QUARANT'ANNI DOPO
17 settembre 1977, dopo sessantotto giorni di scuola di addestramento reclute, nel centro specializzati truppe corazzate presso la caserma Nacci di Lecce, arrivai con un folto gruppo di commilitoni a Palmanova, città monumento nazionale, dove in due separate caserme circa ottocento militari svolgevano il loro servizio di leva. Lì avrei trascorso i prossimi dieci mesi.
La naja, a vent’anni, sconvolge il proprio modo di vivere ed essere, cambiando i rapporti con qualsiasi atto quotidiano, e pone di fronte a nuove realtà.
Signorsì, spesso mi toccava ripetere per un comando, un’azione, un semplice richiamo che forse a molti non era mai stato imposto. A me tutto ciò non spaventava: al compimento dei diciott’anni ero andato a vivere da solo e, temprato dalla necessità del vivere quotidiano, ero già pronto alla disciplina.
All’esterno della caserma Durli, dove aveva sede il 28° cavalleggeri di Treviso, un viale alberato conduceva, attraverso Porta Cividale, alla piccola e raccolta cittadina a forma di stella a nove punte, cinta di bastioni e terrapieni che tutta la circondano. Superato l’ingresso nelle mura merlate, dinnanzi ai miei occhi, vie ordinate e convergenti conducevano verso l’unica piazza, che spesso nelle serate di libera uscita, era luogo di raccolta per centinaia di spine: in gergo militare, nuove reclute.
Quella piazza affollata di visi giovani e un po’ spaesati era la prima meta, poi il passo si affrettava verso Porta Udine, uscita obbligatoria verso la stazione ferroviaria, luogo di pellegrinaggio per un nostalgico consulto dell’orario delle partenze.
Palmanova sembrava accogliente, ma già dai primi giorni di ottobre il freddo era il primo compagno di ogni adunata per l’alzabandiera, che si svolgeva alle otto del mattino nel grande cortile interno.
Ricordo quell’inverno del ’77: spesso i tubi dell’acqua scoppiavano a causa del gelo, e ci toccava andare in cortile, dove erano posizionati grossi fusti da centosessanta litri, e con un martello si doveva rompere il ghiaccio, per potersi lavare il viso.
Ma a tutto ci si abitua, colazioni veloci e poi di corsa all’ufficio Comando, dove una scrivania mi attendeva per il mio compito di “scritturale”.
La Naja, per me è stata grande palestra di vita. Come tutti, anch’io facevo parte di un Clan. Il Clan dei Torinesi: un Pinerolese, un carrozziere di Moncalieri, un contadino di Ivrea… e un infiltrato catanese, Leo, che mi fece da padrino il giorno della mia cresima tardiva, in prossimità della pasqua del ’78.
Eravamo affiatati, ma in breve rimanemmo in tre, Giovanni di Moncalieri, io da Nichelino e Leonardo “u patrinu”. Inseparabili, al punto da condividere tutto, lamette, saponette, biscotti, sigarette, a volte i pochi spiccioli che avevamo in tasca: con la paga giornaliera di 500 lire, non c’erano alternative. Una pizza ed una birra costavano 1100 lire nella pizzeria più sgangherata di Palmanova.
Quell’anno di “naja” a me ha lasciato molti ricordi, alcuni drammatici, ma soprattutto mi ha costruito come uomo, a tal punto che negli ultimi anni ho sentito la necessità di tornare in quei luoghi. Fin da quando mi ero recato in stazione in occasione del congedo, la sera del 5 luglio 1978, mi ero ripromesso di tornare.
Dopo quarant’anni, nell’agosto del 2017, chiesi a mia moglie di trascorrere un fine settimana in Friuli, lei accettò, con la promessa che ci saremmo portati la nostra cagnolina Sky. Io ne fui felice e prenotai una camera ad Aviano, vicino a Pordenone, per visitare alcuni luoghi a me cari.
Mia moglie rimase molto impressionata dalla vicina base Nato, da cui sfrecciavano i velocissimi F15, che in poche centinaia di metri si alzano in un rapido volo verticale, rumorosi ma spettacolari. Serata in giro per Pordenone, poi in pizzeria per degustare il “frico”, uno sformato a base di patate e formaggio Montasio, anche Sky ha gradito.
Il mattino dopo era una giornata di sole, sentivo i brividi e l’adrenalina salire: ci mettiamo in viaggio verso Palmanova. Arrivati dinnanzi a porta Cividale, un grande manifesto del concorso ippico che si svolge tutti gli anni mi fece quasi scendere una lacrima. Mia moglie mi guardava incuriosita, io le dissi: Siamo arrivati!
Poche centinaia di metri ed eccola lì, la caserma Durli!
Alcune foto di rito da postare su Facebook, e poi improvviso un tocco sulla spalla: Signore! Guardi qui non potete stare, e non può fare fotografie.
Mi scusi, risposi intimidito. Ma quarant’anni fa qui ho lasciato il cuore, oltre a dieci mesi della mia vita.