PAROLE CON TERESA
1. RITRATTO
Il ritratto è qui, davanti a me. Lo sposto leggermente sulla scrivania e lo appoggio al muro per esporlo meglio alla luce del pomeriggio.
Posso guardarlo da vicino, ora. Per tanti anni ho dovuto alzare lo sguardo per osservarlo, perché stava nella casa del nonno, appeso al muro, in una camera da letto.
Ho chiesto, qualche anno più tardi, di averne una copia per farne dono a mia madre, che aveva come ricordo della nonna solo una piccola foto ingiallita in cui lei era ripresa in piedi, accanto al nonno, con il figlio più piccolo in braccio.
Questa è la prima volta che il viso di nonna Teresa è di fronte al mio; i suoi occhi guardano un punto lontano mentre io la fisso attenta.
Da bambina, di quel ritratto mi colpivano alcuni particolari: m’incuriosiva, più di tutto, quella capigliatura gonfia, raccolta sulla sommità del capo e ricadente sulla nuca, ancora portata dalle donne più anziane del paese, mentre le più giovani sfoggiavano, quasi tutte, pettinature corte, ricce, ondulate. Soprattutto, mi piaceva il sorriso su quel volto: mentre stavo intenta a osservarlo, mi ritrovavo a sorridere anch’io.
È la nostra nonna, mi spiegava la cugina che dormiva in quella camera. È morta giovane, aveva appena ventotto anni e ha lasciato quattro figli.
È morta di spagnola, una specie d’influenza che è arrivata da noi alla fine della prima guerra mondiale e ha fatto morti in tutti i paesi del mondo, mi spiegò la mamma quando la interrogai su quella nonna del ritratto, così giovane ancora.
Ora sappiamo che la spagnola venne dagli Stati Uniti, portata dai soldati che venivano a combattere in Europa, ma fu la Spagna, che non era coinvolta nella guerra, a dare notizia di questa epidemia, nascosta dalla censura degli altri paesi. Per questo fu chiamata ‘la spagnola’. Si abbatté sulla popolazione e fece più vittime della guerra appena terminata.
La nonna Teresa, considerata l'età al momento della morte, era nata nel secolo precedente, nel 1890.
Della sua nascita, l'unica certezza sta proprio in questa data: nulla del luogo di nascita o dei genitori, perché era stata presa in un orfanotrofio, che allora chiamavano ‘l'Ospedale’, da una famiglia del paese. Aveva conservato, però, il suo cognome, che era Ruo-Roch, abbastanza comune nelle Valli di Lanzo da cui lei proveniva.
Teresa era un'orfana, ma aveva un cognome che le proveniva forse dal padre o da una madre nubile che l'aveva riconosciuta e non abbandonata.
Tutte congetture, su cui altre menti avranno ricamato, usando magari l'appellativo di bastarda, oppure, nei casi più benevoli, di figlia adottiva.
Una figlia venuta da fuori, ma accettata e cresciuta da un padre e una madre accanto ad altri figli e non in un istituto.
Povera Teresa: improvvisamente la vedo bambina, nei posti che io stessa ho frequentato. La vedo attraversare il ponte, giocare nel rio, ascoltare i rumori della filanda, guardare le ragazze che entrano ed escono dalla fabbrica.
La vedo andare a prendere l'acqua fresca della fontana dell'Orsa, inventare giochi, percorrere la strada in terra battuta che ho calpestato ancora io, prima che fosse coperta di asfalto.
La vedo andare nel Rio a sciacquare i panni e, fattasi più grandicella, lavorare nella filanda di iuta, vicino al torrente poco lontano da casa.
Teresa non ha ancora vent'anni, quando va sposa ad Attilio, che abita
nella strada a fianco, e fa il contadino.
Adesso abita in una nuova casa e presto arrivano i figli, quattro, nel giro di pochi anni: Edoardo nel 1910, poi Virginia, la mia mamma nel 1913, Severina nel 1915 e Romildo nel 1917.
La vita della nonna Teresa è tutta qui.
Quali tracce di lei sono passate nei suoi figli e in noi, venuti dopo?
Il colorito ambrato di alcuni. Un certo sorriso, simile, su visi diversi di ragazze, e un loro modo singolare di prendere gli oggetti o di toccarli.
È poco, ma mi piace pensare di avere in me una sua piccola eredità. Un'eredità velata di mistero, che lascia aperte molte possibilità, non ultima quella che ci sia stata una parte di sangue meridionale nelle vene della nonna.
Il ritratto mi appare leggermente sfocato, come se il tutto fosse stato coperto da un velo leggero. La testa non è perfettamente diritta, ma piega in modo quasi impercettibile a sinistra, mentre la spalla destra sembra più scesa.
La parte destra del viso è un po' in ombra e altre ombre sottolineano le pieghe del sorriso ai lati della bocca. La pelle è tesa, senza macchie, imperfezioni o segni del tempo. Il viso si presenta con un bell'ovale, la fronte spaziosa e gli zigomi alti che permettono alle guance di aprirsi in un sorriso caldo, spontaneo e contagioso. Le labbra, pur tese nel sorriso, sono ben disegnate e lasciano apparire la chiostra superiore della dentatura. Le sopracciglia, folte e ben disegnate, lasciano indovinare un intervento di ritocco e incorniciano due occhi chiari e fermi.
Il movimento del volto animato nel sorriso rende gli occhi leggermente obliqui e socchiusi; essi emanano, però, una luce di serenità. Il naso piccolo e ben modellato non altera la morbidezza del viso sorridente.
I capelli sono folti e incorniciano tutto il capo come un'aureola scura.
Sono raccolti dietro in una crocchia che scende anche sulla nuca, per cui nel ritratto si intravvede una piccola parte dell'acconciatura sporgere al di sotto delle orecchie.
La nonna indossa una camicia chiara accollata, arricchita sul davanti da un drappeggio di piccole pieghe. Il collettino è formato da una fila di piccoli cordoncini verticali stretti insieme come una collana e fermato sul davanti da una spilla.
La stessa camicia chiara, ricordo ora, è indossata dalla nonna nella piccola fotografia conservata da mia madre, ma qui la sua figura appare interamente: indossa una gonna lunga scura, è accanto al nonno e tiene in braccio un bambino di un anno circa. Nello sforzo, la spalla destra appare lievemente più bassa.
Le figure risaltano su uno sfondo naturale di fronde e piccoli alberi.
Forse è un giorno di festa, poiché il nonno indossa giacca, gilet e cravatta e anche il bambino ha un bel vestito a quadri e le scarpe ai piedi.
La testa della nonna ha la stessa leggera inclinazione a sinistra del ritratto, quasi a compensare il peso del bimbo che tiene sollevato con le braccia.
La fotografia ha fermato un momento felice nella vita di questi miei nonni giovani, in un giorno sicuramente bello per loro. Sorridono, lei serena e lui in modo un po' trattenuto, come chi ancora non osa sperare che tutto andrà bene.
Ma nel cuore del nonno sono rimasti tanti ricordi e ha voluto chiudere
nel ritratto il viso sorridente della sua donna, in quel felice giorno di fine estate.
2. LA PRIMA NOTTE
La notte arriva presto a novembre, e questa, per Attilio, è la prima senza Teresa. Oggi l'hanno accompagnata al camposanto. Non erano in molti, perché bisogna stare attenti alle adunate di tante persone, ma quelli della famiglia c'erano.
Hanno fatto suonare la campana con il suono della ‘pasà’, quello che accompagna il lento corteo, all'entrata e all'uscita dalla chiesa, così qualcuno rimasto a casa, forse, si è segnato, ha avuto un pensiero per lei e l'ha rivista com’era da viva, mentre passava per il paese, sempre con un figlio in braccio o per mano, rivolgendo il saluto con un sorriso.
È proprio il sorriso di Teresa che tutti ricordano, un sorriso contagioso, che le faceva brillare gli occhi e muoveva qualcosa negli altri: chi lo riceveva era indotto a rispondere con un movimento delle labbra o con un cenno, interrompendo, per un attimo, il corso di pensieri e preoccupazioni.
È questo raggio di luce discreto che Teresa ha lasciato in regalo al suo paese di adozione, che l'aveva accolta molto piccola.
Nella sua casa, ha lasciato soli il marito e quattro figli piccoli: il maggiore ha otto anni e l’ultimo nato solo uno, poi ci sono due bambine, cinque e tre anni.
Teresa era entrata giovane sposa nella casa di Attilio: la conosceva da sempre, perché si trovava sulla strada che, provenendo dal ponte Annibale, si dirigeva verso la fontana dell'Orsa. Prima ancora di arrivare nei pressi del cancelletto d'ingresso, si sentiva lo scroscio dell'acqua che cadeva nel lavatoio, vicino alla stalla. Quel lavatoio davanti a casa era un privilegio: era acqua fresca e pulita, proveniente dal Rio. Vi si portavano le mucche a bere, serviva a lavarsi e soprattutto a fare il bucato, senza dover scendere con secchi e bacinelle a lavare sul greto del torrente.
Aperto il cancelletto e scesi pochi gradini, si arrivava alla porta di una grande cucina. Sul fondo, proprio di fronte all'ingresso e salendo uno scalino, si poteva accedere a un locale, dove c'era il necessario per fare il vino: un grande tino, il torchio, ceste, attrezzi vari. Questo locale, ‘il cas’, era in comunicazione con la cantina e, attraverso un passaggio, si calava un tubo, che avrebbe portato il vino nelle botti.
La parete di destra della cucina confinava con la strada, mentre a sinistra, proprio vicino all'entrata, c'era la porta della camera di Carlo, l'anziano padre di Attilio. L'arredamento comprendeva il letto del patriarca, con a lato il tavolino da notte e di fronte un mobile di noce massiccio, a ribaltina. Il mobile, già dall'aspetto, rivelava la sua importanza, perché nei numerosi cassetti erano custodite le ‘carte’ che attestavano proprietà, vendite, acquisti, pagamenti da effettuare, ricevute di versamenti e anche il denaro della famiglia.
Una pesante tenda color amaranto nascondeva alla vista una parte della camera dove c'era un armadio per il vestiario e la biancheria; a lato erano allineati diversi sacchi di grano e granturco: un posto protetto, asciutto, al riparo da roditori e facile da tenere sotto controllo.
Una scala esterna portava alle camere da letto: una di queste era stata la camera di Teresa ed Attilio, in quella a fianco dormivano i bambini, ma il bimbo più piccolo dormiva ancora accanto a loro, perché lei lo stava ancora allattando.
Adiacente alla casa, c'era la parte adibita a rustico, con la stalla, il pollaio, le conigliere al pian terreno; sopra la stalla, un grande fienile con la botola per calare fieno e paglia. Il balcone su cui si aprivano le camere aveva un prolungamento fatto di lunghe assi e protetto sul davanti da un graticcio, a cui venivano appese a seccare le pannocchie di granturco.
Buio e silenzio. Attilio se ne sta solo, seduto sul letto, quello a fianco del letto matrimoniale, dove aveva dormito con Teresa fino a quando lei non si era ammalata. Poi aveva continuato a stare lì, con lei vicino, e aveva sentito il suo respiro farsi affannoso, mentre aumentava la febbre; in quelle fredde notti, aveva condiviso i suoi gemiti, le sue parole di speranza, più tardi, le sue frasi lucide, le sue raccomandazioni, i suoi ricordi.
E lui, ascoltandola, rimaneva senza parole, non riusciva a pensare a un dopo. Un dopo senza Teresa: una moglie, una madre, una presenza vitale per tutti.
Questa influenza così cattiva, questo ‘grippe’ che chiudeva la gola, che non migliorava con gargarismi e disinfettanti, gli portava via Teresa.
Il piccolo era stato messo a dormire con le sorelline, che lo trattavano come un bambolotto, e Attilio li sentiva ridere nella stanza di fianco. Salutavano la mamma dietro i vetri della porta, e lei riusciva ancora a sorridere, a raccomandare di stare buoni.
Veniva Lena ad aiutare, di giorno, quando lui doveva occuparsi delle bestie e fare altri lavori. Per fortuna, a novembre sono finiti i lavori nella vigna e nei prati, ma c'è ancora da far legna e preparare la terra per la semina del grano.
Lena era già un po' avanti con gli anni; veniva dalla malata, perché c'era meno pericolo per i meno giovani, e poi lei sapeva fare anche le iniezioni, quando c'era bisogno.
Ma non c'era stato niente da fare. Teresa adesso non c'è più.
Attilio non riesce a decidersi a entrare in quel letto.
La camera è stata tutta lavata, il letto disfatto e cambiato, ma lui continua a vederla distesa lì, immobile e pallida, con quella camicia bianca che le piaceva tanto, e che metteva sempre nei giorni di festa.
Non può pensare di vederla indosso ad altre. Pensa di passare alcuni vestiti alle sue sorelle, o a parenti di Teresa, ma quella camicia appartiene solo a lei, e deve andare via vestita così.
Ha anche una foto, dove lei la indossa, ed è bella, sorridente e felice.
Vuole che i suoi bambini la ricordino così, e ne farà fare un ingrandimento per averla tutti i giorni davanti agli occhi.
Chiederanno ancora e sempre della mamma e lui, la domenica, li prenderà per mano e andranno... Lui racconterà, e insieme ricorderanno.
3. VIA DELLA FABBRICA
Provenendo dal paese, oltrepassato il ponte, mi trovavo sempre a dover scegliere fra due strade che, seguendo percorsi diversi, arrivavano a casa mia. Dovevo decidere se incamminarmi lungo la via Antica di Fenestrelle, più frequentata, larga, battuta e lentamente degradante, che dopo aver attraversato tutto il paese, scavalcava il ponte Annibale raggiungendo altri paesi della valle, oppure assecondare il richiamo dell’altra, più solitaria, la via della Fabbrica.
Questa strada in leggera discesa faceva una deviazione a destra, intorno al caseggiato della Cooperativa, un antico negozio di alimentari, e proseguiva un po’ dissestata.
Ricordo che qualcuno chiamava questo tratto di strada ‘Valentin’, forse per il verde che lasciava intravedere e per il percorso invitante verso il Rio poco lontano. Indubbiamente esercitava sui miei sensi una particolare attrattiva, per il misto di colori, suoni, profumi che regalava.
Da una parte c’erano case, ma dall’altra si poteva scorgere il giardino della fabbrica, aldilà di una recinzione, nelle cui maglie s’insinuavano tralci di edere e glicini.
Appoggiando le mani al basamento in muratura, riuscivo a sollevarmi e vedere gran parte del giardino. Ricordo vialetti per il passeggio, un laghetto con la cascatella d’acqua, alcune panchine invitanti e alberi maestosi che non conoscevo; in tutto il paese non esisteva un giardino così!
Al termine del muretto, un cancello imponente permetteva l’accesso al giardino e a una rimessa per auto o altri mezzi.
Dall’altro lato della strada, un vicolo stretto tra due fabbricati introduceva in un ampio cortile, dove c’era la casa del nonno.
Ricordo che, in quel cortile, in estate, entravano macchinari giganteschi, i cui motori riempivano l’aria con il loro rombo: era il giorno della trebbiatura del grano. Da bambina, mi appostavo in fondo al ballatoio di legno, sospeso proprio sul cortile, e assistevo al lavoro a catena degli uomini e al movimento di cinghie e congegni che inghiottivano i fasci di grano. C’era una macchina che sembrava avere una bocca; un grande braccio vi cadeva dentro, spingendo giù il grano. Quel movimento incessante aveva un potere ipnotico su di me: mi faceva paura, ma al tempo stesso non riuscivo a staccarne lo sguardo.
Uscendo dal cortile del nonno, si tornava sulla strada che proseguiva in modo più dolce, costeggiando per un breve tratto il canale del Bial, poi deviava verso i prati. Prima di questa deviazione, si trovava la strada privata che conduceva a casa mia.
Avevo quindi un doppio indirizzo, e la mia casa era l’ultima di Via della Fabbrica.
La Fabbrica si trova lassù, proprio all’inizio della strada, e presto avrà una ‘nuova vita’. Così dice, infatti, un articolo apparso sull’Eco del Chisone del marzo scorso (11 marzo 2020). Il titolo dell’articolo recita: “Nuova vita per la filanda: progetti sulla ex fabbrica e l’intenzione degli eredi di cedere al Comune l’edificio ed il parco a titolo gratuito”.
Per il momento, fra i vari progetti, c’è quello più immediatamente realizzabile di trasformare il parco della fabbrica in un parco urbano, sulle rive del Rio, aperto quotidianamente al pubblico, luogo d’incontro e riposo, con la possibilità, inoltre, di realizzare spettacoli e manifestazioni.
Lo stato dell’edificio andrà analizzato attentamente: ha origini antiche, e confinava con il mulino comunale del Settecento, alimentato come la fabbrica dall’acqua del Bial. La corrente impetuosa di una piena del Rio distrusse il mulino e fece rotolare per alcune centinaia di metri la pesante macina che venne ritrovata negli anni Novanta, durante lavori di scavo nell’alveo del Rio.
L’edificio si sviluppa su due corpi, uno di due piani, affacciato sul parco e adibito ad abitazione estiva e saltuaria dei proprietari, l’altro disposto su tre piani, dove si svolgeva l’attività produttiva.
Anch’io sono entrata in quella fabbrica, perché andavo a giocare con un’amichetta, quando lei si trovava dai nonni, che occupavano il terzo piano; ricordo che correvamo in un lungo corridoio, su cui si aprivano le porte di numerose stanzette tutte uguali.
Forse questi locali avevano la funzione di ufficio, o deposito di prodotti finiti, mentre nei piani sottostanti locali più ampi contenevano i macchinari per per ottenere filati.
“Alcuni di questi locali – afferma il sindaco, intervistato in proposito, - potranno essere destinati a scopi didattici incentrati sul tema, considerato il ruolo rivestito dall’attività manifatturiera nella valle nei secoli scorsi.”
Fonti storiche rivelano che “sul finire del Settecento, Pinerolo diveniva un importante mercato della seta e nella campagna circostante fiorivano allevamenti di bozzoli; in val Chisone esisteva già una filanda a Pinasca, altre a Dubbione, Porte, Abbadia Alpina e anche a Pinerolo.”
È certo che questa filanda fu costruita nel paese a metà Ottocento, e fu poi ampliata in seguito a un passaggio di proprietà.
La fabbrica rimase in funzione fino al 1918 e produceva sacchi, filando principalmente canapa, ma anche cotone e seta, dando lavoro a una quarantina di operai, in gran parte donne. Gli uomini erano adibiti ai lavori pesanti e alla manutenzione.
Provo a immaginare come poteva essere la vita, in quest’angolo di paese: i movimenti di uomini e donne, nei vari momenti della giornata, i rumori e gli odori che provenivano da quel luogo chiuso, l’orario di lavoro rigido, le pause necessarie, i pasti, l’abbigliamento, le regole di comportamento.
Anche qui era arrivata la rivoluzione industriale a sconvolgere i ritmi di lavoro allora conosciuti, dettati dal tempo meteorologico e dalle stagioni. Era un lavoro con ritmi più logoranti, svolto in un ambiente estraneo, a volte malsano; permetteva, tuttavia, di avere una paga, denaro su cui contare per la vita di ogni giorno, e da risparmiare per imprevisti o malattie.
“Ma cosa capita, qui, oggi?”
Un’esclamazione stupita esce dalla bocca del bambino. Attilio, chino nello sforzo di spingere la carriola, alza subito il capo, ma non rimane stupito, nel vedere di fronte al vicolo il portone spalancato, e un gran movimento di uomini e materiale pesante nelle strade del parco.
Che qualcosa stesse per succedere era nell’aria, già da un po’.
La guerra è finita da parecchi mesi; in giro c’è ancora quella tremenda malattia, ma la gente incomincia a sperare di tirarsi finalmente fuori dalla paura, dall’incertezza del domani.
La fabbrica ha continuato a lavorare, anche in tempo di guerra: ha continuato ad arrivare materiale, specialmente bozzoli bucati, da cui si ricava la ‘seta tratta’, che può essere filata come l’altra. Attilio non ha mai lavorato, alla filanda, ma Teresa sì. E per diversi anni.
Non è stato colpa della guerra e della spagnola, se poi tutto si è fermato: ferme le macchine, operai e operaie a casa, basta odori, basta rumore!
Si è parlato di fallimento, un evento infausto capitato al proprietario, mosse sbagliate fra padroni. Non si è capito bene, ma la conseguenza è stata la chiusura della fabbrica. A quanto pare, oggi si riparte.
“Dai, Edoardo, aiutami a spingere, il sacco è pesante e c’è ancora un bel po’ di strada per il mulino! Domenica, che è festa, andiamo tutti a spasso insieme, e ti racconterò della fabbrica.”
Attilio ha lasciato le bambine con il piccolo, che ha imparato a camminare più sicuro ed è sempre in movimento. Virginia e Severina lo prendono per mano, e lo accompagnano pian piano per la strada, o in cortile, fra le galline, a fare le prime esplorazioni.
In casa c’è anche Rosina, una ragazza che Attilio ha preso a servizio. È giovane, ma se la cava abbastanza bene a fare tutti i mestieri, a mandare avanti la casa e anche a guardare i bambini.
Sono tanti in famiglia e lei, prima, lavorava alla filanda; portava tutto il suo guadagno a casa, ma teneva qualche soldo da parte per potersi fare il corredo. Anche adesso fa così, con il compenso che riceve. Qualche volta rubacchia, prendendo quello che le piace dal baule di Teresa. Attilio lo scoprirà solo in seguito. La ragazza, giocando a nascondino con i bimbi, li convince a cercare nascondigli lontani, poi dice loro di chiamarla a gran voce, raccomandando di non muoversi, finché non siano stati scoperti. Lei, troppo occupata in altre faccende, non va quasi mai a cercare i fuggitivi, che, dopo essersi sgolati a lungo, tornano a casa, stufi e delusi. Rosina, ogni volta, si finge sorpresa e stanca per l’inutile ricerca.
Per fortuna, la settimana finisce: ci sarà un po’ di riposo per tutti, e forse un po’ di sollievo per il cuore gonfio di Attilio.
Domani è domenica. Rosina andrà via il pomeriggio e lui si occuperà, da solo, dei figli. Prima andranno al cimitero, a trovare la mamma. È arrivata la primavera, le bambine avranno un mazzetto di viole e margherite da posare sulla tomba. E, dopo, li porterà dove i suoi passi vorranno andare. Metterà il piccolo sulle spalle e andrà per quella strada, percorsa tante volte con Teresa accanto. Verranno le domande dei bambini e lui troverà le parole giuste per ricordare il loro tempo insieme.
4. ORFANELLI
C’è movimento la domenica pomeriggio nel cimitero. I bambini guardano curiosi l’affaccendarsi di donne e ragazze che sistemano vasetti di primule davanti a croci di legno o di ferro. Ci sono anche lapidi di marmo, con il nome del defunto e le date; su alcune, ci sono anche fotografie. Intorno al perimetro, sorgono piccole casette con l’entrata chiusa da un cancelletto: sulle pareti ci sono nomi e scritte che le bambine non sanno ancora leggere.
“Chi abita in quelle casette?” Domanda una voce infantile.
“Non sono casette, sono anche quelle tombe”, spiega Edoardo, leggendo i cognomi tutti uguali. “Sono le tombe di famiglia. Anche da morte, le persone della stessa famiglia vogliono stare tutte vicine, e si fanno costruire queste specie di casette, come dici tu.”
I tre piccoli fanno gruppo compatto con il padre e avanzano lentamente nel passaggio centrale, mentre Edoardo cammina da solo fra le tombe: riconosce nomi e visi di persone che ricorda vagamente, ma che ha visto per il paese.
Intorno sente un sommesso mormorio, qualcuno singhiozza e si sentono voci di bimbi che interrogano: bimbi senza mamma o senza papà, proprio come loro, orfani di un genitore e a volte di entrambi.
Pensa a Francesco, che era in classe con lui, e dopo questa disgrazia ha dovuto sopportare anche la separazione dalla sorella; entrambi costretti a vivere in famiglie di parenti, lontano dal paese.
Raggiunge gli altri, ormai giunti da Teresa.
Le sue sorelle hanno portato piantine di primule e viole in un secchiello; dopo averle messe a dimora, si dirigono alla fontanella per attingere acqua. Edoardo legge il nome ad alta voce: “Ruo Roch Teresa. Papà, è un cognome che non ho mai sentito qui. Da dove veniva la mamma?”
“La mamma non era di queste parti. Era orfana, senza più i genitori, come è successo al tuo amico Francesco, ed era venuta ad abitare da una famiglia del paese, che aveva già dei figli maschi, ma desiderava anche una bambina. Era piccola, quando è arrivata, e loro l’hanno allevata e le volevano bene.”
Arrivano le bimbe, innaffiano le piantine, poi recitano una preghiera insieme.
“Ti piacciono tanto i fiori, mamma; domenica te ne portiamo di nuovo. Ciao, mamma, ciao.” E vanno.
Attilio ha pensato di portarli vicino al Chisone. Lì c’è un prato, creato da detriti portati dal torrente; nel mezzo, emerge la punta di un masso, come una piccola montagna: potranno giocare ad arrampicarsi e saltare giù, e poi fare una piccola merenda sotto i salici che delimitano il prato.
Attilio ed Edoardo stanno seguendo i loro pensieri.
L’uomo rivede Teresa bambina e ricorda anche la prima volta che l’ha guardata con occhi diversi.
Lui stava risalendo lungo il Rio e si divertiva a saltare da un sasso all’altro, sfidando se stesso a non cadere nell’acqua.
Forse era un giorno particolare, perché diverse lavandaie erano intente alla loro opera, ma al tempo stesso riuscivano a fare rumorose conversazioni, un po’ disturbate dal rumore del torrente.
E poi la vede. È una ragazza che forse non ha trovato la “pera” che voleva e sta risalendo il rio per cercare quella buona. Anche lei sta saltando da una sasso all’altro, però è un po’ frenata dal secchio che tiene in una mano, mentre con l’altro braccio, proteso in fuori, cerca di mantenere l’equilibrio. Nella mano tiene stretto un paio di zoccoli e ha rialzato l’orlo della gonna, fissandolo alla vita.
Tra il curioso e divertito, lui affretta la sua andatura, la riconosce e la chiama per nome.
Lei si ferma e gli lancia uno sguardo un po’ contrariato: le piaceva quel gioco che all’apparenza sembrava avere uno scopo, mentre in realtà mirava a eseguire una specie di danza sull’acqua con la musica delle cascatelle. Sulle labbra del ragazzo le sembra di scorgere un sorriso canzonatorio, ma gli occhi di un azzurro vivo, parlano diversamente.
Per la prima volta si trovano a guardarsi, soli, viso a viso.
“Papà! Papà, guarda!”
Lo chiamano le bambine, che stanno scalando la roccia.
“Guarda, papà, siamo arrivate in punta!”
Anche il piccolo sta aggirando la roccia, e le sorelle giocano con lui. Edoardo sta ancora pensando al suo amico Francesco, alla mamma e ai bambini orfani.
“Papà, la mamma è arrivata qui perché non aveva parenti che potevano tenerla? E dove stava prima? Come l’hanno trovata?”
Attilio parla allora degli “ospedali”, dove arrivavano anche bambini appena nati, che venivano allattati da balie finché non erano cresciuti un po’, e stavano insieme ad altri, di tutte le età: case per bambini soli o abbandonati.
“Vivevano nell’orfanotrofio e giocavano, andavano a scuola, imparavano come comportarsi a tavola, a fare il letto e tenersi puliti. Proprio come succede nelle famiglie, ma senza una mamma e un papà. A volte, però, venivano delle famiglie per adottare o affiliare qualche bimbo, com’è capitato alla tua mamma. Lei è stata affiliata e ha mantenuto il suo cognome, mentre i bambini adottati prendono il cognome della famiglia e hanno diritto a ereditare come gli altri figli. Crescere in una famiglia è sempre meglio, per un bambino; per questo veniva anche data una somma in denaro, a chi decideva di fare questo passo, che però, a volte, era fatto anche per convenienza.
Non tutti i bambini erano fortunati, come vedi!
In paese non c’era solo la mamma che arrivava dall’Ospedale, ma nessuno ci faceva caso. A volte venivano presi anche ragazzi già grandi, di quindici o sedici anni, per fare i garzoni e aiutare nei lavori.
Toni, un nostro parente di Perosa, faceva trasporti con i carri trainati dai cavalli fino a Torino tutte le settimane, e una volta è tornato con un ragazzo preso all’orfanotrofio. Lo chiamavano Ghintu e si occupava dei cavalli; aveva la sua stanza, tutto il necessario, come un figlio, anche se era arrivato già grande.
Poi, nel 1915, è scoppiata la guerra: lui aveva l’età per andare militare ed è stato subito chiamato. Le donne della famiglia gli hanno preparato tutto il corredo, maglie, calze di lana, guanti, mutande, tutto con le sue cifre.
Il giorno della partenza, Ghintu ha preso il suo sacco e le figlie piccole di Toni l’hanno accompagnato al punto di raccolta, ad aspettare la tradotta che scendeva dall’alta valle.
Ghintu piangeva e le bimbe consolavano quel ‘fratello’ grande, a cui volevano bene.
- Torna, Ghintu, sta’ attento a non farti male!
- No, “cite”, non tornerò più – diceva, e piangeva.
Non è più tornato e la famiglia sta cercando ancora adesso notizie.”
Ghintu non è più tornato, la mamma è andata via, papà e mamme vanno via per sempre e rimangono gli orfani.
Edoardo, pensoso, si avvicina di più a suo padre, si siede accanto a lui.
I tre piccoli si stanno avvicinando. A un tratto, sembrano aver perso interesse per il masso e hanno interrotto il gioco.
“Hai portato la merenda, papà?”
Sì, c’è la merenda; ci sono sempre tante cose piccole e grandi da fare, e bisogna mettere da parte i pensieri del padre e le domande del figlio.
Ci sarà tempo per altre storie.
5. CIAO, TERESA
Quel giorno se l’era trovata davanti all’improvviso, là, tra l’acqua e l’aria fresca, proprio come una ventata di primavera.
Il ricordo di Teresa che gioca sui sassi del Rio imprime al respiro di Attilio un ritmo nuovo e lui sente che il petto si dilata spontaneamente e si allenta la stretta che, certe volte, gli impedisce quasi di respirare.
Quando l’aveva scorta che si allontanava dal gruppo delle comari vocianti, gli era venuto in mente il proverbio “La cativa lavandera a treuva mai la bona pera” e, ritenendolo un pretesto per attaccare bottone, l’aveva rapidamente raggiunta.
E poi, quando stava per parlare, lei l’aveva guardato in un modo che gli si erano fermate le parole in gola.
Ricorda che l’aveva fissato con occhi sorpresi, un po’ contrariati all’inizio, ma poi divertiti. Quegli occhi sembravano invitarlo a proseguire il gioco, questa volta insieme.
Tutto era cominciato così, non ancora apertamente, ma il viso di Teresa era entrato sempre più nei suoi pensieri.
Ogni giorno avevamo le nostre occupazioni, facevamo percorsi diversi, ma io cercavo di inventarmi modi per poterti incontrare o vedere almeno da lontano; quando succedeva, era come si accendesse una luce dentro di me.
Questa sera mi sento meno solo in questo letto, sai, Teresa.
Sei venuta a trovarmi, ti rivedo sorridente e riesco a parlarti. Ho bisogno di sfogarmi un po’ con te, anche se so di non essere tanto bravo a fare discorsi.
Raccontare, forse; ma spiegarmi, tirar fuori le cose che sento nella testa e nel cuore è un’altra cosa.
Quando un ragazzo comincia a frequentare una ragazza, la gente dice che ‘as parlu’, per dire che le parole fra loro sono diverse.
Non ricordo bene le nostre parole, forse eri tu che parlavi di più. Io ti guardavo soltanto, ti tenevo per mano, forse ti dicevo solo ciao, un ciao che voleva dire tutto: sono qui, non voglio stare in nessun altro posto, ti voglio bene.
Una carezza e una stretta di mano erano, per noi, un modo per parlarci, per capirci. Ciao, Teresa.
Le mani s’intrecciano e il sonno arriva.
Intanto, in via della Fabbrica, sta continuando il movimento di uomini e attrezzature. Edoardo capisce che qualcosa sta finendo e vorrebbe conoscerne la storia, immaginarne la vita.
“Papà, raccontami qualcosa della fabbrica!” aveva chiesto al padre la domenica precedente, tornando dalla passeggiata, mentre passavano davanti all’edificio abbandonato e silenzioso.
Ma Attilio, con il piccolo in braccio, in quel momento stava seguendo la corsa delle bimbe verso casa e gli aveva indirizzato solo un gesto con la mano, a significare che il racconto doveva essere ancora rinviato.
Quella mattina, Attilio, mentre preparava il caffè per la colazione, si accorse che la provvista di Franck stava finendo. Era necessario rinnovare la scorta al negozio della cooperativa. Ci sarebbe andato la sera stessa con i bambini, e avrebbe ripreso il discorso con Edoardo.
Quello non era caffè vero: sulla scatola gialla, di cartone, con la marca in rosso, piena di svolazzi e sottolineature, c’era scritto ‘Cicoria tostata’.
Qualcuno aggiungeva la polvere del Franck al vero caffè, perché non ne alterava il sapore e permetteva di fare economia. Altri la usavano in purezza, perché era fatta con radici essiccate, torrefatte e macinate.
Attilio la usava in questo modo, perché anche i bambini potessero berne senza problemi, ma sapeva che unita al caffè Versava nell’acqua calda della pentola generosi cucchiai di polvere, lasciava depositare il tutto per il tempo necessario, poi riempiva la caffettiera smaltata tenuta al caldo in un angolo della stufa.
Prima della colazione aveva il tempo di mungere le mucche, così i bambini avrebbero trovato il latte appena munto e quel caffè speciale.
Prima, era Teresa che gli faceva trovare il caffè caldo quando tornava dalla mungitura; ne bevevano sempre una tazza insieme, poi davano inizio alla giornata e alle diverse incombenze.
Attilio aveva voluto tenere per sé quel rito, lasciando alla Rosina altri compiti. Tornando dalla stalla, trovava la cucina vuota e mormorava il suo saluto: “Ciao, Teresa.”
Quella sera cercò di sbrigarsi per arrivare alla cooperativa abbastanza in anticipo sull’orario di chiusura. Mise in tasca un piccolo bicchiere di metallo e partì per la spedizione con i suoi figli.
La Cooperativa si trovava in posizione strategica: era il punto di partenza di due strade – Via della Fabbrica e Via Antica Fenestrelle – di fronte al ponte Annibale e di fianco alla filanda.
Dallo slargo di fronte all’edificio, scesi due gradini, si accedeva al negozio. Di fronte all’ingresso si trovava il banco di vendita; due finestre, poste sulla facciata, rischiaravano l’interno.
Non capitava tutti i giorni di andare in un negozio, perciò Attilio lasciò i bambini liberi di esplorare con lo sguardo angoli e scaffali, poi si diresse al banco e tirò fuori il suo bicchierino.
Ordinò il Franck e lo zucchero, chiedendo alla commessa, con un sorriso appena accennato, di versarne una piccola quantità nel bicchiere prima di chiudere il pacchetto.
L’attenzione dei più piccoli era tutta rivolta al bicchierino. Il padre, dopo averli fatti sedere sui gradini di fronte all’ingresso, illustrò la sorpresa che aveva preparato per loro: avrebbero potuto inumidire un ditino con la saliva e, uno alla volta, bagnarlo nello zucchero per assaggiarlo. Poi, rivolgendosi a Edoardo, cominciò a parlare.
“Sediamoci anche noi, che ti racconto qualcosa della filanda. Prima, però, voglio parlarti di una cosa bella: la nascita di questo negozio.
Mi ricordo bene quando è stata inaugurata la Società Cooperativa, e si chiama così perché è nata dalla volontà e dalla collaborazione di chi lavorava in filanda.
Era estate e la gente si riparava dal sole con gli ombrelli e con le ‘capline’, uomini e donne, tutti con le capline. La fiera che si fa in primavera si chiama proprio ‘fera d’le capline’ , perché la gente compra i cappelli di paglia per l’estate.
Qui davanti era pieno di gente; ce n’era anche sul ponte e giù per le strade e c’erano bandiere attaccate al balcone qui sopra.
Proprio al centro del balcone c’era la targa dove vedi scritto ‘Società Cooperativa Operaia’, ma era coperta da un lenzuolo e quando l’hanno tolto c’è stato un lungo applauso.”
Il ragazzo non aveva mai fatto caso a quella targa perciò alzò lo sguardo per esaminarla con attenzione e la indicò anche ai fratellini intenti al loro gioco goloso.
“Guardate, lì c’è scritto Cooperativa, proprio il nome del negozio!”
Poi, rivolto di nuovo al padre:
“Ma perché hanno fatto una festa? Era un fatto così importante?”
Attilio esitò un attimo; stava per fare un discorso importante e forse non così semplice da capire per un bambino di otto anni.
“La cooperativa doveva diventare un aiuto per gli operai, le operaie, le loro famiglie e anche per tutto il paese. Le cose andavano bene per la fabbrica e il padrone aveva dato un contributo per fare questa opera sociale. Pian piano ha cominciato ad arrivare di tutto: generi alimentari freschi e conservati, ma anche stoffe, vestiario, attrezzi per il lavoro e per la cucina.
Le condizioni di lavoro, con il tempo, miglioravano, ma devi sapere che a volte in queste fabbriche lavoravano anche bambini, poco più grandi di te.”
Edoardo lo interruppe.
“I bambini in fabbrica? Ma cosa potevano fare dei bambini in posti così?”
“Succedeva purtroppo, lo so di sicuro. Non molto lontano da qui, di là dai monti, in Francia. Lo raccontava una donna del paese che era emigrata a Briançon per lavorare in una filanda del posto, e diceva che là aveva visto squadre di bambini orfani, occupati dalle sei del mattino alle sei di sera a togliere le impurità dalla seta con una pinzetta: un lavoro di abilità che solo manine piccole potevano svolgere.”
Edoardo si fissò le mani, incredulo, figurandosi quei gesti ripetuti per ore.
“Tutto quel tempo a lavorare? E poi cosa facevano?”
“Durante la giornata erano previste anche due ore di riposo e forse i bambini giocavano fra loro o si riposavano semplicemente; finito il lavoro, avevano lezione di catechismo da studiare per l’indomani e, ogni due giorni, un’ora di scuola. Erano nutriti e alloggiati a spese dell’impresa.”
Il racconto di Attilio aveva anche lo scopo di rivelare al figlio un fatto che conosceva bene, così continuò:
“Lavorare per tante ore in un ambiente chiuso, rumoroso, a volte quasi soffocante per il caldo, è molto faticoso e possono venire anche delle malattie; per questo gli operai hanno cercato di migliorare e studiare modi per aiutarsi, come appunto le Società Cooperative o quelle di Mutuo Soccorso.
Sul lavoro potevano succedere infortuni, la stanchezza poteva far compiere errori, perciò i sorveglianti circolavano fra le operaie e potevano anche multarle, se non stavano alle regole.
Una cosa del genere è successa proprio alla tua mamma: sfinita per il caldo, si era messa in un angolo per sfilarsi la cuffia e sistemarsi i capelli bagnati dal sudore. Sorpresa dalla sorvegliante Luigia, era stata mandata all’ufficio e sospesa senza paga per quel giorno.”
Edoardo con uno scatto si alzò in piedi indignato.
“È stata proprio cattiva quella sorvegliante! Poteva ben capire che mamma non stava facendo niente di male! E lei non aveva caldo? Poteva uscire a prendere aria?”
“Povera Teresa! Che brutta giornata”, continuò Attilio.
“Uscita dalla fabbrica, non era andata a casa, ma nel Rio a rinfrescarsi. Poi aveva risalito il torrente fino al nostro “tumpi”, aveva messo i piedi a bagno e dopo aveva pianto forte forte: pensava che nessuno l’avrebbe sentita.”
“Avevate un posto segreto? Che bello!”
E l’uomo lo rivide in un lampo, quel posto segreto, tra le fronde dei salici che si piegavano a fare una cupola ondeggiante.
“Quella sera ero andato ad aspettarla; quando non l’ho vista e mi hanno riferito il fatto, ho capito subito dove trovarla. Cominciavo a conoscere bene tua madre e sapevo che aveva cercato un posto per stare sola e sfogare la sua rabbia. Quando sono arrivato al “tumpi”, ho messo anch’io i piedi a bagno accanto ai suoi e le ho detto: Ciao, Teresa, ciao. Mi rinfresco anch’io le idee e poi parliamo.”
Sul viso di Edoardo si apre un sorriso che ricorda quello della mamma.
“E dopo? È tornata ancora a lavorare?”
“Sì, ma per poco tempo. Con le idee fresche, ci siamo presi per mano e abbiamo deciso di farci compagnia per tutta la vita.”
6.
LÀ FUORI C’È IL MONDO
Anche quest’anno c’è stata la festa del paese, come sempre a San Rocco, il 16 di agosto; chissà da quanto tempo è così.
È notte, in casa dormono già tutti. Attilio siede sotto il pergolato di uva d’America e assapora pian piano il suo bicchiere di birra fresca. La bottiglia appena presa dalla cantina è tutta appannata e la schiuma frizzante non si è ancora dissolta del tutto nel suo bicchiere.
È una birra artigianale che prepara lui, mescolando all’acqua della fontana dell’Orsa il preparato apposito che compra alla Cooperativa: piace molto anche ai bambini, per le bollicine.
Da qualche parte nel paese la festa non è ancora finita; si sentono ancora voci, qualche coro un po’ stonato per le bevute fuori dal normale.
Da un po’ di tempo niente è stato normale! In un anno sono successe tante cose: è finita la guerra, ma si è tirata dietro la spagnola che ha fatto vuoti in ogni famiglia. Poi la fabbrica ha chiuso e in primavera è tornata la spagnola. Ma ora, con l’estate, l’epidemia sembra finita.
La gente, quasi incredula, ha voluto ricominciare; è tornata a mettere su un po’ di festa, come quella dell’anno passato.
Dal mattino presto sono cominciate le partite alle bocce, in via Antica Fenestrelle, con il fondo dissestato, pieno di ciottoli e avvallamenti. Con i giocatori si sono presentati piccoli gruppi di osservatori e appassionati, tutti pronti a dare consigli, commentare, prendere le misure per assegnare il punteggio.
I finalisti hanno poi avuto il privilegio di affrontarsi nel vero gioco da bocce del paese, con il pubblico, il premio e il brindisi finale.
Attilio non ha partecipato a tutto questo. Sente tutto molto lontano, qualcosa che si svolge intorno, ma che non lo riguarda.
La Rosina ha preparato i bambini con i vestiti della festa e li ha accompagnati alla messa ‘grande’, quella con la benedizione del pane, e loro sono tornati a casa contenti, con il loro pezzo di pane benedetto.
“Ha lo stesso sapore dell’altro”, hanno commentato al ritorno, dopo averne rosicchiato un pochino.
“Non mangiate ancora, adesso! Andiamo a pranzo dalla zia Marietta, chissà quante cose buone vi ha preparato! Bisogna lasciare un po’ di posto nel pancino!” li ha esortati il padre, scherzando.
Le Ciapele si vedono dal paese; sono un gruppetto di case con un grande abete che fa da sentinella proprio lì vicino. Marietta, la sorella di Attilio, abita in quella borgata.
Attilio la indica ai figli: “Dobbiamo andare lassù, forza partiamo.”
Il percorso è breve, ma è una salita continua: strada facendo, lui parla delle terre che incontrano.
“Là è una buona vigna, perché prende tanto sole; in quell’altro pezzo, tutto in piano, si semina il grano e nell’ombroso bosco di castagni, a cercare bene, si trovano funghi di diverse specie e anche i reali sotto le betulle!”
Quando si scorgono le prime case, i bambini più grandi partono di corsa, attirati dal buon odore di pane fresco e di cucina.
Nel cortile c’è proprio aria di festa: la tavola apparecchiata all’ombra della vite, gli anziani già seduti, in compagnia di un bicchiere di vino, un grande cesto di micche dorate e fragranti vicino al forno ancora caldo, che custodisce ancora grandi teglie.
Marietta è affaccendata in cucina insieme ad altre donne della famiglia, intente a decorare i piatti di portata, a fare i riccioli di burro, e a ultimare la preparazione del piatto forte: il fritto misto.
È stato preparato con un trionfo di verdure dell’orto, frittelle di frutta, carni impanate, ma soprattutto c’è tanta ‘fritura dosa’, il semolino dal sapore di limone, con lo zucchero sopra, passione dei bambini.
Ripensando alla giornata, Attilio si alza e va a brindare alle stelle con il suo bicchiere fresco in mano. Guarda quella porzione di cielo notturno, confinato tra le montagne della valle; con gli occhi alle costellazioni di agosto, immerso in quell’aria tiepida, densa di suoni, inizia il dialogo con Teresa.
È stata una bella festa, sai, Teresa! I bambini hanno mangiato tanta insalata russa e tanti semolini e poi la torta con la crema sopra. Con Marietta non ho parlato molto, perché come padrona di casa era sempre occupata, ma sono stato un po’ con Luigina che si è preso il piccolo vicino, a tavola: lo aiutava a mangiare, lo faceva ridere, e poi l’ha fatto addormentare in braccio. Queste zie sono molto affezionate ai nostri figli e, quando possono, li prendono qualche giorno in casa per farsi conoscere e prendere confidenza.
Anche l’anno scorso è stato così. Ricordi? La festa è stata qui, sotto questo pergolato: io avevo allungato il tavolo e ci siamo stati tutti.
Finito il pranzo, i bambini si erano sparpagliati a giocare in cortile, mentre noi stavamo qui, seduti al fresco a parlare.
A un certo punto, si è affacciato un tipo che con i suoi strani strumenti girava per il paese a fare fotografie a tutti: ai giocatori di bocce, al pane di San Rocco, alle persone che volevano, e ha chiesto anche a noi se volevamo.
Ci ha fatto quella bella foto, Teresa, con i nostri vestiti della festa e tu con il piccolo in braccio. I tre grandi erano andati a giocare, e così non sono entrati nella foto con noi.
Se penso alle belle tavolate che abbiamo fatto qui sotto, a quelli che c’erano e che adesso non ci sono più, mi viene un magone che mi stringe la gola.
Proprio adesso, guardando queste montagne con le pareti che sembrano toccarsi, dove comincia e dove finisce la valle, mi è tornato in mente Giacomo.
Era più grande di me di otto anni, ma si vedeva subito che eravamo fratelli, per via dei capelli biondi e del colore degli occhi. Ero quasi una sua copia, lo ammiravo molto, pensavo che sarei diventato come lui, da grande.
Ma dentro non eravamo uguali, lo capivo dai suoi discorsi.
Io mi sentivo protetto da queste montagne, lui si sentiva prigioniero.
“Non ti viene voglia di sapere cosa c’è dietro la cima di queste montagne, cosa c’è in fondo alla valle, dove va a finire l’acqua del Rio? Là fuori ci sono paesi con gente diversa, che parla lingue che non capiamo, c’è il mare grande e navi che lo attraversano con tanta gente sopra. Attilio, là fuori c’è il mondo!”
Giacomo non voleva fare l’emigrante, come quelli che partivano per cercare lavoro e tornare con un po’ di soldi. Avevamo della terra, non eravamo in miseria. È vero, c’erano le annate buone e quelle meno, c’era la grandine che rovinava la vigna, o la pioggia che non lasciava seccare bene il fieno, ma noi non stavamo male.
Però, questo ripetersi di gesti e di stagioni non era quello che lui voleva. Giacomo voleva respirare altra aria, conoscere altre vite, fare nuove scoperte. E, dopo un tempo di discussioni, voci alterate e lunghi silenzi, venne quel momento.
“Ti scriverò, Attilio, mi disse, magari non subito, ma ti scriverò. Da Genova. Ti manderò una cartolina, così puoi vedere anche tu com’è!”
Partì per andare nel mondo là fuori. Lo vedo ancora incamminarsi con il sacco in spalla, girarsi prima della curva e salutare agitando le braccia.
Noi tutti lì, a guardarlo. Non sapevo che sarebbe stata l’ultima volta.
7.
SALUTI DA GENOVA
Furono giorni di attesa in casa; aspettavano, senza fare domande, continuando la vita di sempre finché, un giorno, arrivò la cartolina di Giacomo. Fu la voce del postino ad annunciare a tutti la notizia.
“Posta, posta, saluti da Genova!”
L’uomo aveva la voce allegra di chi porta una sorpresa e teneva la cartolina in alto, agitandola, mandando a tutti quei saluti che arrivavano da lontano.
Attilio ricorda di averla presa, emozionato e stupito perché insieme alle immagini di Genova c’era uno spazio apposito riempito dalla scrittura fitta e ordinata di Giacomo.
Quella cartolina postale, la prima della sua vita, Attilio l’aveva guardata a lungo, mentre rimaneva in bella mostra in casa, in un angolo della credenza, e poi l’aveva conservata con cura, insieme ad altri oggetti a lui cari.
Fra i ricordi che chiedono di emergere, di essere rivisti, accarezzati, rinfrescati, questa sera è quello di Giacomo che si presenta con forza e Attilio ritrova quella cartolina spedita da Genova, una città di mare che ha solo visitato e immaginato attraverso le parole del fratello.
Genova, la superba, che ha eretto sul suo porto il faro più alto nel Mediterraneo. La Lanterna è la luce che guida le navi, che dà speranza e sollievo ai marinai, ed eccola lì raffigurata in una stampa, dipinta sullo sfondo di un cielo tenebroso.
Davanti a lei, un mare con tanti velieri ormeggiati, con i loro alberi che si alzano verso il cielo, fitti come un bosco.
Su un lato, chiuso in una cornice, è raffigurato l’imponente monumento a Cristoforo Colombo, importante cittadino, conosciuto nel mondo intero. Colombo è in piedi su una colonna, con una mano indica il mare. Intorno ci sono altre statue, fra cui quella di una donna sdraiata ai suoi piedi.
Cari tutti, ho scelto di mandarvi questa cartolina perché queste sono le prime cose che ho visto, arrivando qui. Il monumento a Cristoforo Colombo si trova proprio davanti alla stazione Principe. Non ho mai visto un monumento alto così; mi hanno detto che la statua è messa su una colonna di ferro alta 60 metri e la donna ai suoi piedi rappresenta l’America. Il faro di Genova l’abbiamo visto tutti sui libri di scuola, è il simbolo della città, ma fa un altro effetto vederselo davanti, quasi a guardia del porto. Mi sto ambientando e cercando lavoro. Sto bene come spero di voi. Spero di trovare presto un posto fisso dove stare e mandarvi una lunga lettera con un indirizzo per avere vostre notizie. Un abbraccio a ognuno di voi. Giacomo
Attilio ricorda quel tempo sempre in attesa del postino; lo guardavano passare e lui rispondeva scuotendo la testa.
Ci mise più di un mese ad arrivare, ma finalmente, ecco la lettera.
8.
UN ALTRO MONDO
Genova, novembre 1898
Cari tutti,
vi dico subito che sto bene e abito con Fausto, un giovane di Pinerolo che ho conosciuto proprio alla stazione. Ci siamo ritrovati sul treno per Genova, io un po’ spaesato e lui più sicuro perché a Genova lo aspettava un conoscente che gli aveva trovato anche lavoro in una trattoria del porto.
Alla fine del viaggio eravamo quasi amici e la cosa deve aver dato fiducia al suo conoscente, così ci ha portati tutti e due a casa sua, anche per la notte.
- Potete stare da me per il momento e poi, senza fretta, vi sistemerete per conto vostro, ci ha detto.
Noi, per fare economia, avevamo già deciso di stare insieme e, dopo un po’, abbiamo trovato una stanza con un po’ di mobilio, due letti e anche una stufetta per scaldarci e cucinare. Siamo in novembre, ma qui non fa ancora freddo: è come da noi al tempo della vendemmia, quando si sta ancora bene senza tanti vestiti addosso.
La mattina dopo il nostro arrivo, siamo andati al porto e sono subito entrato in un altro mondo: un mondo fatto per lavorare sull’acqua del mare, mentre da noi si lavora con la terra.
Gli odori sono diversi: quello di sale che viene dall’acqua, di fumo e olio bruciato dai motori, di caffè, vino e cucina che arriva dalle trattorie e dai venditori ambulanti. Questi girano su un’imbarcazione larga e piatta e s’infilano tra le barche, dove ci sono uomini all’opera, gridando le loro offerte di cibo.
Nell’aria, voci di richiamo, risposte, incitamenti e poi rumori di motori, seghe, martelli e ancora altri suoni che non so riconoscere ma tutti insieme fanno la voce di questo mondo.
Non riesco a raccontarvi tutto quello che si presenta di colpo davanti quando si entra al porto: colori, movimenti, macchinari, attrezzi, materiali, mucchi di merci di ogni genere. Tutto entra insieme negli occhi e toglie quasi il fiato.
Ho sentito il bisogno di fermarmi un momento: volevo fissare nella memoria i particolari di questa cartolina viva che cerco di raccontarvi con le parole.
Nell’acqua verde e trasparente, sotto la banchina del porto simile a un largo marciapiede di pietra, riuscivo a vedere pesci, anche grandi, nuotare tranquillamente e poi di scatto infilarsi sotto una fila di barche attaccate con robuste corde ad anelli fissati nella pietra.
Le banchine del porto non sono adatte al passeggio: sono posti per lavorare, per lasciare materiali che servono, catrame, carbone, corde di ogni grandezza, e fanno anche da deposito e magazzino per merci di ogni genere.
C’è un movimento continuo sopra e sotto le banchine; lo scarico delle merci è fatto a braccia da facchini e operai che se le passano come una catena, ma ho visto una macchina alta come una torre, mossa a mano con una manovella che aggancia le merci più pesanti dalle chiatte e le sposta a terra.
Queste chiatte sono diverse dalle barche: larghe, piatte, senza fondo e motore. Sembrano tavole in movimento, vanno e vengono dalle navi alla riva, quasi vuote, oppure cariche in modo incredibile.
È uno spettacolo vedere le grandi navi ferme al centro del porto, mentre intorno a loro circolano come tanti mosconi chiatte e altre imbarcazioni colorate, dai bordi rivestiti di corde intrecciate, che trasportano i passeggeri.
Vedere tante cose nuove tutte in una volta mi ha dato una sensazione strana: mi sentivo curioso, ma anche un po’ impressionato da tutto quel movimento.
Quel lavoro continuo, quel passaggio a catena, mi ha fatto pensare a quando da noi viene la trebbiatrice e bisogna muoversi al tempo della macchina senza quasi tirare il fiato.
Era l’ora di raggiungere i miei nuovi amici alla trattoria del Gambero rosso, dove Fausto cominciava la prima giornata di lavoro.
A Pinerolo aveva aiutato, per un po’ di tempo, un parente che aveva un’osteria e si era fatto un po’ di esperienza nel servizio al banco e anche ai tavoli, però era preoccupato.
- Hai sentito come parlano qui? Mi sento abbastanza pratico a fare le cose, ma ho paura di non riuscire a capirli. Spero di trovare un padrone paziente, che mi insegni le cose più importanti. Poco per volta imparerò le nuove abitudini. Almeno spero!
Fuori della trattoria, su una lavagna, c’era scritto: farinata, minestrone, stoccafisso olive e bacilli, torta salata, stufato. Si sentiva già un buon odore di cucina che faceva proprio venire appetito.
Dentro, Fausto era istruito da un uomo che, dalla faccia che faceva alle domande del mio amico, doveva avere un buon carattere: sorrideva divertito, poi continuava il discorso un po’ in italiano e un po’ in genovese.
Ho pensato che a Marietta e Luigina sarebbe proprio piaciuto vedere le belle bottiglie di olio che c’erano su un tavolo d’angolo, insieme al sale, alla salsa di pomodoro, ai barattoli di olive: un olio di un colore fresco, che veniva voglia di provarlo subito su un pezzo di pane, senza fare economia.
E così, per tutti e due, è cominciata la vita in questo nuovo mondo.
- Dai, Giacomo, potresti provare anche tu, non è difficile – mi ha detto Fausto. – Posso chiedere al padrone se puoi fare qualcosa o se può parlare a qualcuno che conosce e ha bisogno. Al porto si mangia a tutte le ore, come hai visto. C’è anche il vantaggio che qualche avanzo c’è sempre anche per noi.
Dai discorsi sono venuti i fatti e adesso lavoro anch’io come aiuto per il servizio ai tavoli e per portare da mangiare a barcaioli e operai che non riescono a venire al locale per mezzogiorno.
Mi mandano in giro già di primo mattino a prendere le prenotazioni, perché c’è tanta concorrenza in questa attività, specialmente da parte dei cadrai, che portano da mangiare stando sull’acqua: girano tra le barche e i velieri a vendere caffè, focaccia, vino bianco, frutta, panini per la colazione del mattino, e per pranzo cibi cotti che si arrangiano a preparare su fornelli di ghisa o terracotta che hanno a bordo. Si fanno sentire gridando il nome della loro mercanzia e poi riempiono le gamelle, le pignatte o i fiaschi, che vengono calati giù appesi a delle cordicelle.
Anch’io devo farmi sentire e giro per il porto gridando il nome della trattoria e delle pietanze che prepara; mi porto anche un piccolo quaderno, dove scrivo tutto per non dimenticare o fare confusione.
Ho faticato un po’ a orientarmi nel porto e anch’io, come Fausto, avevo paura di non capire il genovese. A orecchio mi sembrava tutta una cantilena, ma mi sono sbrogliato in fretta anche a parlarlo.
Dal mio accento si capisce, però, che vengo da fuori; qualche volta, per ridere, mi prendono in giro, ma poi si discorre e si trovano anche degli amici.
La mia vita è così, adesso.
Nel porto le cose girano in questo modo quasi tutti i giorni, ma quando una grande nave sta per partire comincia ad arrivare tanta, tanta gente. Non mi sono ancora fermato a guardare bene tutto questo mondo che mi passa davanti agli occhi, ma avrò tempo di farlo e parlarne un’altra volta.
Alla domenica si respira un’aria diversa, alcuni lavori si fermano proprio e altri rallentano. La nostra trattoria non lavora e così, con Fausto, vado in giro per Genova.
Conosciamo già le strade e i palazzi più importanti, ma siamo anche molto attirati dalla montagna che copre le spalle alla città e guarda il mare. Chissà che spettacolo da lassù!
Vi manderò delle cartoline per farvi vedere altri pezzi di Genova, e aspetto che il mio “fratellino” Attilio mi mandi notizie dal mondo che ho lasciato.
Per invogliarlo unisco a questo scritto una lettera tutta per lui.
Vi abbraccio tutti
Giacomo
9. MARE MARE
Genova …
Mare, mare, mare!
Ho proprio gridato così, forte, con tutto il fiato che mi sono trovato dopo la salita fin lassù, dove ho potuto finalmente vederlo tutto.
Sai, Attilio, al porto c’è il mare, ma lo vedi solo a pezzi: le chiatte, i gozzi, le barche occupano tutti gli spazi e non senti neanche la sua voce.
Sì, il mare ha una voce; dovresti sentirla quando è arrabbiato e tutto quello che c’è sull’acqua non si muove più in modo tranquillo, ma si agita, balla, dondola, e bisogna stare molto attenti a muoversi.
Domenica ho deciso che volevo vedere il mare senza avere niente davanti, allora mi sono incamminato su per la montagna. Ho incontrato case di contadini che allevano le bestie come da noi, hanno la vigna, alberi da frutta, e in questo periodo hanno quasi finito di raccogliere le olive.
La strada saliva e ogni tanto mi voltavo e lo vedevo laggiù con i suoi colori, ma sempre un po’ nascosto. Poi di colpo, dietro una curva, ecco il mare, immenso.
Sono rimasto come fulminato, mi sono messo a gridare e a salutarlo: finalmente ci vedevamo, senza nessun impedimento.
Non ridere, Attilio. In quel momento mi pareva che anche lui mi parlasse: mi diceva della vita, del mondo, di tutte le cose che ci sono da conoscere… Diceva che mi aspettava.
Ti scrivo queste cose perché tu, anche se sei ancora tanto giovane, mi capisci.
Ricordi quando, d’estate, sdraiati sull’erba, guardavamo quel pezzo di cielo fra le montagne e dicevamo che c’erano tante stelle nascoste, che non potevamo vedere? Anche tu inventavi disegni e figure nel cielo.
Dalla cima della montagna, alle spalle di Genova, il cielo si può vedere tutto: di notte, coperto di stelle che tremano, e pieno di colori bellissimi, quando il sole sta per nascere, o quando sparisce nel mare, la sera.
Quel cielo dolcemente curvo, che vedi dove comincia e finisce, mi ha ricordato il nostro ponte, al paese, la sua lenta salita e la vista che mi regalava: quante volte mi sono affacciato a guardare l’acqua del Rio, pensando che, dopo tanta strada, avrebbe raggiunto il mare.
E finalmente ero lì, con il mare ai miei piedi. Gli occhi pieni di colore seguivano le vele, le scie che al loro passaggio si aprivano nell’acqua, lasciando dietro di sé un po’ di schiuma chiara, che pian piano sbiadiva. Le cose nuove che vedevo si combinavano con altre che avevo dentro, e ho pensato che le imbarcazioni solcano il mare, lo aprono, avanzano, proprio come facciamo noi con la terra, ma tutto si cancella in fretta.
A un certo punto, però, i pensieri se ne sono andati tutti. Ne è rimasto uno solo, ma mi pareva di vederlo meglio.
Te ne parlerò un’altra volta, Attilio, quando sarà più chiaro anche per me.
Non ho le parole degli scrittori e dei poeti per dirti come mi sentivo: ero dentro a un bagno di silenzio e tranquillità e non volevo più uscire da quella pace. Poi sono tornato a terra, e i piedi mi hanno riportato a casa.
Ho scritto subito queste righe per te, perché avevo bisogno di fermare quello che avevo visto e tenevo dentro, prima che tutto diventasse un ricordo un po’ sbiadito.
Ora smetto, Attilio; mettiti anche tu davanti a un foglio e raccontami di voi.
Ti abbraccio forte e ti saluto come ho fatto con il mare.
Il tuo fratellone Giacomo
10. IL MARE IN CARTOLINA
Di fronte al mare, da lassù, Giacomo si era sentito smarrito, esaltato e senza parole, tormentato anche dal fatto di non riuscire a trovarle per dare un nome a quel tumulto di emozioni. Sapeva di essere bravo nel discorrere e nel raccontare, ma quando scavava dentro di sé e sentiva qualcosa di indefinito che gli cambiava il ritmo del cuore e del respiro, non riusciva ad esprimersi con le parole. E nemmeno avrebbe trovato quelle giuste per parlare di tutta quella luce e quei colori.
Cercherò una bella cartolina dove si veda il mare, si era detto.
Ma si può chiudere l'immensità? Si possono rendere veri quei colori, riuscire a farli sognare o almeno immaginare?
Una cartolina postale arrivata al paese pochi giorni dopo l'ultima lettera mostrava un panorama marino con le case strette le une alle altre, quasi bagnate dal mare.
Attilio, tanti anni dopo, ripensa a quella cartolina; ne ricorda ancora ogni particolare, tanto l'aveva osservata a lungo, ogni giorno, finché era stata in mostra all'angolo della credenza, e certe volte la salutava persino perché gli sembrava di avere Giacomo vicino e di guardare le stesse cose insieme.
La scritta in basso diceva: Genova - Borgo marinaro di Boccadasse.
Ecco, quelle erano le case dei pescatori, uomini che vivono con il mare e ci viaggiano sopra con le loro barche. La loro vita e quella delle loro famiglie è tutta lì, in quell'andare e venire sul mare.
Giacomo aveva cercato per giorni una cartolina con un pezzo di mare che non fosse quello del porto, ingombro d’imbarcazioni grandi e piccole. E poi aveva scelto quell'angolo di Genova, fermato in bianco e nero sulla carta, ma con le sue parole aveva cercato di riempire di colori e sfumature tutte le tonalità del grigio.
Cari tutti, questa cartolina dovrete guardarla con i miei occhi, perché è piena di colori. Cominciamo dalle case. Sono tutte dipinte con tinte belle che vanno d'accordo fra loro: rosa scuro, giallo, verde chiaro, giallo più scuro. Un mazzo di case che si vedono bene anche da lontano. Pensate come devono sentirsi i pescatori quando, tornando dalla pesca, cominciano a distinguere il colore della loro casa.
Tutte hanno le persiane verdi e sono senza balconi. Tra una finestra e l'altra ci sono corde tese per stendere il bucato e ci sono sempre panni che sventolano da qualche parte.
Il mare entra fra le case come una bocca spalancata: per questo, gli hanno dato il nome Boccadasse, che vuol dire “bocca d'asino”. Al fondo della bocca c'è la spiaggetta, con le barche appoggiate una vicino all'altra. Anche le barche sono colorate e hanno anche un nome proprio, come le nostre mucche.
Il mare ha colori diversi secondo la profondità dell'acqua; a riva è trasparente, poi passa dal verde chiaro, all'azzurro sempre più carico, fino a diventare quasi blu scuro.
Ecco, ho dipinto la cartolina per voi.
Un grande abbraccio a tutti. Giacomo
Colori, tanti, ma su tutti vince il blu. Attilio chiude gli occhi e, ora come allora, prova ad entrare in quell'azzurro di cielo e di mare che sembra non avere fine. Per abbandonarsi e sognare.
11. MARI DI TERRA
Ciao, Attilio, che emozione ricevere la tua lettera.
Quando l'ho trovata, quasi non riuscivo a credere che fosse proprio per me e avesse quasi l'odore di casa.
Ho riconosciuto la tua scrittura, ti ho immaginato davanti al foglio bianco che cercavi le parole per rispondermi, o forse no, hai cominciato a scrivere tutto quello che volevi dirmi, ma senza fretta, come quando mi parlavi e ogni tanto ti interrompevi per guardarmi e leggermi negli occhi. Dici che hai visto il mare con i miei occhi, i colori, il movimento dell'acqua, le strade lasciate dalle barche, le strisce di colore diverso; chiudendo gli occhi, riesci anche a capire l'immensità e la fusione del mare con il cielo.
È meraviglioso il tuo mare d'acqua, Giacomo, hai continuato. Quell'immensità entra dentro e fa sognare, ma, ricordati, sono belli anche i mari di terra!
E hai ricordato quel pomeriggio d'estate, quando stavamo sdraiati in un prato e io dicevo: Nessuno ci vede qui, siamo immersi in un mare d'erba.
Un mare di fili alti, profumati, colorati, che il mattino dopo sarebbe caduto sotto la falce e di cui, nascosti, godevamo la frescura. E poi, alla fine di tutto quel lavoro, il fienile diventava un posto per divertirsi, tuffarsi e rotolarsi nell'erba secca, profumata e frusciante.
Allora non me ne rendevo conto, Attilio, ma ci sono anche mari di terra.
Anche i prati cambiano colore al passaggio delle nuvole e diventano di un verde scuro profondo, per diventare subito dopo leggeri e chiari sotto il sole.
Ricordo anche i campi di grano, quei colori che si accendono ogni giorno di più, fino a che le spighe sono mature, calde, turgide, dorate.
Questi sono i nostri mari di terra, governati dall'uomo, ma soprattutto dalla pioggia, dal sole e dalla tempesta.
È tutto questo che decide se il tuo lavoro andrà a buon fine oppure no, e io ho detto basta e sono partito.
E poi, volevo vedere il resto del mondo che non conosco e che ora mi passa sotto gli occhi. Te lo voglio raccontare un po' alla volta questo mondo e voglio anche dirti quello che provo. Non è facile, ma ho capito che quando scrivo, le cose diventano più chiare anche per me.
So che hai trovato il tempo di scrivermi in tranquillità, perché si è chiuso il tempo dei lavori. Adesso la terra si riposa come gli alberi e anche gli uomini, finalmente.
Mi sembra quasi di sentire l'odore di fumo che esce dai camini e si confonde con quello delle castagne arrostite, mentre per le strade si aggirano poche ombre, chiuse nei lunghi mantelli.
Per tua informazione, le “brusatà” le trovo anche a Genova: le cuociono per le strade, con le padelle bucate come le nostre.
Non ci sono, al momento, cambiamenti nel mio lavoro, mentre nella vita di Fausto sembra arrivata una novità: ha conosciuto una ragazza e sembra avere intenzioni serie. Staremo a vedere.
Per il momento si parlano, come si dice da noi quando due giovani cercano di conoscersi, ma dai suoi discorsi capisco che è già avanti nella decisione.
Vuole dare la notizia di persona ai suoi e si è già messo d'accordo con il padrone per prendersi qualche settimana a Natale.
Io prenderò il suo posto a servire ai tavoli: ho capito come funziona e per fortuna imparo velocemente.
Ormai capisco anche il genovese, ma qui non viene solo gente del porto, arrivano sovente anche dei forestieri, curiosi di conoscere la cucina genovese. S’interessano a tutto e il padrone mi ha dato il compito di intrattenerli e rispondere alle loro domande, quando non devo fare le consegne.
La cosa mi piace molto, perché ascolto discorsi e parole diverse da quelle solite che usiamo tutti i giorni e comincerò a scriverle anche nelle mie lettere.
Per cominciare, manderò alla famiglia i miei auguri per Natale con una bella cartolina, che metterete sulla credenza, così potrete pensare che sono un po' con voi, almeno con il pensiero.
Verrà anche Fausto a portarvi mie notizie e un po' di prodotti del posto che vi faranno piacere.
Arriverà con il traway da Pinerolo e toccherà a te andare ad aspettarlo alla stazione e accompagnarlo fino a casa.
So già che gli farete tante feste e dovrà stare con voi tutto il giorno.
Fausto sarà contento, ha voglia di conoscervi tutti ma, mi raccomando, non fategli perdere il tram per tornare a casa.
Per ora ti saluto e ti abbraccio forte.
Giacomo
12. REGALI DI NATALE
Quella linea ferroviaria è ancora lì. Ha cominciato dalla fine dell'Ottocento ad andare su e giù per la valle, portando da casa al posto di lavoro e dalle fabbriche a casa, ogni giorno, migliaia di uomini e donne.
Lo sferragliare delle ruote e il fischio che annuncia l'arrivo in stazione riempiono la quiete della valle e fanno concorrenza alla campana della chiesa nello scandire il tempo della giornata.
Attilio ricorda la prima volta che era salito in treno con Teresa, per andare alla fiera di Pinerolo: affacciati al finestrino, si erano riempiti gli occhi con tutto quello che sfilava velocemente davanti a loro.
Teresa, ricordo che eri un po' dispiaciuta perché l'aria ti spettinava quando mettevi la testa fuori dal finestrino ed io scherzavo e ti aiutavo a sistemare il “puciu”. Ma quanto ci eravamo divertiti, anche solo a guardare tutta quella gente vestita a festa. Per te era tutto nuovo, perché non avevi mai viaggiato sul tramway e continuavi a farmi domande, quasi le stesse che mi facevo io quella volta che ero andato ad aspettare Fausto alla stazione.
Quando, tra il rumore dei freni e gli sbuffi di vapore, il tramway si è fermato, per un attimo, ho avuto timore di non saperlo riconoscere, ma poi ho visto un giovane che agitava un braccio per salutarmi e mi chiamava per nome facendo segno di avvicinarmi.
Sei quasi identico a tuo fratello, mi disse abbracciandomi.
Aiutami, per favore, a portare questo sacco, fai attenzione che ci sono bottiglie di olio.
Insieme all'olio c'erano olive, biscotti all'anice tipici di Genova, arance (mai viste grandi così), mandarini e limoni in quantità, che hanno riempito la casa di profumo. Noi eravamo contenti e non finivamo più di ringraziarlo per essersi disturbato, anche perché tutta quella roba faceva proprio un bel peso.
C'è ancora una cosa importante per voi: gli auguri di Giacomo, disse.
Tirò fuori dalla tasca una cartolina e la mise nelle mie mani.
Anche noi avevamo preparato un pacco da portare a Genova, però meno pesante, con un po' di salami fatti da poco, due bottiglie del vino nuovo e un corredo invernale di lana composto da muffole, berretto e cravatta preparato dalle sorelle.
Così starà al caldo, dicevano. Quando è partito non ce n'era ancora bisogno.
Fausto rimase a pranzo con noi e parlammo di Genova, di Giacomo e dei suoi progetti; alla fine di quella bella giornata arrivarono i saluti e il momento di tornare alla stazione. A quel punto tirai fuori anch'io una lettera, che era una breve risposta alla sua cartolina.
Quello è stato il primo Natale senza Giacomo, sai Teresa?
C'era la sua cartolina nell'angolo della credenza, vicino a quella di Boccadasse, e ognuno di noi aveva i suoi pensieri guardandole. Qualche volta le mie sorelle si fermavano lì davanti, commentavano e salutavano Giacomo, come se fosse nascosto dentro quelle cartoline.
Sull’ultima c’era un’immagine particolare, che metteva insieme aspetti diversi del Natale.
In primo piano c'era la capanna del presepe su una roccia leggermente imbiancata, alle sue spalle, un gigantesco albero di Natale, pieno di palline colorate e fili d'argento, e sullo sfondo una chiesa tutta illuminata con alcuni fedeli in cammino su una strada innevata.
Quella cartolina piaceva molto a mia sorella Marietta e a un certo punto deve essere finita fra le sue cose, ma la ricordo ancora bene. Soprattutto quell’albero, ricoperto di decorazioni che non avevo mai visto. Ripenso agli alberelli che preparavamo insieme per i nostri bambini, così semplici ma così straordinari per loro. Ricordo la loro gioia e l'impazienza dell'attesa per aprire, il mattino di Natale, quei piccoli sacchetti di stoffa che nascondevano le sorprese: pantofoline di lana fatte da te ai ferri, o figure e animaletti di legno intagliati da me la sera, quando tutto era silenzio. Ricordo la loro fretta di spogliare l’albero, togliendo prima le caramelle e i bastoncini di liquirizia, poi i mandarini, lasciando solo i pon-pon di lana colorati, perché facessero ancora la loro figura.
Ho ancora nella mente le parole scritte da mio fratello:
Buon Natale. Ve lo dico con una cartolina che mi ricorda tutto quello che capita da noi per preparare la festa.
Nell'angolo vicino alla porta avete sistemato l'abete e ai suoi piedi, su un prato di soffice muschio, c'è il nostro piccolo presepe e anche il laghetto con le papere e un po' di erba tenera fatta con il grano germogliato.
Fuori è arrivato il buio, ma la notte è chiara per la luna e la neve che copre tutto. Nella strada è aperto solo un passaggio per le persone che s’incamminano per la messa di mezzanotte.
Fa freddo, ma la neve mette allegria e una battaglia a palle di neve può aiutare a scaldarsi e diventare ancora più allegri.
Da voi l'inverno è vero, mentre qui c'è un inverno per finta.
Forse diceva ancora altro, ma ho pensato che, mentre scriveva quella cartolina, Giacomo aveva ben presente davanti a sé l'immagine della sua casa e del suo paese.
Teresa mia, ho capito che Giacomo ci aveva portati tutti con sé e, forse, sentiva un po' di vuoto nella sua vita, anche se non ne faceva parola.
Mi aveva incuriosito quella frase sull'inverno vero e l'inverno per finta. Nella mia lettera di risposta gli avevo chiesto di raccontarmi di quel finto inverno.
L'inverno vero lo conosco, lo sento arrivare sulla pelle quando l'aria si fa più pungente e gli occhi vedono cambiare i colori delle foglie del bosco.
Anche il naso sente odori diversi e, a volte, mi sembra proprio di trovare nell'aria l'odore della neve che sta per cadere. La coperta di neve copre anche i rumori e qualche volta mi sembra che tutto si sia fermato.
Proprio come è successo alla mia vita quando sei andata via tu.
13. I PADRONI DEL SOLE
Ciao, Attilio.
Ti dico subito che mi sembra di sentire ancora nelle orecchie le risate di Fausto e di vedere i suoi occhi divertiti mentre racconta l'impresa che gli hai fatto vivere il giorno che è venuto a trovarvi.
Mi ha detto che l'hai invitato a fare una bella scivolata sulla neve dopo pranzo e l'idea gli è piaciuta. Però, mentre ti seguiva, quel giovanotto grande e grosso ha cominciato a sentirsi un po' preoccupato, perché ti eri caricato sulle spalle non la slitta piccola ma quella grande che si adopera per la legna e le fascine. Aveva capito che sareste saliti tutt’e due e vi sareste buttati giù per la discesa. Doveva affidarsi totalmente a te e alle tue abilità di manovra, perciò è salito tenendosi stretto, chiudendo gli occhi e trattenendo quasi il respiro.
La slitta tu sai guidarla bene, proprio come ti ho insegnato io, frenando al momento giusto per rallentare nelle curve e lasciandola andare quando la pista è bella, per godere della velocità e degli schizzi di neve sulla pelle.
“ll primo giro sono rimasto muto, ma mi sono rifatto dopo,” mi ha raccontato Fausto. “Scendevamo incitando il nostro cavallo di legno con tutto il fiato che avevamo in corpo, riempiendoci i polmoni con quell'aria fresca che sembrava quasi ubriacarci.”
Tornati a casa, lo aspettava un'altra bella sorpresa: la stalla. Lo hai portato lì per riscaldarvi e riposarvi un po'; vi siete coricati sul fieno ammucchiato nell'angolo.
“Mi è venuta in mente la stalla del nonno, l'odore degli animali, quell'umido buono, il profumo del fieno e del latte appena munto. E sono rimasto lì a lungo, a guardare gli occhi delle mucche, così grandi e mansueti, il loro naso bagnato e le mandibole in movimento, come delle macine”, ha continuato commosso, con gli occhi lucidi.
La nostra stalla, Attilio, me la vedo davanti, con i muri di pietra, la finestrella e i vetri appannati, la panca, il tavolino, gli sgabelli per mungere.
Quanti racconti hanno ascoltato quei muri e anche quegli animali; quanti giochi e disegni sui vetri, subito cancellati e poi rifatti: facevamo a gara a chi riusciva ad appannare meglio i vetri, ricordi?
D'inverno, quando veniva notte, ci si trovava riuniti nella stalla, al calore della stufa, tutti, uomini e bestie, ma vi si trascorreva anche parte della giornata perché lì la stufa era sempre accesa.
Qui a Genova il freddo è diverso e anche le piante se ne accorgono.
È un inverno per finta, come ti dicevo nell'ultima lettera, perché si vedono alberi e cespugli fioriti; la gente continua a passeggiare tranquilla, senza fretta, sotto un sole buono che scalda senza dare fastidio.
A dire la verità, la gente che va in giro mi sembra addirittura aumentata, rispetto all'estate.
Sulla passeggiata a mare, s’incontrano coppie vestite in modo elegante, signore anziane accompagnate da signorine, tutte gentili con loro. Sento parole in lingua straniera, parole in italiano con strani accenti; ci sono anche distinti signori che parlano piemontese.
Ecco, tutta questa gente fa come le rondini, che a un certo punto lasciano il loro nido e vanno a farne un altro in un paese più caldo.
Sono venuti a cercare più sole. Proprio da noi!
Specialmente per gli stranieri, l'Italia è il paese dove sul cielo grigio vince l'azzurro e il sole splende quasi tutti i giorni dell'anno.
Attilio, noi siamo “i padroni del sole”.
Con questo pensiero ti saluto.
Giacomo
14. INCONTRO CON HANS
Mio caro fratello,
è passato più di un mese da quando ti ho scritto l'ultima volta.
Ricordo che ti parlavo di un inverno che assomiglia alla nostra primavera e della gente che arriva da tutte le parti, non solo per salire sulle navi ma anche per scappare dal freddo. Li guardo spesso, seduti sulle panchine o ai tavolini dei locali del porto, mentre fanno provvista di caldo come le lucertole, ferme al sole, quando escono dalla tana: alcuni guardano il cielo senza stancarsi, seguendo quasi incantati il volo degli uccelli marini, altri invece si lasciano andare completamente al riposo, tenendo gli occhi chiusi.
Mentre vado in giro così, osservando curioso la vita degli altri, un giorno mi succede un fatto interessante: un giovane, più o meno della mia età, sta sistemando su un muretto alcuni quadretti e disegni, che un venticello leggero ma insistente continua a sparpagliare. Ne raccolgo alcuni, capitati vicino ai miei piedi: non sono vedute di Genova o paesaggi di mare, ma mulini a vento e case diverse dalle nostre. Li porgo al ragazzo, che mi fa un sorriso e mi dice grazie, con una erre che raspa in gola. Capisco che arriva da un altro paese, anche per via del vestire e della statura. Sai che io sono abbastanza alto, ma lui è almeno due branche più di me.
Ho voglia di attaccare discorso, di sapere da dove arriva, se sa suonare quel piffero che spunta del suo zaino e, mentre sono lì che studio cosa fare, lui mi dice in perfetto genovese, ma sempre con quella erre speciale: Grazie ancora, quest'aria disturba e non mi lascia lavorare tranquillo.
Attilio, sono rimasto proprio a bocca aperta e lui, divertito, si è messo a ridere forte: mi sembrava di essere preso un po' in giro.
Mi chiamo Hans, ha detto. Vengo dalla Germania, ma parlo un po' di genovese. Lassù ho un amico, Gino, che viene di qui. È arrivato ad Hamelin da piccolo, con la famiglia: giocando insieme, lui ha imparato il tedesco e io il genovese.
Questo Gino gli raccontava sempre di Genova. Ricordava il mare, il sole, il caldo, le piante fiorite, la focaccia e la farinata. Vedendo i suoi occhi ridere mentre ne parlava, gli è nata la voglia di assaggiare e vedere tutto. Così è venuto a Genova a conoscere un nuovo mondo.
Nello zaino ha tutto l'occorrente per disegnare e dipingere: è molto bravo a fare paesaggi o ritratti alle persone, a matite o a carboncino. Alcuni si fermano a guardare e s’interessano a quello che sta facendo. A volte, si mette a suonare il flauto. Non sai quanti, attirati dalla musica, vengono a curiosare. Proprio come nella fiaba del pifferaio di Hamelin, mi ha detto Hans.
Mi sono ricordato subito della storia scritta dai fratelli Grimm e del disegno che c'era nel libro di scuola, dove si vedeva una processione di topi buttarsi nel canale, incantati dal suono del piffero magico. Finiva male quella storia: il pifferaio, indispettito per la promessa non mantenuta di una certa ricompensa, aveva portato via dalla città tutti i bambini, che lo avevano seguito come i topi, stregati dal suono del suo flauto.
Hans mi ha detto che la storia era ispirata a fatti accaduti veramente ad Hamelin, tanti anni prima. Ascoltandolo, sembrava anche a me di stare dentro a una fiaba, e avrei voluto continuare a fargli domande, o semplicemente sentirlo raccontare del suo mondo. Capivo, però, che lui non poteva passare il suo tempo a darmi retta: era lì per guadagnare qualcosa, facendo disegni per i passanti, attirati dalla musica.
Mi sono messo un po' da parte per guardarlo all'opera: in quattro e quattr'otto ha fatto il ritratto a un bambino, poi a una signorina che, tutta contenta e con tante cerimonie, l'ha donato al suo accompagnatore.
Secondo me, Hans ha un occhio particolare: riesce a togliere piccoli difetti ai suoi modelli, che sono sempre soddisfatti del risultato.
Il vento, però, era diventato più insistente e Hans ha cominciato a metter via le sue cose: quadretti e disegni in una valigetta, matite e piffero nello zaino.
A quel punto mi sono di nuovo avvicinato, offrendomi di aiutarlo a portare un quadro che aveva dipinto quel mattino e aveva il colore ancora fresco.
Ci siamo incamminati lungo la passeggiata continuando a discorrere in genovese; a sentirlo parlare con quell'accento, molti ci guardavano stupiti.
Capita proprio di tutto in questo mondo, Attilio, anche di sentire il genovese parlato da un crucco!
Nella prossima lettera ti parlerò ancora di Hans, perché intendo approfondire la conoscenza.
Vi abbraccio tutti.
Giacomo
15. LETTERE DAL MONDO
Un trillo insistente annunciava come sempre l'arrivo del postino. Giovanni, soprannominato “vola colomba”, stava ancora manovrando il campanello della bicicletta, che Attilio era già davanti a lui, con la mano tesa ad afferrare la lettera da Genova.
“Genova, Genova, con profumo di mare”, declamava Giovanni, prima di consegnare la busta con dentro i racconti di Giacomo, del quale aveva riconosciuto la scrittura.
“Chissà quante novità anche questa volta!” Sospirava il portalettere.
In cuor suo, avrebbe voluto che Attilio aprisse subito la lettera e glie ne leggesse almeno qualche passaggio ad alta voce.
Ma, a meno che il contenuto fosse proprio personale, Attilio riservava quel rito alla famiglia riunita, quando si sarebbero trovati tutti a tavola, oppure la sera, durante la veglia nella stalla. In inverno le serate sono lunghe e la tiepida stalla diventava il salotto di casa.
Terminata la cena, le ragazze si affrettavano a rigovernare la cucina, mentre Attilio e il padre Carlin andavano in stalla a sistemare la lettiera delle mucche, abituate a sdraiarsi dopo la mungitura serale.
Alimentavano il fuoco della stufa posta in un angolo con un bel pezzo di legno di faggio, per tenere al caldo bestie e persone che avrebbero trascorso con loro le ultime ore della giornata.
Là sopra, il grande pentolone dove finivano di cuocere le ballotte dava alla stalla un’aria accogliente, come panca e sgabelli, già pronti vicino ai punti di illuminazione.
Un tocco deciso alla porta annuncia l'arrivo dei primi ospiti: il vecchio Bartolomeo, sostenuto dal bastone, e i vicini Eligio e Regina, ciascuno con una sedia per contribuire alla sistemazione dei posti a sedere.
In una piccola gerla Eligio ha messo un cesto da ultimare insieme a una matassa di viburno inumidito, più flessibile e adatto per l'intreccio; ci sono pure due bei ciocchi di legno per alimentare la stufa. Regina, invece, ha i ferri e la lana per gli “scapin” nelle tasche del grembiule.
Un insistente scalpiccio di zoccole e un vociare allegro segnala l'arrivo di Luigina e Marietta, sorelle di Attilio, e con loro c'è Rina, una vicina di casa. Le ragazze, avvolte nei loro scialli, entrano in fretta per non lasciare che il freddo s’infili all'interno.
Con un sorriso e un saluto per tutti, prendono posto vicino a un bel lume, per poter continuare un ricamo, tenuto al riparo sotto lo scialle.
Anche Attilio ha il suo lavoro pronto: deve modellare con il coltello alcuni denti per i rastrelli, così facili alle rotture durante i pesanti lavori estivi. L'inverno concede agli uomini questo tempo lento, per riposare il corpo e riparare gli attrezzi di lavoro.
Carlin e Bartolomeo si sistemano di fianco alla stufa per discorrere fra loro, mentre Attilio va in cerca del tronchetto di legno da intagliare. Nell'aprire la porta, il giovane si trova di fronte la faccia sorpresa del suo amico Beppe, con il braccio teso nell'atto di bussare. Attilio lo saluta con un'allegra pacca sulla spalla, poi si affretta verso la figura che scorge nell'ombra e che avanza reggendo con prudenza una brocca di smalto.
È Maddalena, la madre di Beppe, conoscitrice di erbe, con la buona tisana di tiglio e sambuco, calmante e aromatica al tempo stesso.
Nella stalla ognuno trova una sistemazione, pone mano al suo lavoro, dialoga o ascolta le notizie del giorno in attesa della sorpresa annunciata.
Attilio rientra, ripone vicino al suo sgabello il materiale da lavoro, ma invece di prendere posto si avvicina alla lampada e rivolgendo uno sguardo a tutti i presenti estrae dalla tasca una busta e in un attento silenzio, interrotto solo dal lento e sommesso ruminare delle mucche, inizia a leggere le parole di Giacomo.
“Certa gente se la passa proprio bene”, dice Regina scuotendo la testa, “l'unica cosa che deve decidere al mattino è dove andare a passeggio e quale panchina scegliere per prendere il sole.”
Luigina, con occhi sognanti che sembrano inseguire una fantasia, solleva la testa dal ricamo.
“Mi piacerebbe vedere quella gente, i loro vestiti, i cappelli e tutti i gingilli che si mettono le dame per fare bella figura.”
“E chissà quanto tempo ci mettono a prepararsi il mattino”, incalza Rina alzando le sopracciglia.
Attilio, abbassando lo sguardo sulla lettera, riflette ad alta voce.
“Che tipi interessanti si incontrano in giro per il mondo! Provo a immaginare quell'Hans vicino a Giacomo. Forse è biondo anche lui, con i capelli un po' lunghi. Ma è molto alto, dice nella lettera, e viene da quel paese della fiaba del pifferaio, che suonando si fa seguire da tutti i topi della città e li porta ad annegare nel canale.”
“E dopo ha portato via anche i bambini, perché si era sentito imbrogliato”, conclude Bartolomeo fissando i giovani della compagnia. “Si dice che qualcosa di vero c'è in questa storia.”
“Nelle storie c'è sempre qualcosa di vero” esclama Maddalena, facendo brevi cenni d'assenso con la testa, “e questa un po' fa ridere e un po' fa pensare.”
“Chissà cos’era successo davvero? Mi piacerebbe proprio conoscere l'origine di questa fiaba”, sbotta Attilio interrompendo i vari commenti. “Uno di questi giorni andrò dal maestro Matheud che ha tanti libri e gliene parlerò. Forse lui avrà delle risposte.”
“Adesso ve ne racconto una io”, interviene Eligio sospendendo il lavoro di intreccio. “Giovanni mi ha parlato di una lettera arrivata dall'Argentina a una famiglia del Serre. Questi hanno dei perenti laggiù che scrivono cose che è difficile quasi immaginare. Parlano di terre senza confini, tanto pascolo, tanto bestiame libero. Insomma, basta aver voglia di lavorare e puoi fare fortuna: loro stanno pensando di vendere il poco che hanno e raggiungere i parenti.”
“Ma sarà poi tutto vero?” lo interrompe Carlin, guardandolo fisso negli occhi. “Quelli che partono con tanti sogni nella testa trovano davvero la fortuna? Il nostro postino, che sente un po' tutte le storie che arrivano chiuse nelle lettere, mi ha raccontato che cosa succede agli emigranti della terza classe, quando sbarcano a New York.”
Una lunga pausa e il tono sdegnato di Carlin richiamano l'attenzione. Gli occhi di tutti, ora, sono puntati su di lui.
“I viaggiatori della prima e della seconda classe hanno il controllo dei documenti in cabina e poi vengono traghettati a Manhattan, mentre quelli della terza classe vengono sbarcati a Ellis Island, un'isola di fronte a New York. Lì sono visitati da medici, interrogati su tutto, nome cognome, soldi che hanno, anche cosa pensano della politica. Se sembrano un po' fuori di testa o hanno qualche difetto nel corpo vengono respinti e tornano da dove sono venuti!”
Un mormorio di disapprovazione accoglie queste parole.
“Che tristezza!” commenta Regina. “Certe volte le bestie sono trattate meglio.”
“La fame e la miseria ti spingono verso posti dove vedi la speranza che a casa tua non trovi. E quando sei lontano da tutti, cerchi di vivere e trovare qualcosa di buono con tutte le tue forze, per non far star male quelli che hai lasciato a casa e ti pensano soddisfatto e fortunato.”
“Così diceva sempre il mio Vittorio”, conferma Maddalena con un'ombra sul viso.
Come succede quasi sempre, le parole tristi sembrano rimanere sospese nell'aria e intorbidire i pensieri dei presenti.
Allora le ragazze, con l'aria di quelle che pensano sempre ad altro, si alzano leste e cominciano a distribuire castagne ballotte, bicchieri di vino o di tisana. Regina smette di accarezzare una mucca, e prende il bicchiere di tisana che le porge Marietta.
“Ci vuole proprio qualcosa di caldo prima di tornare là fuori.”
“Stanotte ci sarà una bella gelata, con il cielo così sereno e quella luna piena”, asserisce Attilio sbucciando una castagna.
Infine, Beppe lancia la sua eccitante proposta.
“E se andassimo a scaldarci con una battaglia a palle di neve?”
16. UN MONDO DI CARTA
Caro fratello,
non so dirti come sono sorpreso e contento quando tengo in mano una tua lettera.
Prima di aprirla mi concentro un attimo e ti vedo mentre scrivi, rileggi e chiudi, vai dal tabacchino a comprare il francobollo, ti accerti che sia ben incollato e poi lo fai cadere nella buca, oppure, per essere più sicuro, vai tu di persona a consegnare la lettera.
È tutto a posto? Parte già oggi? Quanto ci mette ad arrivare?
Mi sembra di sentire queste parole dette con un po' di preoccupazione per una cosa che si sta facendo senza avere la certezza che finisca bene.
Sono contento che la mia ultima lettera ti abbia incuriosito, spingendoti a saperne di più, aggiungendo alla fiaba del pifferaio alcuni particolari che nemmeno Hans conosceva.
Ti immagino fare i conti con la tua timidezza, mentre ti presenti a casa del maestro Matheud, poi entri nel suo studio e t’incanti davanti ai libri della biblioteca.
Noi non abbiamo maneggiato molti libri nella nostra vita, vero Attilio? A casa ne circolavano pochi, forse un libro per seguire la messa, i libretti del catechismo o un libro di canti, se ben ricordo. Abbiamo poi avuto quelli di scuola, della biblioteca di classe, ma erano sempre gli stessi.
Così, quando ti trovi davanti tanti volumi con i loro titoli, che parlano di tante cose, dove puoi trovare risposte a curiosità su piante, animali, cielo, paesi, popoli e tutto quello che può venirti in mente, rimani quasi senza parole. E ti metti a pensare che, in quei libri, di parole stampate ce ne sono tante e nemmeno riusciamo a capirle tutte, purtroppo. Anch’io ho provato da poco questa emozione quando sono entrato in una libreria di Genova.
Dopo che Egidio si è sposato, Hans è venuto ad abitare con me, e stiamo imparando nuove lingue: lui l'italiano ed io il tedesco. In pratica, traduciamo frasi o parole dalla lingua che parliamo entrambi: il genovese. La cosa è divertente e utile, ma mi sono reso conto che ci serve una grammatica e anche un vocabolario: proprio per questo sono andato in libreria.
Non ero mai entrato in un posto così e mi sono sentito in soggezione, io che oso attaccare bottone con chiunque.
Sono rimasto un po' a guardare l'ambiente, a respirare quell'odore particolare, buono, sconosciuto; poi mi sono fatto avanti, deciso a non fare subito la mia richiesta perché volevo fermarmi un altro po', aggirarmi fra gli scaffali, come vedevo fare da altri clienti, leggere i titoli, scegliere un libro, sfogliarlo, leggerne magari un pezzetto.
Ne ho visto uno con il mio nome stampato: Giacomo Leopardi - Raccolta di poesie. Mi ricordavo anche il cognome, forse a scuola avevamo studiato qualche poesia, allora l’ho preso, sfogliato, e l'ho trovata, la poesia. È “Il sabato del villaggio” che dice: “La donzelletta vien dalla campagna in sul calar del sole...” Forse l'hai studiata anche tu. Poi ne ho lette altre: sono belle, con parole difficili, quasi tutte un po' malinconiche ma fanno pensare.
Vengono in testa belle immagini, come quella del pastore che guarda la luna e dice: “Che fai tu luna in ciel? Dimmi che fai, silenziosa luna? Sorgi la sera e vai…”
Mi sono rimasti in testa questi versi. Forse tornerò e mi comprerò il libro.
Ne ho visto un altro che vorrei avere, l’“Odissea”. Racconta di Ulisse, l'eroe greco che ha ingannato i troiani con il cavallo di legno. Poi, prima di trovare la strada di casa, ha navigato ancora dieci anni incontrando sirene, giganti, maghe. Ricordo pezzi di questa storia, ma mi piacerebbe leggerla tutta.
Questo è un mondo di carta dove si sta proprio bene, ma ho dovuto decidermi a uscire. Mi sono avvicinato al banco e ho comprato grammatica e vocabolario, dopo aver trovato quello che poteva servire a me e ad Hans, con delle scritte chiare in italiano e in tedesco.
Ora non ci resta che studiare e anche imparare un po' a scrivere, così ho comprato anche due quaderni. Spero di progredire nello studio.
Saluti a tutti e un forte abbraccio a te.
Giacomo
17. RADICI
Caro Attilio,
ti chiedo scusa per aver tardato tanto a rispondere alla tua lettera, ma sto davvero faticando a trovare tempo per qualcosa di diverso, oltre al lavoro e allo “studio”.
Forse non mi stai prendendo sul serio, ma quello che sto facendo con Hans è un esercizio che impegna molto del nostro tempo, soprattutto la sera.
Adesso siamo spesso insieme, perché lui ha trasferito la sua attività proprio fuori della mia locanda: espone i suoi disegni e svolge anche un lavoro d’interprete per il locale. Con la bella stagione, arrivi e partenze sono aumentati e capitano qui persone da tutte le parti. Si fermano davanti al nostro cartello, li vediamo incerti, che parlano fra loro, indecisi se entrare o proseguire. Allora il padrone ha pensato bene di mettere un cartello: “Benvenuti - qui si parla tedesco”. Scritto in tedesco però: “Wilkommen! Hier spricht man Deutsch”.
È stata proprio una bella idea. Hans lì fuori può accogliere forestieri disorientati dalla confusione del porto, rispondere a domande sul cibo o su altre questioni, conquistando la fiducia di queste persone, che si lasciano condurre alla nostra tavola. Dato il suo lavoro d’interprete, Hans non può assentarsi a lungo.
Sovente, anche quando potrei andarmene per qualche ora, rimango con lui e facciamo esercizio di conversazione, traducendo – io in italiano e lui in tedesco – una frase ascoltata casualmente, e poi ripetendola fino a saperla a memoria.
La sera poi le scriviamo sul quaderno.
E adesso dimmi se questo non è studiare: certe volte mi ripeto la frase anche mentre cammino per la strada per non lasciarla scappare dalla memoria!
Mi ha fatto molto piacere trovare il biglietto di ringraziamento di Marietta che hai unito al tuo scritto. Mi avevi dato, tempo fa, la notizia del suo prossimo matrimonio e delle lenzuola che stava ricamando con le cifre.
Ho pensato di contribuire anch'io al suo corredo con una tovaglia e due lenzuola che mi ha procurato, per fortuna, la sposa promessa di Fausto.
Mi sarei sentito spaesato a entrare in un negozio per comprare cose così!
Ho respirato aria di matrimonio anche a Genova, quando Fausto si è sposato e gli ho fatto anche da testimone.
Toccherà anche a te, mi ha detto qualcuno ridendo, e ridevo anch'io, ma sentivo che farmi una famiglia non è nei miei sogni. Anche tu mi hai fatto quella domanda: Giacomo, tu guardi le ragazze? Non pensi di farti una morosa?
Forse sono proprio un sognatore che non riesce a trovare un posto dove fermarsi. Quand’ero lassù con tutti voi, ti dicevo che c'era un mondo che mi aspettava fuori da quelle montagne e non sarei rimasto per sempre in quella terra. Anche qui non metterò radici: forse sono un albero strano che non trova terra buona dove metterle.
Con Hans ne parlo e ci capiamo: siamo come quelle piante che stendono le radici in orizzontale come dei raggi, in tutte le direzioni.
Forse partiremo da Genova, tutti e due, insieme.
Ci stiamo pensando, quando guardiamo i bastimenti, dove non salgono solo quelli che vanno a cercare fortuna, ma anche persone che fanno parte del “bel mondo”, che a bordo continuano le loro abitudini: buona tavola, salotti, musica, balli..
Ecco, questo ci manca e ci incuriosisce: conoscere un altro modo di vivere la vita.
E capire se ne vale davvero la pena, capire se le pesche in cima alla pianta sono più buone di quelle che raccogli stendendo la mano.
Mio caro Attilio, mi accorgo che sto correndo con la fantasia.
Forse mi ha contagiato la storia di Ulisse, voglio essere anch'io un Ulisse, staccarmi dalla terra e andare finalmente sul mare.
Ho comprato l'Odissea e anche la raccolta di poesie di Leopardi, ma ora in libreria mi fermo a sfogliare libri di viaggi e fissare le carte geografiche. Il mondo è proprio grande, Attilio.
Ti abbraccio forte.
Giacomo
18. L'ULTIMA LETTERA
Attilio tiene in mano l'ultima lettera di Giacomo, e ricorda il presentimento provato allora, leggendola. Rigira la busta fra le mani, con l'indirizzo scritto da suo fratello, in quella calligrafia minuta e precisa che ben conosce. La apre, ma la pagina appare sfocata ai suoi occhi umidi e la richiude lentamente.
Non ho bisogno di rileggerla, Teresa, la ricordo a memoria.
Ricordo che è arrivata alla fine di agosto, in un momento di calma per il lavoro: il grosso del fieno ritirato, il grano raccolto, trebbiato e a posto nei sacchi; in cantina marmellate, conserva di pomodori, patate.
Da quasi due mesi non avevamo più notizie da Genova, la mia ultima lettera era rimasta senza risposta. Temevo di averlo offeso, senza farlo apposta, per qualcosa che avevo scritto; ricordo che ero agitato per le cose che avevo appena letto. Mi avevano riportato indietro, a quando lui diceva: “Attilio, là fuori c'è il mondo, là fuori ci sono paesi con gente diversa da qui, che parla lingue che non capiamo. C'è il mare grande e navi che lo attraversano con tanta gente sopra.”
Giacomo, allora, era vicino a me, ma nella mente già si preparava a partire. Lo vedo ancora fissare un punto lontano, mentre io mi sentivo quasi girare la testa, come quando ci manca la terra sotto ai piedi.
Leggendo quei discorsi sulle radici deboli di certi alberi, avevo provato la stessa sensazione. Lo avevo immaginato guardare il mare, questa volta, e pensare ai paesi che stava scoprendo sulle carte geografiche per decidere la direzione da prendere. Come un nuovo Ulisse, lo vedevo cedere al desiderio di avventura e perdersi in qualche terra lontana.
Con queste paure in testa, devo avergli scritto una convinta difesa degli alberi con radici ben piantate, come i nostri castagni che sono veri giganti, mentre quelli che crescono in terreni instabili, cadono di schianto sotto una tempesta.
Ricordi, Teresa? Ti confidavo il timore che la febbre di Giacomo fosse ereditaria e come una malattia covasse dentro a qualcuno dei nostri figli. Ho capito, però, che è inutile combattere questa febbre, e forse il mio povero fratello avrà anche provato a soffocarla. Continuerò a ricordare i suoi occhi chiari che guardano un punto lontano, con lo sguardo limpido del sognatore, senza riuscire a capire la sua esaltazione nel voler andare, andare e ancora andare.
La lettera era breve, composta di due fogli. Il primo era per tutta la famiglia, l'altro solo per me.
Cari tutti,
da due mesi non ho più dato notizie e vi chiedo di perdonarmi. Questo mio silenzio forse vi preoccupava, avete forse pensato che nella mia testa erano entrati altri interessi e non c'era più posto per voi.
È vero, per la testa ho davvero tante cose, ma vi assicuro che voi siete sempre nei miei pensieri.
Vi vedo lassù fra le montagne, occupati nei lavori estivi e ricordo quell'aria diventata tiepida e carica di odori. Se chiudo gli occhi, mi sembra perfino di distinguerli: quello dell'erba falciata, del fieno seccato, dei fiori dell'acacia o del sambuco.
Qui continuavo a vivere le mie giornate lavorando e studiando il tedesco insieme ad Hans, quando è successa una cosa che ha buttato all'aria questo tran tran.
Un giorno come tanti, forse con più confusione perché stava per partire un grosso bastimento, sono entrati nella locanda due uomini in divisa, quella che si usa sulle navi, coi gradi sulla manica della giacca. Rivolgendosi al padrone, gli hanno chiesto di parlare con l'interprete tedesco. Si sono appartati con Hans per una buona mezz'ora, alternandosi fra loro con lunghi discorsi mentre lui ascoltava soltanto. Noi eravamo molto incuriositi e, quando si sono congedati, siamo corsi da lui per sapere.
In parole povere mi hanno chiesto se m’interessa fare l'interprete sulla nave, ci ha riferito Hans, tutto serio, non subito ma per la partenza successiva, fra due mesi. In quel viaggio i passeggeri tedeschi saranno numerosi e occorre personale che conosca la lingua. Ci penserò. Torneranno fra qualche giorno per la risposta.
A casa Hans continuò ad essere pensoso; poi, guardandomi serio negli occhi, mi disse: Ho deciso di accettare e chiederò di far venire anche te, che sei il mio allievo prediletto di tedesco!
Quando gli ufficiali sono tornati, mi hanno esaminato a lungo, guardando come mi muovevo, come trattavo con i clienti; poi hanno parlottato fra loro e fatto segno di avvicinarmi. Con un'aria solenne mi hanno dato la notizia, e adesso la faccio conoscere anche a voi: presto m’imbarcherò su quella nave e prenderò servizio come cameriere!
Così adesso mi sto preparando: ho comprato un baule non tanto grande per mettere quello che mi può servire, mentre il resto lo porterò a casa di Fausto. Nel baule dovrò sistemare bene tutto quello che mi verrà dato sulla nave: una divisa completa con il cambio, i guanti bianchi e anche le scarpe.
Fausto è un po' dispiaciuto che non potremo più trovarci, come eravamo abituati, quasi tutte le domeniche. Seduti davanti ad un bicchiere di vino o andando a passeggio sul lungomare, Hans ed io gli riportavamo i fatti della settimana accaduti al porto e lui raccontava le notizie arrivate dai nostri monti. Fausto insiste per ospitarci tutte le volte che torneremo; vuole riabbracciarci e sapere ogni cosa per tenersi aggiornato sui tempi, come dice lui.
Prometto che racconterò tutto anche a voi in lunghe lettere.
Ora vi abbraccio tutti, forte forte.
Giacomo
Mio caro fratello,
ti chiedo scusa per il mio silenzio ma, come avrai capito, in poco tempo stavano accadendo cose che erano nei miei sogni del futuro e invece si sono presentate improvvisamente, lasciandomi meravigliato, confuso e felice.
Purtroppo, però, non è semplice chiudere. Non si può levare l'ancora e lasciarsi la terra dietro le spalle: bisogna sistemare tante cose, i rapporti di lavoro, la casa e più di ogni altra cosa i legami di amicizia,.
Con Fausto ho parlato a lungo, mi ha fatto tante domande per capire se ero ben convinto della mia decisione e ha dovuto rendersi conto che il mio non era un colpo di testa per poter seguire l'esempio di Hans, ma era proprio dovuto al desiderio di realizzare una speranza, un sogno che tenevo per me da tempo.
Forse tu, Attilio, l'avevi capito, perché mi conosci bene. Hai ascoltato i miei sfoghi quando ero ancora a casa e ti difendevi dai miei voli verso il cielo ed il mare parlandomi dell'attaccamento alla terra, dell'importanza di avere radici salde come quel grande castagno che è lassù, vicino alla fontana dell'Orsa. È stato colpito dal fulmine, ha dei rami secchi, eppure resiste in piedi, forte e sicuro.
So che tu sei già un giovane castagno; pianterai le tue radici in profondità, perché ami la terra e ne avrai sempre un po' sulla pelle, nei capelli, sotto le unghie… Ti voglio bene, Attilio, e sono contento che tu sia così.
Io, invece, sono come quegli uccelli che volano giocando con il vento e quando sentono il bisogno di andare partono verso una meta lontana.
Non sai quanto tormento ho tenuto nascosto; poi ho deciso di vivere la mia vita, non sapendo nemmeno in che modo, ma è stato più forte di me.
Vi ho salutati portandovi nel cuore e nella mente. Sarà così anche questa volta, che sto per seguire una strada del tutto sconosciuta.
Ricordi le parole che ti ho scritto quando ero riuscito a vedere il mare nella sua immensità, senza ostacoli a nasconderlo. La sua voce parlava proprio a me di quanto c'era da scoprire e conoscere nel mondo che era là e mi aspettava.
Porto con me i miei libri e un quaderno nuovo: sarà il mio diario, accoglierà i miei pensieri, racconterò la vita che mi passerà accanto, il mio lavoro e quello di Hans, i nuovi incontri che faremo, e chissà quante altre cose che ancora non so e aspettano di essere scoperte. Ti manderò ogni giorno un pensiero.
Ora ti saluto e ti stringo a lungo fra le mie braccia.
19. LA VOCE DELL'ACQUA
La provenienza della lettera che “Vola colomba” aveva tolto dalla borsa a scomparti in cui separava con cura la corrispondenza non lasciava dubbi: il timbro di Genova era chiaro, ma la scrittura non era di Giacomo. Il postino ormai la riconosceva da alcuni particolari. Il fatto di dover consegnare una missiva così diversa fece rallentare i suoi movimenti, impedendogli di presentarsi nel solito modo festoso. Annunciò l'arrivo della posta con un trillo quasi sommesso, ma si riprese immediatamente, sentendosi in obbligo di non turbare la famiglia.
“Finalmente notizie da Genova”, annunciò con voce squillante, vedendo Attilio uscire di casa.
La lettera passò nella mano tesa e impaziente del ragazzo, ma quella grafia sconosciuta gelò il suo sorriso. Attilio studiò la busta, rigirandola più volte fra le mani.
“Non è di Giacomo.” mormorò poi, allontanandosi, quasi parlando fra sé. “È di Fausto, un nostro amico.”
Non ho mai dimenticato quei lunghi attimi, Teresa. Mi vedo ancora stringere la lettera, inattesa, che immaginavo contenesse notizie di Giacomo. Ricordo la battaglia che sentivo dentro, il desiderio di sapere subito, ma al tempo stesso la paura di aprire la busta.
Seguendo l'impulso di cercare un nascondiglio, un riparo, come un animale in pericolo, mi sono messo a correre: scappavo da qualcosa di brutto che forse da qualche parte era già successo, e stava per entrare nella mia vita, nella vita di tutti noi.
Sono andato al Rio, sono entrato nell'intrico dei salici ancora verdi, e lì, circondato solo dalla voce dell'acqua, ho letto.
Ho immaginato la pena di Fausto mentre scriveva quella lettera: vedevo il suo viso addolorato, gli occhi lucidi, e non riuscivo a credere a quello che stavo leggendo.
Giacomo era scomparso, Teresa. Scomparso!
Non era più tornato a Genova e non si sapeva più niente di lui.
Ho cominciato a urlare, tirando pietre nell'acqua, come per fermare quello scorrere continuo. Ma la vita non si fermava, tutto continuava come sempre, solo Giacomo non c'era più.
A casa, ho posato la lettera sul tavolo, senza dire una parola. Mi hanno fissato con occhi pieni di domande, ma bastava guardarmi per capire.
“Giacomo, ho detto, non tornerà più a casa. Non potremo più aspettarlo.”
Ognuno, poi, ha letto, ha pianto da solo; poi, abbiamo riletto insieme, abbattuti e increduli.
Cari amici,
conservo come un caro ricordo la vostra accoglienza, quando sono venuto l'anno passato a portarvi notizie di Giacomo.
Sono ripartito con il cuore allegro e pieno di gratitudine per i bei momenti passati insieme, mentre ora, purtroppo, è pesante e stretto da una pena enorme, perché devo darvi una notizia dolorosa e difficile da accettare.
Il mio amico Giacomo, vostro figlio e fratello, non è più tornato.
Giacomo è scomparso! Scomparso dalla nave senza lasciare traccia. Niente per ritrovarlo, nessun indizio per spiegare questo fatto.
Ho avuto la notizia da un marinaio, sceso a chiedermi chi stavo aspettando da ore. Mi parlava in modo strano, come se fosse un segreto, e io devo averlo guardato stralunato perché non riuscivo a credere a quello che mi diceva. Devo anche aver perso un po' la testa, l'ho preso per la giacca, gridando che nessuno può sparire di colpo, senza che si sappia più niente di lui!
Poi, a lunghi passi, sono risalito sulla passerella fino al ponte, e ho cominciato a chiamare Hans. Si è fatto un gran silenzio intorno: tutti i presenti hanno interrotto i loro lavori per guardare la scena.
Hans è apparso insieme a due uomini in divisa, si è avvicinato e mi ha abbracciato commosso, senza parlare. Allora ho dovuto convincermi che quella storia era vera e sono crollato. I due uomini hanno aspettato che tornassi un po' normale, poi mi hanno parlato con molta comprensione, dicendo che tutto era registrato in un rapporto: gli interrogatori agli addetti di guardia, la notte della scomparsa, le ricerche fatte fra le sue cose, perfino il bollettino sulle condizioni del mare. Mi hanno detto che una copia del rapporto sarà inviata alla famiglia e sarà fatta denuncia agli uffici di competenza.
Poi, forse per darmi un po' di consolazione, mi hanno spiegato che, in mancanza del ritrovamento del corpo, Giacomo risulterà disperso e non morto. Secondo loro, non si può abbandonare del tutto l’ipotesi che sia stato salvato e preso a bordo di una nave diretta chissà dove.
Forse è una speranza, un sogno che potrebbe avverarsi, ma adesso l'unica realtà è che Giacomo non è più con noi.
Hans ha radunato i vestiti, i libri, i quaderni, tutte le sue cose, nel baule. Ora è in mia custodia e verrò al più presto a portarvelo di persona.
Sarà un incontro triste, quel baule conserva quel che ci rimane di lui, farà male a tutti pensarlo, ma sono cose che dobbiamo fare, anche se danno molta pena.
Vi abbraccio tutti.
Fausto
Quella sera, i vicini vennero come al solito nella stalla, forse anche più numerosi. La lettera passò di mano in mano: qualcuno lesse solo le prime righe, altri la trattennero a lungo. La giovane Luigina leggeva a bassa voce per le vicine che le si stringevano a lato. Piangevano tutte senza trattenersi, le lacrime cadevano sui lavori abbandonati in grembo, le mani incapaci di ritrovare il movimento automatico della maglia o del cucito. Due anziani, curvi sui loro bastoni, scuotevano la testa. “Che disgrazia, che disgrazia,” continuavano a mormorare.
Qualcuno, non resistendo in quel silenzio, era uscito dalla stalla.
Parlavano di Giacomo, della sua vita trascorsa al paese e conclusa in modo così tragico e misterioso.
Ogni tanto mi giungevano parole, frasi.
Non trovava il suo posto... dove riuscire a star bene... ma arrivare a questo... ma proprio nessuno ha visto? Forse non è morto, forse è stato trovato vivo... chissà dove sarà finito!
Dal mio angolo, vedevo le persone addolorate, mi arrivavano i loro commenti, gli interrogativi senza risposta, e dentro non sentivo più niente: solo un vuoto, come se il presente non mi riguardasse.
Mi lasciai cadere sulla paglia, sfinito, con gli occhi chiusi. Mi tornavano in mente certi discorsi di Giacomo, che già allora, quando li avevo sentiti da lui, mi avevano reso inquieto.
“Attilio, la vita si apre davanti a noi come una strada. Per alcuni, la fine del percorso si ricongiunge al punto dov’è iniziato, come un cerchio disegnato da una mano sicura dove tutto è già deciso e, giorno dopo giorno, si recita una parte assegnata da qualcun altro.
Per altri la strada è meno semplice, si aprono direzioni diverse, ci sono scelte e decisioni da prendere non sempre guidati dalla ragione, ma da una forza sconosciuta che spinge ad andare avanti, sempre avanti.”
Povero Giacomo. Nella sua strada aveva trovato ogni giorno una parte nuova da recitare: fin dove era arrivato?
Continuavo a cercare nei miei ricordi qualcosa che potesse farmi capire ciò che gli era successo: un segnale che Giacomo fosse capace di azioni insensate o pericolose.
Lo rivedevo, da ragazzo, camminare sulla spalletta del ponte, su quella fila di pietre irregolari e sporgenti. A volte fingeva di inciampare, ridendo di noi che avevamo paura e lo supplicavamo di smettere.
Avrà voluto mettere alla prova il suo equilibrio anche sulla nave?
Oppure sarà stata la voce dell'acqua, quella musica instancabile, piena di promesse, mescolata a suoni misteriosi? Giacomo, come un nuovo Ulisse, avrà ceduto al canto delle sirene?
Poi mi tornarono in mente le parole di una sua lettera:
“Di fronte a quell'immensità, i miei pensieri se n’erano andai tutti, ero dentro a un bagno di silenzio e di tranquillità e non volevo più uscire da quella pace.”
E mormorai: Hai trovato la tua pace, Giacomo. Ora riposa.