IL CASTELLO

La strada che partendo dall’Aurelia porta sulle alture che dominano la spiaggia di Bergeggi si dipanava assolata tra ulivi e muri a secco.
Eravamo di ritorno da una vacanza in campeggio e mio padre aveva proposto di fermarci a Bergeggi dove abitava una cugina. Ricordavo vagamente di essere stata ospite parecchi anni prima di quella famiglia: in quel giorno avevamo fatto un giro in barca intorno all’isolotto di Bergeggi, e avevo vaghi ricordi di un castello, in cui abitavano, che aveva acceso la mia fantasia. Dopo alcune curve apparve una rientranza e di fronte a questa, davanti ad un cancello in ferro, Celestina ci aspettava. Parcheggiammo in un giardino ombroso, in cui piccole fontane attorniate da sedili di pietra davano un senso di frescura alla giornata calda di fine estate.
Eravamo attesi per pranzo e la padrona di casa ci precedette per un viale alberato che conduceva dalla parte opposta al castello. Ci apparve una casa di pietra, con tetto spiovente: una parete intera era ricoperta da fiori di bouganville. L’aspetto austero dell’edificio era ingentilito da vasi di terracotta ricolmi di piante fiorite e da alberi di limone. Il marito di Celestina, Giacomo conte Millelire e la figlia ci accolsero sorridenti. La casa aveva una terrazza coperta a cui si accedeva dal giardino con pochi gradini: qui era pronta una lunga tavola apparecchiata con una candida tovaglia e suppellettili che non erano di uso comune. Piatti con stemma, posate d’argento e bicchieri di cristallo.
L’interno della casa aveva stanze arredate con mobili antichi che sembravano aver visto ampiezze maggiori, le pareti erano ricoperte di quadri e stemmi araldici.
Giacomo, un uomo alto e magro con occhiali spessi da miope, ci disse che proprio quel mattino aveva avuto fortuna con la pesca e avremmo mangiato del buon pesce fresco con le verdure che la moglie coltivava personalmente nell’orto.
Mentre gli adulti si raccontavano le cose successe negli ultimi anni, Guendalina la figlia, un vero terremoto, monopolizzava la mia attenzione distraendomi da discorsi che mi avrebbero interessato.
Eravamo alla fine del pranzo quando sentimmo arrivare un’auto. Vidi parcheggiare fra gli alberi una macchina decappottabile e da questa scendere una strana coppia. Avanzavano verso la casa una donna con grandi occhiali neri, capelli biondo platino e un foulard annodato al collo e un uomo in giacca blu con papillon e grandi baffi su un viso aristocratico.
Erano i suoceri di Celestina, ritornavano da Montecarlo verso Genova, dove risiedevano, e si erano fermati per un saluto. Di fronte alla richiesta di fermarsi a pranzo, sembrarono incerti e afflitti da inappetenza che però scomparve improvvisamente di fronte agli ottimi piatti preparati dalla padrona di casa.
Finalmente Guendalina mi propose di fare un giro e ci inoltrammo fra gli alberi che circondavano la casa. Arrivammo al castello che non era molto grande, ma si estendeva su più piani ed era coronato da una torre con merlature. Al centro della torre si vedevano i resti di un antico stemma nobiliare.
Le mura erano scolorite dal tempo e tra le brecce fuoriuscivano erbe e arbusti. Il pesante portone di legno si aprì sotto la nostra spinta con un lungo cigolio. All’interno, fresco e umido, la luce del giorno e il vento esterno che si era levato, fecero sollevare polvere e ondeggiare ragnatele che pendevano dal soffitto, mentre un frullo di ali risuonava sugli alti soffitti. Le tappezzerie erano macchiate e strappate in molti punti, sulle pareti si vedevano le ombre, dove quadri e suppellettili avevano arredato gli ambienti. Una scala imponente portava al piano superiore, dove macchie di umido e infiltrazioni piovane avevano danneggiato muri e pavimenti. Salimmo sulla torretta: di qui, la vista del mare increspato dal vento e dell’isola coperta di vegetazione mediterranea, era incantevole.
Quando riprendemmo la via del ritorno, verso sera, mio padre raccontò che i nostri parenti avevano dovuto lasciare da tempo il castello divenuto inagibile e che avrebbe richiesto delle costose opere di recupero edilizio. I genitori di Giacomo, giocatori incalliti e clienti abituali dei vari casinò della costa, dopo aver dilapidato il patrimonio, avevano dovuto cedere l’isolotto che era di loro proprietà e alcune case, e ora abitavano in affitto. Giacomo e Celestina avevano occupato la casa in cui ci avevano ospitati, che era stata della servitù. Lui ora lavorava in fabbrica, mentre Celestina gestiva un piccolo negozio di alimentari che lavorava nei mesi estivi mentre languiva durante l’inverno.
Passarono molti anni prima di avere l’occasione, un inverno, di ritornare in quei luoghi. Molte cose erano cambiate ma quando intravidi tra gli ulivi una torre merlata seppi di essere arrivata.
Il castello non esisteva più, o meglio alcune parti di esso erano state incorporate in una casa lussuosa che doveva contenere vari alloggi. Dei vecchi resti erano rimasti la torre merlata e qualche muro. Il giardino e gli alberi sembravano essere stati risparmiati e fra essi vidi spuntare, come un’isola fiorita, la casa di Celestina.
Sembrava il tempo fosse passato senza scalfirla: la stessa profusione di fiori, di alberi di limoni. Disseminate in vari angoli ciotole ricolme di cibi per gatti e mangiatoie per uccelli.
Faticai un po’ a farmi riconoscere da quella vecchietta dai capelli candidi e gli occhi azzurri. Era rimasta vedova ed ora Guendalina con la sua famiglia, abitavano in una casa in riva al mare.
Lei non voleva assolutamente muoversi da quel luogo nonostante le insistenze della figlia che la voleva presso di sé. Mi disse che era già sulla strada per raggiungere il piccolo cimitero in cui riposava il marito in cima all’altura.
Trascorremmo il pomeriggio a ricordare i vecchi tempi e coloro che non c’erano più. Quando me ne andai, mi sembrò di lasciare un luogo di serenità: Celestina era stata una donna semplice che aveva preso in mano la propria vita senza rimpianti, vivendo serenamente all’ombra della dimora che l’aveva vista castellana per poche stagioni.

 

 

Autore: Marinella Undilli
Data: 08 apr 2018