NONNA GERARDINA
La traduzione dal dialetto lucano di acciu è sedano, quel sedano che la nonna Gerardina mi mandava a prendere nell’orto. “Corradino, vai nell’orto a pigliare l’acciu.” “Sì nonna, che dobbiamo fare?” La nonna dapprima era evasiva, poi mi spiegava: “Adesso prendiamo un po’ di cipolla, il basilico, se c’è una carota, e poi mi aiuti a sbucciare l’aglio.” “E poi che devo fare?” “Prendi una padella che serve per cucinare l’agnello!” Nell’angolo più illuminato della cucina c’era una stufa di ghisa, su cui la nonna poneva i suoi tegami e, sfruttando la legna che noi nipoti andavamo a raccogliere nei boschi, cucinava i piatti che poi la sera tutta la famiglia consumava nella grande sala da pranzo. La nonna, in cucina, stava sempre in piedi, appoggiata al tavolo che faceva da piano di lavoro. Quella donna minuta e sempre china mentre sbucciava patate, carote, aglio, e tutto ciò che le serviva, era quasi sempre vestita nei suoi abiti neri. Davanti, aveva un grembiulone con una capiente tasca, legato sui fianchi, e slacciare il fiocco del grembiule era uno dei passatempi preferiti dai nipoti: lei, semiseria, si voltava e mugugnava qualche imprecazione. Ma, ritornando all’acciu, la nonna era solita cogliere nell’orto le foglie del sedano e, insieme a del finocchietto selvatico e altre erbe spontanee , ci preparava delle minestre che io e i miei cugini divoravamo a testa china sul piatto. Credo che avesse affinato l’arte di miscelare quel poco che la natura le donava. Il profumo fresco dell’acciu mi ha risvegliato il ricordo della nonna.
Il ricordo che mi rimane di lei sono i suoi vestiti neri. Ai suoi tempi le donne meridionali, per la perdita del marito o di un figlio, portavano il lutto per tutto il resto della loro vita. Al sud, anche adesso, non è raro vedere donnine devote, soprattutto nei luoghi di culto, vestite totalmente di nero. Mia nonna Gerardina, mamma di mio padre, era una donna minuta, alta poco più di un metro e cinquanta; aveva partorito sette figli, quattro femmine e tre maschi. Molto devota alla vergine del Carmelo, protettrice del nostro paese d’origine, snocciolava tutti i giorni il suo rosario. Aveva perso il marito nel mezzo della guerra, a causa di una malaria, ed era rimasta con cinque figli ancora adolescenti, e il più piccolo di soli due anni. Ma, come tutte le donne di quell’epoca, seppe combattere con le avversità quotidiane. Anzi, aveva sempre una parola buona per tutti, “Figl mii, stai tranquillo!” era solita raccomandare a chiunque avesse avuto delle preoccupazioni. Essere rimasta vedova a quarantasei anni l’aveva temprata. Aveva una piccola casa su un solo piano, con un terreno adiacente che a stento riusciva a produrre il necessario per la sopravvivenza. Mio padre con la sorella maggiore furono da subito mandati nei campi a lavorare sotto padrone, per guadagnare un pezzo di pane: questo era sempre l’inizio dei suoi racconti. I miei cugini ed io, da piccoli, rimanevamo incantati ad ascoltarla.
Le sue storie erano di antica memoria contadina, e illustravano una vita per noi lontana e sconosciuta. Una sera - era il 31 ottobre, giorno del suo compleanno - lei aveva preparato i dolci per i morti e ci volle tutti intorno a sé. Noi piccoli, sugli sgabelli di legno costruiti da mio padre, eravamo in prima fila davanti alla stufa. La nonna disse che due giorni dopo ci sarebbe stata la festa per ricordare i defunti e che a Rionero, città natale di tutta la famiglia, in quell’occasione i vecchi erano soliti ripetere il racconto dedicato ai bambini morti senza essere battezzati. Nel Vulture, infatti, esiste il mito del monachello, “u munacidd”, definizione data a quegli sfortunati, che non potevano trovar pace in paradiso. La nonna, con enfasi tale da impressionarci, raccontò che i munacidd si presentavano nel cuore della notte, verso le tre del mattino, e disturbavano il sonno delle persone che dormivano in posizione supina: l’anima del munacidd si appoggiava sull’addome del malcapitato, provocando forti dolori allo stomaco. Se la persona presa di mira riusciva a svegliarsi, il munacidd scompariva. Chi invece continuava a dormire, se nel sonno riusciva a prendere il suo “cuppulin” (cappello), il giorno dopo avrebbe trovato dei soldi sotto il cuscino, o avrebbe potuto farsi indicare dove trovare un tesoro nascosto. Era evidentemente una credenza popolare, che i Rioneresi portavano con sé fin dall’epoca del brigantaggio.
La cucina della nonna era legata alla memoria del territorio, e in tutte le grandi occasioni non si stancava di spiegarci: “Si fa così, figlio mio.” Era un pozzo di scienza, forse scienza contadina, ma molto utile alla nostra crescita. Presto io cominciai a cercare di imparare a cucinare: guardavo attentamente nonna Gerardina, che con le sue esili mani riusciva a impastare velocemente un chilo di farina per preparare la pasta fatta in casa. Sapevo benissimo che quando mi ordinava “Corrado, prendi la spianatoia" era arrivato il momento del mio gioco preferito. Lei adagiava con saggezza la farina al centro, aprendola e creando “la fontana”: ormai sapevo che avrebbe fatto intiepidire un po’ d’acqua, e poi avrebbe incominciato a impastare. Aveva una rapidità di azione incredibile: con il dito pollice sapeva formare centinaia di orecchiette. L’esecuzione era semplice: dopo aver arrotolato sotto le mani un pezzetto di pasta, trasformandolo rapidamente nella forma di un grissino, con un coltello ne tagliava piccoli pezzi, dopodiché il pollice dava a ciascuno la forma dell’orecchia. Era più semplice farlo che spiegarlo! Ma il vero spettacolo era quando si preparavano i fusilli. La nonna aveva il suo segreto: da tempi remoti (forse da prima della guerra) conservava gelosamente un ferretto a forma di spirale; quando la pasta era pronta, semplicemente agiva come per le orecchiette, solo che tirava la pasta molto finemente, formando quasi degli spaghetti. Con una maestria che non so definire, lei riusciva a far passare la pasta nel ferretto, creando un lungo fusillo, e prima che si asciugasse lo tagliava nella misura di cinque o sei centimetri. Dopo una mezz’oretta che riposavano, si mettevano a seccare su un canovaccio, e alcune ore dopo la pasta era dura. Ciò che ho descritto, è solo uno degli aspetti che mi appassionavano: quando verso Natale preparava “le pettole”, il pane che tanto piaceva a noi bambini, io ero sempre incantato, non vedevo l’ora che friggesse quelle delizie, per poterle assaggiare.
Era il 1967, abitavamo a Nichelino: noi al primo piano di un grande condominio periferico, lei al quarto nella stessa scala. Noi nipoti facevamo decine di volte al giorno quelle scale, e spesso tornando da scuola andavo direttamente da lei: i miei genitori al lavoro erano tranquilli, vista la sua presenza. Al pomeriggio mi diceva di fare i compiti, mentre lei raccoglieva tra le dita il rosario per le sue preghiere. Il fatto di vederla in quel mormorio silenzioso m’incuriosiva, e la riempivo di domande: “Perché questo, perché quello?” Lei, ad un certo punto, mi chiamava “Perché”. Mi faceva sorridere, ma mi ha dato tante carezze: ancora oggi le sento su di me, forse ha sopperito a quelle che i miei genitori non riuscirono a darmi.
Era il 31 ottobre, il giorno del suo compleanno; il giorno dopo era Ognissanti, e per quella data la tradizione vuole che si accendono i “lumini” per i morti. La nonna teneva sul comò, in camera da letto, una specie di altarino, con le foto del nonno e dei parenti. Una volta anche mio padre, o mia madre, non ricordo, accesero dei lumini per i defunti a casa mia, ma noi non avevamo un altarino, quindi li misero sul grande televisore in cucina, dove c’era una foto del nonno. I lumini erano due, e vicino al televisore c’era il mobile che conteneva un letto a scomparsa, dove la sera trovavo il mio riposo. A mezzogiorno papà con lo zio Leo arrivarono dal lavoro e salimmo tutti al quarto piano, per pranzare dalla nonna: io ero felice quando eravamo uniti tutti a tavola! Poi quel giorno c’erano i biscotti dei morti. Verso le tredici e trenta, nel bel mezzo del pranzo, accadde qualcosa di strano. Era una tipica giornata d’autunno, a Nichelino c’era una fitta nebbia; vidi mio padre affacciarsi alla finestra della cucina dove stavamo mangiando: un vociare aveva richiamato la sua attenzione. Qualcuno gli gridò: “Tonino scendi! Dov’è il resto della famiglia? La vostra casa va a fuoco!” Panico. Appena aprimmo la porta che dava sulle scale, fummo investiti da un denso fumo nero. Mio padre fu il primo ad arrivare giù, ma in quella concitazione dimenticò le chiavi di casa. Cercò di aprire a spallate, ma fu la moglie di Osvaldo, un amico di papà, a riuscirci. Quella giovane donna, incinta all’ottavo mese, con uno slancio e una forza insospettabile, si gettò verso la porta con una spallata e la sfondò, poi si mise a camminare a gattoni fino alla finestra della cucina, così il fumo nero cominciò a uscire. La grande Luisa aveva creduto che noi bambini fossimo all’interno, e poi quasi svenne tanto era stata impetuosa. Arrivarono i pompieri, ma ormai tutto ciò che c’era in tinello e nel cucinino era perduto. Noi, per le scale, avevamo tutti il viso nero. Quando entrai in casa non potei fare a meno di piangere: tutto ciò che era stato il mio mondo era perso per sempre. Del mio mappamondo, collocato sul mobile del mio letto, restava solo il piedistallo di ferro! Quella fu la sensazione peggiore: ci tenevo tanto ad avere il mio “mondo”. Mio padre mi disse: “Non piangere! Te ne comprerò uno nuovo.” Ricordo che per diverso tempo non potemmo dormire a casa nostra. Meno male che la nonna, con il suo senso materno, riuscì a farci dimenticare quel maledetto “FUMO NERO”.