato con lo zio per arrivare dove sono: senza il tuo appoggio forse non sarei riuscita.
Mi piace studiare, ma amo molto anche la mia nuova vita: qui ho trovato persone che si prendono cura di noi ragazze in maniera straordinaria. La vita in convento è scandita da regole ferree: tra studio, preghiere e lavoro, ognuna di noi ha il suo da fare.
Questi due mesi mi hanno portato a conoscere le novizie, le altre ragazze che come me sono ospiti in convento, e tutte le suore. Suor Giulia è la più giovane e con lei passo molto del mio tempo libero: mi è sempre vicina anche nei momenti in cui mi sento lontana da voi e dal vostro affetto, ma sto bene e voglio che anche voi siate felici per me. Quando lo studio me lo permette, mi dedico alle letture nella sala del ricamo, con l'approvazione della madre superiora. Come te, anche qui apprezzano molto il mio modo di leggere e questo mi dà soddisfazione. Suor Vittoria è la cuoca che ci vizia con i dolci e suor Costanza, all'apparenza severa, in fondo ha un grande cuore. La domenica mattina, ligio al dovere di confessare e celebrare, l’umile e anziano don Giuseppe arriva dondolandosi sui fianchi, accompagnato sempre da Emilio, il chierichetto, che risponde a stento se interpellato e cela uno sguardo opaco. I suoi tredici anni sembrano pesargli, indossa quasi sempre lo stesso paio di pantaloni, con rammenti di ogni sorta; a giudizio delle suore è un po' tocco, ma posso assicurarti che gli ho parlato, e tocco proprio non è. Emilio è orfano e don Giuseppe lo ha accolto per fargli servire messa, intanto gli insegna a leggere e scrivere. A volte cerco di ottenere da lui qualche parola in più, per capire se in qualche modo lo si possa aiutare. I suoi occhi blu mi fanno tenerezza e vorrei fare qualcosa per lui, spero il Signore mi aiuti in questo.
Spero anche di vederti presto: sai che ne sarei felice e ti aspetto.
Un caro saluto e un pensiero per il piccolo Ferdinando, tua Lucrezia.
17. ASPETTANDO IL 1903
Era l’inizio di dicembre quando finalmente giunse una lettera dello zio.
Pizzotano 24 novembre 1902
Cara nipote,
Non sono riuscito a farti visita in questi mesi, anche se i miei viaggi nella città partenopea sono molto frequenti per via del mio lavoro, ma purtroppo è proprio il lavoro che assorbe molto del mio tempo e di conseguenza i giorni passano accumulando le settimane. Da quando sei partita molte cose sono cambiate nella mia vita, cercherò comunque di farti visita prima del prossimo Natale. Durante le festività non credo potremo passare del tempo insieme: qui in casa resta solo la nostra Felicita, per cui ritengo opportuno che tu resti al monastero. Se vorrai potrai tornare questa primavera, quando avrai completato qualche ciclo di studio. Ho saputo da don Luigi, il quale ha uno stretto rapporto con la madre superiora, che le suore sono entusiaste di te: ne sono orgoglioso, anche se non riesco ancora ad approvare la tua scelta. Penso che rifiutare il matrimonio con il Fiorentini sia stato l’errore più grande che potevi fare, ma lascio con rammarico che ora viva la tua vita. Quando verrò a trovarti ti parlerò dei cambiamenti che ho apportato alla mia, senza che tu possa venirne a conoscenza da terzi. Sarà solo per informati, perché è già tutto deciso.
Ci ritroveremo presto ti saluto con affetto,
zio Giuseppe.
In quello scritto lo zio aveva ancora manifestato la sua disapprovazione, ma Lucrezia cercò di non dare troppo peso alla freddezza che lui le dimostrava per la sua scelta. Non poteva raccontargli il suo vissuto, e quanto si sentiva ferita. Meno male che arrivò Emilio, mandato da suor Giulia, ad avvisarla che don Giuseppe a sorpresa voleva preparare la novena di Natale e rendere partecipi anche le ragazze.
“Arrivo subito!” rispose al ragazzo. Infilò la lettera nel fondo di un cassetto, quasi a non volerla più trovare, e preso il suo scialle color arancio seguì Emilio nella cappella, dove le altre con alcune suore avevano iniziato a organizzare le settimane che precedevano la solennità.
Erano trascorsi all’incirca quindici giorni, quando in un pomeriggio di metà dicembre suor Costanza venne a portarle un breve messaggio di Elvira:
Carissima Lucrezia, perdona il mio silenzio, ma sono di nuovo incinta e come l’altra volta questo comporta un riposo assoluto. Non potremo vederci per il prossimo Natale, ma mi auguro di ritrovarci presto. Intanto accetta i miei auguri più cari.
Sperandoti in buona salute, ti abbraccio, Elvira.
Lucrezia, felice e dispiaciuta allo stesso tempo, realizzò che per lei quel Natale sarebbe stato diverso.
Quando arrivò lo zio, la festa era passata da due giorni.
“Ho aspettato a venire, per mettere insieme la visita un viaggio di lavoro. Felicita ti ha confezionato queste cose,” le disse porgendole una scatola abbellita da un gran fiocco rosso.
“Non importa, zio, sono felice di vederti,” rispose Lucrezia. “Dimmi, come state tu e Felicita?”
“Bene, bene! Guarda nella scatola, ti ha scritto un biglietto. Qui come vanno le cose? Gli studi proseguono?”
“Sì, zio, ho iniziato l’accademia e poi qui ho trovato persone fantastiche con cui ho allacciato un buon rapporto, stai tranquillo per me. Voi a casa?”
“Be’, a casa… bene.”
Lucrezia ebbe l’impressione che lo zio volesse sviare il discorso per non parlare della sua vita; lasciò correre e gli raccontò dei suoi studi.
“Sai, credo proprio che l’arte sia la mia vita.”
“Immagino che in questo abbia preso da tua madre: non puoi saperlo, ma lei era proprio come te… ma allora erano tempi diversi.”
A Lucrezia sembrò strano che lo zio avesse accennato a sua madre: non l’aveva mai ricordata.
“Sono felice che mi parli di lei. La nonna mi raccontava spesso dei vari schizzi e degli acquerelli che la mamma amava dipingere: li conservava con cura nello scaffale dello studio. Molte volte andavo a guardarli di nascosto, ma ormai quel tempo sembra così lontano.
Sei passato a trovare i conti? Elvira mi ha scritto, annunciandomi l’arrivo di una nuova creatura: sono molto felice per loro, ma soprattutto per il piccolo Ferdinando che non resterà da solo.”
“Mi sono compiaciuto anch’io con loro, perché ho avuto modo di ritrovarli dopo la tua decisione, e la contessa è stata molto esauriente nel parlarmi della tua scelta.
Ora continua il tuo cammino; io non sarò molto presente perché, alla mia veneranda età, voglio pensare anche a me stesso, alla mia vita, nella quale ho deciso di far entrare Eloisa. Lei non ha ancora accettato, ma le ho chiesto di sposarmi.”
“Ma io... zio, sono felice per questo, Eloisa è una brava persona e sono sicura che saprà starti vicina.”
Il colloquio fu interrotto dall’arrivo di suor Giulia che le ricordava i vespri. Lo zio sembrò sollevato da quella interruzione e in quattro e quattr’otto svicolò da Lucrezia e dalle sue domande.
La salutò però con un forte abbraccio, sicuramente l’ultimo di quel 1902, promettendole che presto sarebbe ritornato.
Dopo i vespri e la cena, Lucrezia, rientrata nella sua stanza, aprì il pacco che Felicita le aveva mandato: l’odore dei dolci che vi erano contenuti aveva intriso anche la lettera che Felicita le aveva scritto.
Pizzotano, 23 dicembre 1902
Mia picola Lucreza,
si zinna picchì ti pensu sempi zinna, suncu cuntenda ca ti pozzu scrivi, ti penzu e mi mancasi. Sta casa senza di te e vacanti aspettu a quannu tornasi. Li rispeddi e lucerni reggiu fatti apposta pi te mangiatiri pi la amori mia. Qua tanti cunti nu su chiù cumi a prima, ziu tua lu nutaro mò spissu porta da Napuli quira signura Eloisa, cu miecu e brava, e tutti li genti di lu paisi dicini ca e la zita sua, io puru pensu ca e daccussì ma fazzu finta di nenti e nu’impicciu, ma quannu vienidi loru duormini zemma inta la stessa cammara cu lu liettu granni. Qua ogni tantu vieni Franciscu lu mizzadru chi facìi la terra vosta e ti saluta, vieni pi zappà d’urtu vicinu la casa e può tutti li paisani chi canoscisi puru tu e m’addummannani di te e ti salutani. Io mi fazzu vacchia e tengu bisugnu di cumpagnìa. Ma mi voni tutti beni. A nu campusantu ci vavu ogni simana e ci portu sempi li fiuri frischi, statti cu la capu serena ca finu a quannu mi sengu pensu a tutti cosi. Aspettu chi tornasi priestu e mò ti salutu ti vasu e ti fazzu l’agurii di natali. Tua Felicita.
Mia piccola Lucrezia,
sì, piccola perché ti penso sempre piccola. Sono contenta che posso scriverti, ti penso e mi manchi. Questa casa senza di te è vuota e aspetta il tuo ritorno. I dolci di Natale li ho preparati solo per te, mangiali per amor mio.
Qui tante cose non sono più come prima, il notaio tuo zio ora porta molto spesso da Napoli quella signora Eloisa che con me è molto brava, e tutte le persone del paese dicono che è la sua fidanzata. Io pure penso che lo sia, ma faccio finta di niente e non m’impiccio. Quando vengono, dormono insieme nella stessa camera da letto. Qui ogni tanto viene Francesco, il mezzadro che coltivava la vostra terra, e ti saluta: viene a zappare l’orto intorno alla casa. Poi tutti i paesani che ti conoscono mi chiedono di te e ti salutano. Io mi faccio anziana e ho bisogno di compagnia e tutti mi vogliono bene.
Al cimitero vado ogni settimana e ci porto sempre i fiori freschi. Tu stai serena, perché fin quanto sto bene faccio tutto io. Aspetto che ritorni presto.
Ora ti saluto, ti bacio e ti faccio gli auguri Di Natale. Tua Felicita.
18. BRUTTE NOTIZIE
Lucrezia aveva già passato quattro anni in convento; ne era uscita solo due volte per ritornare dalla sua Felicita; ogni tanto veniva a farle visita la contessa con Ferdinando e la piccola Maria Rosaria. Più di rado era tornato lo zio, che ultimamente si dimostrava affettuoso, assai diverso dalla persona che era stato in passato, anche se nelle sue visite, talvolta, le era sembrato assente e un po’ triste. Lucrezia gliene aveva chiesto spiegazioni, e lui le aveva sempre detto di essere preoccupato per alcuni affari, in cui aveva posto molte aspettative. Del suo matrimonio con Eloisa non aveva più parlato, e Lucrezia non aveva osato farvi cenno.
In realtà, aveva saputo da Elvira che la donna aveva rifiutato la proposta di suo zio, per non lasciare il fiorente giro d’affari che gestiva in un quartiere di Napoli: pareva si trattasse di una casa d'appuntamenti, riservata a uomini d'alto rango.
Era un giorno di maggio del 1907: Lucrezia non si aspettava di essere convocata dalla madre superiora per una brutta notizia.
Don Luigi aveva fatto giungere in Convento un telegramma: “Mi duole comunicare la dipartita del fratello Amilcare Giuseppe Magistris. Vogliate comunicare alla signorina Lucrezia il grave lutto che l'ha colpita. Reverendo don Luigi Millo.”
Con lei erano stati convocati dalla madre superiora anche Elvira e il conte, che si offrirono di accompagnare la ragazza a Pizzotano, per il funerale.
Il conte sapeva bene che lo zio di Lucrezia aveva posto fine alla sua vita, con un colpo di pistola all'orecchio. Cercò di farglielo capire con il maggior tatto possibile.
“Mi dispiace tanto, mia cara… da qualche anno vostro zio era deluso e amareggiato per il rifiuto della signorina Eloisa. Temo che sia stato questo a portarlo al gesto estremo e mi rammarico, come amico, di non aver compreso fino in fondo il suo stato di prostrazione. Fatevi coraggio: Elvira ed io vi saremo vicini e veglieremo su di voi.”
La partenza per Pizzotano fu molto triste: il viaggio fu estenuante, ma l'arrivo e l'abbraccio di Felicita furono anche peggio. Elvira fece il possibile per non lasciar sola l’amica, ma qualche giorno dopo, con il conte, dovette rientrare a Napoli, per raggiungere i figli.
Lucrezia decise di rimanere ancora qualche giorno con la sua Felicita. Il pensiero di quella morte che non le dava pace.
Il conte aveva pensato a ogni cosa: alla sepoltura e ai documenti necessari per la giustizia, ma lei voleva scoprire la verità su quella tragica fine.
Qualche spiegazione, forse, poteva esserci negli scritti che lo zio custodiva nello studio. Proprio lì lo aveva trovato Francesco, riverso sullo scrittoio, con ancora in mano la pistola con cui il nonno conservatore e reazionario aveva combattuto l’invasione garibaldina.
Mise a soqquadro ogni libro e pezzo di carta della biblioteca, ma la risposta che cercava venne a portarla don Luigi qualche giorno più tardi.
“Vostro zio, qualche tempo fa, mi ha affidato questa lettera, da consegnarvi in caso gli fosse successo qualcosa. Beh… non pensavo certamente che dovessi assolvere così presto il mio compito, ma devo rimettermi alla sua volontà e come vedete sono qui. Se avete bisogno del mio appoggio sarò felice di starvi vicino. Vedrete che il Signore saprà darvi la giusta forza per superare ogni cosa, la fede vi è compagna. Prega, figlia mia!”
“Grazie, don Luigi, pregate anche voi per me. Vi ringrazio per ogni cosa, ma ora ho bisogno di rimanere sola…”
Congedato il prete, Lucrezia sedette vicino a una delle finestre che davano sulla strada e iniziò a leggere.
Pizzotano, 5 maggio 1907
Mia cara nipote,
Ho lasciato passare la Pasqua e poi il tuo compleanno senza farmi sentire, ma non volevo dovessi vedermi nello stato in cui mi trovo. Ho sbagliato molte cose, ma ho vissuto la mia vita e non sono pentito per questo.
Se stai leggendo queste righe, è perché ho trovato il coraggio di porvi fine, ora che non ha più alcun senso per me.
Sappi che la famiglia è la sola forza che ancora sento vicino: nel mio cuore ci siete tu ed Eloisa, che è stata una parte importante della mia esistenza.
Non ho mai avuto il coraggio di parlarti del suo rifiuto alla mia richiesta di matrimonio… Avevo cercato di darle ogni bene: volevo che cambiasse vita, non solo per lei, ma anche per il figlio nato qualche anno fa. Lei non ha mai voluto ammettere la mia paternità.
Un giorno, però, me l’ha confermato durante una discussione, sbattendomi fuori casa.
“Se anche fosse tuo, mi ha detto, non potrei mai vivere con un notaio: mi sentirei imprigionata, non ti amo abbastanza!”
Le avevo dato ogni cosa e quel bambino, per me, era il bene più prezioso.
Ma ciò che ora mi turba è la sua partenza per l'America: ho saputo che si è imbarcata sul piroscafo per il Brasile all'inizio di marzo, portandosi via anche il bambino. Ho provato tramite i miei contratti ad avere notizie, ma sembra sparita nel nulla e questo mi spezza il cuore.
Nulla è rimasto se non la nostra casa, ho dissolto il patrimonio in loschi affari. So che avrai cura di ciò che resta, e questo poco te l'affido con il cuore.
Se un giorno avrai modo d’incontrare un giovane con il nome di Biagio Maria, pensa che potrebbe avere il nostro sangue: confido che Eloisa possa raccontare a quel figlio le sue origini.
Perdonami per il dolore che ti lascio.
Tuo zio Giuseppe.
Immersa in quella confessione, Lucrezia non si era accorta della presenza di Felicita, che la guardava dalla soglia. Piegata la lettera, ebbe la forza di nascondere la sua angoscia. I suoi occhi luccicavano, ma trattenne le lacrime: non voleva giudicava l'operato dello zio, e raccolse dentro di sé l’amarezza e lo smarrimento che provava.
Le due donne si strinsero in un abbraccio e si avviarono nella sala da pranzo; la tavola era apparecchiata.
19. RICOMINCIARE
Era passato un anno, e anche se gli ultimi malintesi con lo zio avevano portato entrambi ad un allontanamento non voluto, ora che lui non c’era più, la sua mancanza era diventata un macigno. Lucrezia, tuttavia, in quell’ultimo anno, con l’affetto di Elvira, il supporto di suor Giulia e del relatore professor Martini, era riuscita a terminare gli studi.
Aveva deciso di dedicare la tesi ad un pittore italiano, di origini calabresi come lei: uno tra i principali esponenti del caravaggismo e della pittura napoletana del Seicento.
Mattia Preti era soprannominato il Cavaliere Calabrese, perché era stato fatto cavaliere da Papa Urbano VIII. Lucrezia era affascinata dalle sue opere corpose, veristiche e apocalittiche.
Questo aveva portato la ragazza a vivere per un certo periodo a Taverna, il piccolo centro della Sila catanzarese dove il Preti era nato, per conoscere l’ambiente in cui l’artista aveva iniziato il suo percorso.
Fu proprio in quel periodo che Lucrezia, per necessità di studio, incontrò, con una lettera di presentazione di don Luigi, il professor Alberto Martini: uomo di alta statura, sempre elegante, corti capelli sale e pepe.
Nell’atelier della fondazione Preti, si era accostato a lei fingendo di guardare un quadro, ma era troppo vicino perché si trattasse di un caso. Lucrezia scoprì che aveva lavorato a Napoli nella sua stessa accademia, per poi ritornare alla sua terra. In lui aveva individuato la persona giusta per fare da relatore alla sua tesi, ma si era accorta anche che i suoi occhi l’avevano stregata al primo sguardo. Sapeva di dover fare attenzione, non avrebbe più dovuto fidarsi degli uomini, ma con lui non era riuscita a evitarlo. La sua determinazione era crollata nel momento stesso in cui l’aveva incontrato.
I giorni trascorsi con lui, nonostante lo stress per lo studio, si erano riempiti di gioia. Il professor Martini, in quell’ultimo anno, era diventato il punto fermo della sua vita.
Quanto a lui, seppur affascinato dalla bellezza e dalle qualità della ragazza, aveva cercato in tutti i modi di mantenere la giusta distanza, consapevole degli anni che li dividevano e del suo ruolo di docente. Ma nel giorno della laurea di Lucrezia nessun altro se non il professor Martini era con lei all’accademia, per la discussione della tesi. Quando le fu decretata la laurea con lode, lui l’afferrò in un abbraccio: a Lucrezia per un attimo parve di sognare, ma fu solo un momento. L’uomo si staccò da lei e ritornò ad essere il compito professore che l’aveva accompagnata in quel difficile anno di vita, poi si congedò garbatamente.
“Sono felice per lei, e spero che presto potrò ritrovarla in qualche mostra. Per qualche giorno ho degli impegni improrogabili qui a Napoli e non credo avrò modo di venire a farle visita.”
La lasciò così, con la gioia per la fine degli studi e l’emozione di un nuovo sentimento: lui poteva essere l’uomo della sua vita. Non le importavano gli anni in più che dimostrava, ne era innamorata. Avrebbe saputo conquistarlo.
Forte di questa convinzione, ritornò in convento, dove suor Giulia, suor Costanza e le altre le avevano preparato per lei una piccola festa di laurea. C’era anche don Giuseppe e con lui era tornato Emilio, che era riuscito con l’aiuto di Elvira a studiare in una scuola di Arti e mestieri.
“Sono felice di vedervi,” gli disse Lucrezia, quando si trovarono soli in un angolo, mentre deliziavano il palato con i dolci che suor Vittoria aveva preparato per l’occasione.
“Sono felice anch’io per il vostro traguardo, ma non sono venuto solo per festeggiarvi: a giorni partirò per il nord, ho studiato molto anch’io per raggiungere la mia meta, ed ora è tempo di partire. Una fabbrica di automobili nata da qualche anno a Torino cerca manutentori, e così sono stato scelto dalla mia scuola per questo impiego: credo che sarò assunto, perciò mi faceva piacere ringraziarvi. Senza il vostro aiuto, questo per me non sarebbe stato possibile: ho conosciuto la contessa Elvira grazie a voi, e ve ne sarò infinitamente grato. Se me lo permetterete, quando sarò lontano, in quella fredda città del nord, vi scriverò, ogni qualvolta avrò bisogno di parlare come si fa con una sorella più grande.”
“Sarò felice di avere una corrispondenza con voi, e lo sarò molto di più se mi racconterete del nord e della città dove andrete a vivere,” gli rispose Lucrezia.
La piccola festa terminò tra saluti e promesse. Lucrezia a giorni sarebbe ritornata al suo Pizzotano, dove l’aspettava la sola persona che le era rimasta della sua famiglia.
20. IL RITORNO
Erano passati solo due giorni quando Elvira venne a prenderla in convento per una passeggiata. Mentre la carrozza viaggiava lungo la via centrale, dal finestrino Lucrezia spinse lo sguardo sul marciapiede opposto, e lo vide. Il professor Martini, vestito elegantemente, passeggiava con calma in mezzo alla folla.
Pregò Elvira di far fermare la carrozza e, quando furono scese, cercarono di seguirlo tra la folla.
“È il mio professore,” disse Lucrezia all'amica, “ma potrebbe essere l'uomo della mia vita.” Stava per chiamarlo, si trattenne appena in tempo. Aveva infatti notato una giovane donna al suo fianco, che prima non aveva visto: camminavano tenendosi a braccetto, lei era davvero bella. Molto giovane.
Lucrezia si sentì crollare il mondo addosso, in quel momento capì che il suo era un amore a senso unico e doveva farsene una ragione, perché il professor Martini non le aveva mai dato speranze. Si sentì stupida e ingenua e non riuscì a trattenersi dal piangere.
“Sono una sciocca, vero?”
“No, sei solo innamorata” rispose l’amica, cercando di confortarla.
La folla era fitta e le possibilità che lui la vedesse per caso erano piuttosto basse.
Con Elvira, si fermarono a guardare qualche negozio, poi entrarono in un bar, si sedettero a un tavolino e chiacchierarono del tempo vissuto insieme. Si dissero che nessuna delle due era fortunata in amore, mentre quella loro amicizia era una riserva di momenti tenerissimi, fatti di confidenze, di libri scambiati e serate trascorse a parlare.
Era l'ultimo pomeriggio prima della partenza di Lucrezia per Pizzotano, e si promisero una fitta corrispondenza, in attesa di ritrovarsi.
La mattina della partenza una nebbiolina lattiginosa avvolgeva ogni cosa: sembrava voler cullare la tristezza di Lucrezia in un manto ovattato, attutendo i rumori dei suoi pensieri.
Il viaggio di ritorno le sembrò interminabile, erano passati quasi sette anni da quando era partita con tanti sogni nella testa; ora, anche se aveva una laurea in tasca, si sentiva delusa dalla vita e da ciò che il destino le aveva riservato.
A Pizzotano l'unica ad attenderla, oltre ai ricordi, era la sua Felicita, ma nel volgere di qualche settimana constatò che i suoi compaesani erano entusiasti della sua presenza in paese. Era diventata per tutti donna Lucrezia, e le riservavano sorrisi e complimenti, chiedendole spesso consiglio su vari argomenti.
Fu don Luigi, una sera che era venuto a farle visita, a indicarle una via per il suo tempo futuro. “Custodisci un tesoro in questa biblioteca,” le disse, volgendo lo sguardo ai libri dello studio. “Sai, qui in paese non tutti sanno leggere. Se sei d’accordo, potremmo sistemare la camera dietro la sacrestia e farne una sala lettura… sarebbe un bene.”
“Sì, sì…” rispose per lei Felicita, che si apprestava a servire il tè. “lo farà di sicuro, vero che lo farai, Lucrezia?”
La ragazza, non osando spegnere l’entusiasmo che si era creato tra i due, finì per annuire accennando il suo sì.
La domenica successiva, durante la messa, don Luigi diede l'annuncio che in parrocchia sarebbero iniziate le serate di lettura: anche chi lavorava la terra avrebbe avuto modo di parteciparvi.
Lucrezia non sapeva che quello sarebbe stato solo l'inizio. Si sentiva appagata dall’attenzione con cui le persone semplici seguivano le sue letture. Ogni qualvolta finiva di leggere una storia, le chiedevano come si faceva a scrivere le storie nei libri; cominciò così anche una scuola di scrittura per i più piccoli, e i grandi vollero tutti imparare a scrivere il proprio nome. “Impariamo a firmare senza la croce,” dicevano in coro, quando si ritrovavano in piazza.
La signorina donna Lucrezia, senza volerlo, era diventata la maestra di tutti.
Era amata e apprezzata, anche se a volte alcuni pettegolezzi le giungevano alle orecchie.
Le malelingue la chiamavano “zitella”: ormai aveva ventotto anni e in paese era considerata vecchia per trovare marito.
21. CONVINCERSI
Chissà, forse quelle malelingue avevano ragione, ma lei non si sentiva tanto vecchia da dover rinunciare alla sua vita.
Però Don Luigi in confessione era stato diretto: “Non è solo l'età, figlia mia, tu non hai più la purezza per il matrimonio. Prima te ne convinci meglio sarà per te.” Era stato sincero.
Lucrezia ripensava spesso a quelle parole, in cuor suo sapeva bene che quella era la verità. Lei si portava addosso il male che Angelo Giovanni le aveva lasciato in una notte di fine settembre; aveva cercato di rimuoverlo dalla mente, ma non poteva toglierlo dal suo cuore e soprattutto dal suo corpo. Doveva solo convincersene.
Intanto, senza risparmiarsi, continuava a insegnare ai bambini di Pizzotano: ora anche il podestà, a cui don Luigi aveva chiesto aiuto, si era detto disponibile a sostenere quel piccolo progetto partito dal niente. Non era semplice. Tutto si svolgeva di sera, perché il giorno era fatto per il lavoro anche per i più piccoli.
“Devono andare nei campi a imparare il mestiere, non possono perdere troppo tempo sui quaderni,” dicevano i vecchi. E poi iniziava l’autunno, di sera il buio scendeva in fretta e bisognava risparmiare l'olio per le lampade.
Le letture continuarono alla luce del caminetto della canonica, dove ogni sera chiunque arrivava portava il suo pezzo di legno per scaldarsi, ma scrivere non si poteva.
Quell’impegno aiutava Lucrezia a compensare la sua rinuncia, ma quando si ritrovava da sola sentiva una profonda inquietudine.
Si avvicinava il tempo dei morti, eppure Lucrezia aveva sempre visto nell’autunno la stagione più bella, fatta di esplosioni di colori.
Decise di reagire al senso di chiuso che l’opprimeva: con tavolozza e pennelli andò in giro per i campi che aspettavano l'arrivo della pioggia. Il terreno era spaccato dalla siccità: era da tanto che non pioveva, i sentieri erano pieni di polvere e il vento faceva alzare l’odore della terra asciutta. Si rese conto che aveva perso l'abitudine di sentire gli odori della natura. Quando era piccola, andava in campagna con Felicita, che le diceva di fermarsi ad annusare l'aria. Chiuse gli occhi e provò a fare come allora: respirò il vento e assaporò il profumo delle foglie e della terra, poi arrivò oltre la collina dove, seduta ai piedi di un’enorme quercia, iniziò a contemplare e fissare i colori sulla tavolozza. Mentre dipingeva, si sentiva più leggera, libera dai soliti pensieri.
Elvira le aveva fatto giungere da Napoli alcune riviste che parlavano delle nuove tendenze in campo artistico, ma anche un cavalletto, numerose tele e ogni sorta di colori e pennelli. Rifugiarsi in collina a dipingere diventò per lei un rituale quotidiano: concentrata nella ricerca di un nuovo modo di vedere, non voleva riprodurre la realtà, ma interpretarla, proprio come gli artisti incontrati nelle pagine delle riviste. Iniziò così a costruire un suo stile, rappresentando la realtà secondo la propria visione interiore, e traducendo le emozioni nel linguaggio dei colori.
Sperava, con quei suoi lavori e con l’aiuto di Elvira, di poter realizzare una mostra personale. Quando la primavera bussò alle porte, molti nuovi dipinti erano pronti nello studio di Lucrezia. Era tempo di scrivere all'amica, per cercare di dar vita al nuovo sogno.
Elvira fu molto felice e disponibile, ma ci vollero alcuni anni prima che il progetto potesse andare a buon fine. Infine, scelte le opere e la collocazione, le due donne si prepararono a inaugurare la mostra, senza dimenticare l'invito per il professor Martini: Lucrezia non avrebbe potuto rinunciare alla sua presenza.
Per l’occasione, il conte Amodei aveva invitato molte persone del suo rango; perciò Lucrezia sperava di vendere un buon numero di quadri, e così poter ampliare la sua piccola scuola con il centro di lettura a Pizzotano.
Voleva regalare un sogno anche ai suoi compaesani.
22. LA MOSTRA
I lecci e le querce erano sempre lì, a imporre la loro maestosità, nulla era cambiato.
Lucrezia, come dieci anni prima, ritornava nella villa di Posillipo, con nuovi sogni e la stessa gioia nell’immaginare il futuro. Ora sperava che la sua mostra potesse essere la prima di tante altre: voleva realizzare molto per i bambini di Pizzotano e, se quella era la strada per riuscirci, non si sarebbe tirata indietro, nonostante i ricordi e le inquietudini che quel luogo le procurava.
Questa volta aveva portato con sé anche Felicita, e aveva chiesto a Elvira di dividere con lei la camera da letto, per non dover soggiornare nella stessa stanza dove il suo malessere segreto era iniziato.
Sofia continuava a governare la casa, anche se le sue gambe camminavano molto più piano.
Ferdinando e Maria Rosaria erano diventati bambini deliziosi e diligenti. Lucrezia pensò che non potesse essere altrimenti, quando si trovò faccia a faccia con l'educatrice che li seguiva: donna distinta, personale aggraziato e all’apparenza cortese, ma sicuramente rigorosa e attenta nel suo lavoro.
Elvira, sempre perfetta padrona di casa, dimostrò subito la sua disponibilità e accoglienza, soprattutto verso Felicita, mentre il conte rimase nello studio.
“Mio marito si scusa, ma gli affari importanti non possono attendere, vi saluterà più tardi. Sta lavorando a ultimare i preparativi, domani sarà il grande giorno e vuole che ogni cosa sia perfetta.”
“So bene quanto tempo e quante energie abbia richiesto organizzare la mia mostra, e non ho parole per ringraziare entrambi del vostro impegno,” rispose Lucrezia.
La sera a cena, il conte si congratulò con lei. “Ho cercato di aiutarvi, lo dovevo a vostro zio, ma sono davvero convinto che le vostre opere abbiano un grande valore. Spero che da domani possano avere il giusto riconoscimento.
Ho invitato molte mie conoscenze: per voi, potrebbe essere un primo passo verso il futuro.”
Quelle parole volevano darle fiducia, ma tra le conoscenze che il conte aveva menzionato Lucrezia sperava con tutto il cuore che non ci fosse Angelo Giovanni.
Passò l’intera notte a immaginare ciò che sarebbe successo, se avesse dovuto incontrarlo: quell’uomo le aveva causato un’immensa sofferenza, provocandole una vergogna che si sarebbe portata addosso per tutta la vita. Per fortuna, Felicita dormiva al suo fianco, e Lucrezia si sentiva protetta.
Era il giorno del suo trentaduesimo compleanno, quando l’atelier della fondazione Amodei mise in mostra una collezione di dipinti che Lucrezia aveva realizzato nel corso di vari anni. Tante furono le persone arrivate per l’inaugurazione. Elvira era al suo fianco, mentre il conte, con il suo collaboratore, cercava di dare disposizioni circa le vendite.
Fu un attimo: Lucrezia stava osservando un suo acquerello, quando lui le si avvicinò, con un calice di vino bianco in mano. Angelo Giovanni pareva ingabbiato in una muta di grasso, ed era alquanto invecchiato. Lucrezia vrebbe voluto ucciderlo in quel preciso momento, ma fece finta di niente. Lui non si lasciò scoraggiare dalla sua indifferenza.
“Non mi riconosci? Io ti ho riconosciuta subito, quando sei entrata. Un tempo volevo fossi mia moglie… Sei bella come allora, ti è rimasto quel modo inconfondibile di camminare, stringendo le spalle ma tenendo la testa ben alta. Mi spiace… ti chiedo scusa per quello che ti ho causato… non ho fatto pace con l'uomo che sono stato, non posso riuscirci senza il tuo perdono. Lo capisci, vero?”
Lucrezia prese la decisione in un lampo.
“Temo che lei abbia sbagliato persona. Ora, se non le spiace, la mia amica mi attende.”
Lui, però, le afferrò il polso e lo strinse forte.
“Stai mentendo,” le disse.
Lucrezia si liberò con uno strappo, ma prima di andarsene gli sibilò poche parole all’orecchio, perché le sentisse bene.
“Sta mentendo lei, e mi stia lontano.”
Corse da Elvira, quasi a nascondersi.
“Ti ho vista parlare con Fiorentini,” le disse l'amica. “Mi spiace, ma non potevamo non invitarlo. Da tempo si è trasferito a Parigi, dove fornisce tessuti a molte case di moda. È diventato uno degli uomini più influenti, nel campo delle esportazioni di tessuti pregiati, collabora persino con i paesi orientali.”
“Avrei preferito non incontrarlo,” rispose Lucrezia, mentre l’assaliva la voglia di fuggire. Quella, tuttavia, era la sua mostra, e non poteva deludere chi le aveva dato fiducia.
“Tranquilla” le rispose l'amica. “So che riparte oggi stesso, non lo rivedrai molto presto.”
Infatti, quando rientrarono insieme nella sala degli acquerelli, lui non c'era più.
Fu il nuovo collaboratore del conte - occhi verdi e bel sorriso, ma alquanto timido - a informarle che il Signor Fiorentini porgeva le sue scuse, era dovuto andar via.
“Ha fatto quello che doveva,” pensò Lucrezia, senza palesare la sua approvazione.
Il giorno dopo, dallo stesso collaboratore del conte, Lucrezia seppe che il Fiorentini aveva acquistato tutte le opere invendute, per portarle con sé a Parigi.
Era soddisfatta di aver ricavato dalle sue tele i soldi necessari per la scuola di Pizzotano. Forse, in qualche modo, il Fiorentini aveva voluto ripagarla per il male che le aveva procurato, ma a lei non importava.
“Me lo doveva,” si disse con fierezza.
23. LA SCUOLA
L’ospite più atteso aveva declinato l'invito con un breve telegramma.
“Mi rammarico, un impegno improvviso mi impedisce di partecipare all’inaugurazione, auguri. Prof Alberto Martini.”
“Sarebbe stata l’occasione per rivederlo,” pensava Lucrezia, tornando a Pizzotano con Felicita. “Sono passati anni dall'ultima volta che ci siamo incontrati, e di lui non ho saputo più nulla. L'invito era stato una promessa reciproca, ma da parte sua non è stata mantenuta. Devo solo pensare che la sua compagnia non mi è stata indispensabile.”
Intanto i pensieri continuavano ad annebbiarle la mente, proprio come la sottile polvere che entrava nella carrozza da ogni spiffero. Avrebbe voluto abbandonarsi al presente, ma il passato non le dava tregua.
Fu Felicita a distrarla, stringendole le mani.
“Sei contenta, figlia mia? Io non capisco di pittura, ma la cuntessa è dittu: tutto buono.”
Lucrezia fissò con tenerezza il vecchio viso che aveva di fronte: ogni ruga che vi era segnata rappresentava la sua consolazione, mentre il paesaggio fuori dal finestrino si faceva via via più dolce. Il treno scendeva verso la sua Calabria, tra coltivazioni di agrumeti e ulivi, da cui si scorgeva il mare. Il cielo, prima terso come l'acciaio, si era fatto di un azzurro più tenue; anche la temperatura si era addolcita e si vedevano le prime rondini.
Lucrezia comprese che quel viaggio di ritorno doveva rappresentare per lei la chiusura di un tempo sospeso, durato fin troppo a lungo.
Ricordando le esperienze passate, cercò di riassumerne il senso. Si scoprì diversa da come era partita, e guardandosi dentro abbandonò ogni tristezza: quel ritorno non significava rinuncia e sconfitta.
Vedeva un concreto futuro nelle scelte compiute: avrebbe aperto la scuola a Pizzotano.
Quella del 1912 fu un'estate tiepida e non mancarono i temporali. Lucrezia, impegnata nei preparativi per l'apertura della scuola, visse quel periodo con frenesia: ritagliava per sé momenti di solitudine, per rifugiarsi in collina a dipingere. Con i colori dava vita ai suoi sogni, lasciandosi trascinare dall’energia che sentiva dentro.
Nacquero quadri completamente diversi da quelli che finora aveva dipinti: ora voleva cercare di andare oltre la sola realtà apparente.
A Napoli, leggendo riviste e visitando varie gallerie, aveva incominciato a conoscere linguaggi artistici nuovi, lontani da quelli che venivano insegnati all’Accademia.
Era il periodo delle avanguardie e lei iniziò a esplorarle, scoprendo le infinite possibilità espressive delle forme e dei colori, libere da regole convenzionali.
Pur dedicandosi con passione alla pittyura, non dimenticava l’obiettivo della scuola e dell’istruzione popolare. Nelle lunghe sere estive, le letture nel giardino del parroco erano il modo per ritrovare i compaesani giovani e vecchi, entusiasti del suo operato.
Verso metà settembre, pochi banchi, una lavagna e un tavolo a mo’ di cattedra, nel locale attiguo alla chiesa, diedero vita alla prima scuola di Pizzotano: era solo una scuola parrocchiale e forniva un’alfabetizzazione base, ma in quel contesto e in quel periodo era l'unica accessibile alle tante famiglie che Lucrezia voleva istruire con l'aiuto di don Luigi.
Solo molti anni dopo sarebbe stata trasformata nella scuola elementare statale “LUCREZIA DEMAGISTRIS”.