I PASQUET

 Buenos Aires 22 Aprile 1909 

Cara Lidia,

Sono sceso ieri dal piroscafo Vesuvio dopo trentadue giorni di mare. Non mi sembra vero di avere la terra sotto i piedi. Durante la traversata abbiamo avuto tanti guai: tempeste, guasti alle macchine, problemi di scorbuto che non mi ha preso. Ma ora sono a Buenos Aires grande che non vedi la fine e il porto pure. Domani incontrerò il “rosso” che era passato da noi per vendere le terre dei Bianciotto che sono qui a Buenos Aires. Mi darà le notizie per andare alla chacra di suo cognato che ha bisogno di gente per lavorare. Si trova a Cordoba molto distante da qui e ci metterò due giorni di treno.

Qui ci sono delle distanze che noi non pensiamo nemmeno…tanta terra, mare, montagne. O visto la carta geografica sulla nave, l’italia è uno stivale piccolo piccolo e San Secondo è uno spillo. Il pensiero mi punge come uno spillo proprio vicino al cuore.

Mi dispiace come me ne sono andato volevo che eravate d’accordo ma loro hanno la vista corta tutto le fa paura anche se poi è meglio di come va adesso. Vittorio e Cesare sono dei testun buoni solo a tirare la sloira senza farci i conti se rende.

Sono partito mentre tutti dormivano solo Fufi mi è venuto dietro fino al camposanto gli ho detto “va a cà” ma gnente gli ho tirato una pietra e mi a guardato che ci penso ancora.

O avuto il magone per tutto il viaggio ma a Genova ho sentito che avevo fatto la cosa giusta e non piangevo come gli altri che salivano sulla nave, ero nel giusto. Ci ho lasciato la mia parte di terra a quei testoni e quando mettono su famiglia mi ringrazieranno.

Ti scrivo appena arrivo e ti mando l’indirizzo da scrivermi e mandarmi notizie della famiglia. Ti abbraccio forte
Tuo fratello Daniele

 

Cordoba, 20 Maggio 1909

Cara Lidia

ho aspettato a scriverti perché volevo guardarmi intorno e vedere dove ero capitato. Il viaggio in treno è stato lunghissimo, c’era sempre terra, terra che qui chiamano “pampa”, piena d’erba se ci sono dei fiumi che la bagnano ma anche secca.  Ci sono poche piante e tante bestie in pastura: mucche, pecore e uomini a cavallo che li guardano.
Che bello vedere le bestie libere in tutto questo spazio e non allo stretto come da noialtri.
Anche il cielo qui è più grande, non finisce mai e anche le nuvole.

La chacra è la cascina grande come tutte le cascine di San Secondo e Prarostino messe assieme e forse anche di più.
Io ne ho visto poco ma adesso imparo ad andare a cavallo e magari mi faccio l’idea. Mi hanno messo a fare le baracche delle bestie e dormo pure in una baracca. Non mi lamento anche se è brutto e sporco, il mangiare è buono non come il nostro e prendo bene.

Ho conosciuto uno di Saluzzo e ci parlo in piemontese. È qui da sei mesi con tutta la famiglia: moglie e quattro figlie. Fa il meccanico lavora tanto. Mi ha preso in simpatia e lascia che lo aiuto. Mi piace imparare cose nuove aggiustiamo un motore, una mietitrebbia e ci troviamo le mani sporche di grasso sudati e stanchi siamo contenti.

Com’è da voi? È ora dei fieni? Pensate che se c’ero io era meglio? Te non farti prendere a lavorare al posto mio.
Qui sta arrivando l’autunno sono partito a primavera e non ho neanche visto l’estate. Ma l’inverno non è freddo come da noialtri mi ha raccontato gente di qua e la neve non sanno cosa sia.
Ti metto l’indirizzo scrivimi, dimmi come stanno i vecchi e i testoni del paese cosa succede. Un abbraccio forte

Tuo fratello Daniele

P.S. Ieri sera ho mangiato da Antonio quello di Saluzzo la moglie ha fatto la pasta. Non me la ricordavo più come era buona. La figlia più grande si chiama Dina, na bela fiia è un darmage che cià il moroso che deve arrivare.

 

 San Secondo, 30 giugno 1909

Caro Daniele

Scusa se non ti ho ancora risposto ma pioveva tutti i giorni e il fieno ci ha dato da fare sempre bagnato e da spargere di nuovo tutti i giorni.
Sono contenta che stai bene e guadagni magari la casa era meglio questa. Quello di Saluzzo che mi parli tienitelo buono così non dimentichi il dialetto.

A San Secondo c’è stata la fiera ci sono andata con nostra madre e faceva il cane da guardia meglio di Fufi. C’erano i ciarlatan i mangiafuoco e le bancarelle con tante cose buone. Ma non potevo fare un passo che ce l’avevo sempre nelle coste.

All’osteria della Rosa Bianca abbiamo trovato Vittorio e Cesare che stavano bevendo con dei giovani di Torino parenti dei Rol. Non so come mai sono finiti qui da Torino e cosa ci trovano in questo buco. Dei tipi a posto comunque. Uno di loro, uno spilungone con i baffetti, era interessato a tutto, sembrava avesse trovato l’America.  Ha detto che si è appena messo su una boita dove fanno i pennelli, un lavoro imparato da uno che è morto e l’aveva preso da bocia.

Nostra madre cercava di portarmi a casa ma lui trovava sempre cose da dire per trattenerci.

Morale: me lo sono visto la domenica dopo all’uscita dal tempio e tutti giù a guardare.  E così quella dopo.  Si chiama Carlo questo dei baffetti e mi piace, è diverso dai badola di San Secondo, ha delle idee, sa quello che vuole.

Quando arriva andiamo a spasso e mi mettono sempre Renata dietro che controlli. Che barba!

Vittorio ora parla a Fanny, era da tanto che ci stava dietro, ora lei sembra d’accordo. Spero anche tu trovi una buona compagnia per non stare da solo già che sei lontano.

Papà, mamma e i fratelli ti salutano e ti abbracciano forte. Un bacio.

Tua sorella Lidia

 

Cordoba 24 settembre 1909

Caro Mario,

non ho più avuto notizie dalla tua ultima lettera, in cui mi dicevi che in autunno ti saresti imbarcato. Non so se intendi il tuo autunno o il mio, visto che qui è primavera.

È così strano che parliamo di stagioni che nascono e passano mentre noi siamo così lontani. Chissà come sarà bella ora la passeggiata alla Castiglia con gli alberi che si saranno vestiti dei caldi colori autunnali.

So che non è facile per te lasciare i tuoi genitori, l’istituto musicale dove finalmente hai trovato una buona sistemazione. Avessi potuto fare altrimenti quando mio padre ha deciso di partire senza darci tregua, lo avrei fatto. Sono troppo giovane per mettermi contro le loro decisioni, e poi anche tu sembravi entusiasta di cambiare posto, di portare la tua musica nel nuovo mondo. Mio padre è felice di vivere qui, ama i grandi spazi, inoltre la sua capacità di meccanico ha trovato dei consensi e sta pensando che prima o poi aprirà un’officina in cui vendere e riparare macchine per l’agricoltura.

Ha fatto amicizia con un giovane di un paese vicino a Pinerolo, un ragazzo sveglio che lo aiuta e dimostra di essere bravo con i motori, anche se non ha ancora l’esperienza. Sono sempre insieme, addirittura gli ha proposto di venire a vivere qui, visto che la nostra casa è grande, per non lasciarlo, dice lui, “in quella baracca dove vivono gli operai di cui non sa la lingua”. Non eravamo d’accordo, noi donne, ma il nostro giudizio non ha avuto alcun peso.

Ti prego, fammi sapere quando arriverai, se potrai affidare i tuoi genitori a tua sorella. Anche se qui siamo in campagna, Cordoba non è distante ed è una bella e vivace città dove, sono certa, ameranno la tua musica come l’amo io.

Aspetto con ansia tue notizie.

Con tutto il mio amore,

Dina

 

Saluzzo, 1 novembre 1909

Gentilissima Dina,

tu forse non ti ricordi di me, sono Laura, la sorella di Mario. Mi permetto di scriverti perché nella nostra famiglia è finita la pace a causa tua.

Ho trovato la lettera che hai mandato a mio fratello da Cordoba e ho pensato che finalmente avevo il tuo l’indirizzo per poterti scrivere, ma poi non ho resistito e ho anche letto il tuo scritto. Non ho nulla contro di te, ti conosco poco, forse ci siamo incontrate in chiesa o a passeggio per Saluzzo. So della tua relazione con mio fratello e i miei genitori ed io ne eravamo contenti perché non abbiamo nulla da eccepire sulla tua famiglia. Poi tuo padre ti ha portata in America  e di lì chiedi a Mario di raggiungerti al più presto e fai leva sulla promessa che vi siete fatti prima della tua partenza.

Come avrai saputo a Mario è stata offerta una grande opportunità di lavoro all’Istituto Musicale della nostra città. Aspettava da tempo questa possibilità e ora è reale: è insegnante di ruolo di violino. Inoltre Magda Olivero, la grande cantante d’opera della nostra città, ha notato la bravura di mio fratello e gli ha proposto di formare un duo con la figlia, che è una giovane promessa del pianoforte.

Dopo tanta fatica e impegno gli si sono spalancate le porte per un destino che ha sempre sognato e che merita: tu vorresti privarlo di tutto questo? Cosa gli proponi, quale sarebbe la sua vita laggiù, in messo alla campagna argentina? Potrà forse suonare il violino in qualche balera, per il piacere di qualche ballerino di tango? O forse tuo padre gli potrà insegnare il mestiere di meccanico, come sta facendo con il giovane di Pinerolo?

Non sempre, mia cara, l’amore è tutto nella vita! Te lo dico dalla mia posizione di donna sposata a un uomo più anziano, un avvocato di fama, che permette a me una vita agiata e ai nostri figli le scuole più prestigiose. Mario sta soffrendo molto, preso tra due fuochi: l’amore per te e il desiderio di raggiungerti e la sofferenza di lasciare quello che ora ha a portata di mano. È dimagrito e ha l’aria sofferente, abbiamo discusso più volte animatamente su questo argomento, e alla fine ci ritroviamo sfiniti e distrutti di fronte al suo dilemma.

Ti chiedo, da donna, di fare un passo indietro e di lasciargli vivere la vita che merita.

Laura

 

Santa Fè, 27 dicembre 1909

Carissima Lidia e tutti

Non so dove cominciare a dire tante cose che sono capitate. Volevo scrivervi per Natale ma qui non sembra questa festa che è da noialtri, non fanno gli alberi con le candele e neanche il presepio.

Fa tanto caldo, è umido che sei sempre sudato marcio e lavorare fai fatica. Non sto più nella chacra del parente del rosso mi è capitata una occasione. Ora sto a Santa Fè distante da Cordoba duecento km.

E tutto capitato per Antonio che un parente lo ha chiamato a lavorare in una officina di questo posto. Lui non sapeva se faceva bene ma poi mi a detto se volevo andare con lui e aiutarlo nel lavoro da meccanico. A settembre abbiamo preso le nostre cose e con il treno siamo venuti qua. Siamo diventati soci e qui è tanto più bello. La casa e bella con un davanti aperto sul giardino. Anche il paese mi piace di più.

Mi sembra di essere di famiglia con Antonio che mi vuole bene e tra poco ai primi di gennaio ci sposo sua figlia.

Non ci credo neanche io ma Dina non a più saputo gnente del fidanzato di Saluzzo e suo padre era sempre lì a dircelo che quello non aveva intenzioni serie…

Con me mi spingeva a dichiararmi , io avevo rispetto e non mi piaceva, ho aspettato fino a che è stato lui a decidere per tutti.

Sono tanto contento perché mi è piaciuta subito la ragazza e poi è brava e spero che dimentichi quel falabrac che non ha avuto il coraggio di attraversare il mare per sposarla.

L’officina ha tanto lavoro, io imparo in fretta e presto prendiamo un bocia che ci aiuti.

E voi a casa state bene? E il tuo moroso viene per casa?

Ti ho mandato il nuovo indirizzo che mi scrivi se c’è la neve lì.  

Che bello prendere la losa e andare giù per la discesa dietro casa. Ti ricordi come ti spingevo? e poi eravamo tutti bagnati e andavamo in cucina a mangiare le castagne col latte.

Ti abbraccio. Tuo fratello Daniele

 

 Torino 20 febbraio 1910

 Caro fratello,

non ci posso credere a quest’ora sei sposato e non sappiamo gnente di tua moglie. Non abbiamo fatto la festa insieme e nessuna musica per ballare e mangiare in compagnia. Qui per il 17 hanno acceso il falò in piazza come l’anno scorso, peccato che tu non c’eri.

Carlo viene alla domenica col treno e a parlato a nostro padre che ci sposiamo a primavera prima dei lavori.

Vado a stare a Torino non mi sembra neanche vero io una vachera di San Secondo. La sua boita è nel cortile a Borgo San Paolo e noi ci stiamo sopra. C’e una casa non come qui, ci sono tanti alloggi con i balconi e le ringhiere e un piccolo cortile.

Ci sono stata a vedere e mi ha fatto effetto vedere tutti i tram elettrici che sembra ti vengano addosso.

Ci ho detto a Carlo che voglio lavorare, non mi piace stare a casa a pulire e fare da mangiare voglio imparare a fare i pennelli così lo aiuto. Lui non vuole ma io ci farò cambiare idea. Ho visto le sue operaie che sono sei ragazze giovani e una di meno e facevano svelte non alzavano la testa che sembrava avessero paura del padrone.

Carlo mi ha detto che mi porterà a teatro e a Superga con la tramvia. Sono contenta che è venuto alla fiera l’anno scorso se non veniva io restavo qui a mungere le mucche e a fare i lavori di campagna.

La notte non posso dormire tanto sono cissata.

Cesare ha parlato con Tonio e ci vengono anche Domenico e Luigi per la musica. Faremo una bella festa ci mancherai solo te.

Mandami una foto di te e tua moglie io ti manderò la nostra.

A San Secondo è tutto sempre al solito, ai tuoi amici ci manchi e mi dicono di salutarti.

Ciau ti bacio,

tua sorella Lidia 

 

 Torino 15 maggio 1910

 Caro Daniele

Ti mando la foto del mio sposalizio è stato bello come lo pensavo. Avevo tutti a festeggiare e solo la malinconia che tu mancavi.

Ho una casa con tre stanze e il gabinetto sul balcone, ho conosciuto della gente che abita qui e sono simpatici mi sono fatta delle amiche.

Proprio sotto casa ciò la fermata del tram che ti portano in giro per la città e io mi diverto a andare anche dove non conosco e imparo a vedere le cose nuove. Carlo mi ha portata al Teatro Regio, all’opera non ci capivo gnente ma la musica era bella. Non potevo crederci di essere proprio io, in quel bel  palco di velluto rosso.

Ho cominciato anche io a fare la bocia con le operaie per fare i pennelli. Ho imparato in fretta e ho le dita ferite a intrecciare le setole dure con il filo di ferro ti tormenta la pelle e anche se ci fasciamo le mani con pezze e guanti sanguinano sempre.  

Ieri un’operaia si è sentita male, mi sono spaventata è caduta per terra svenuta e quando mio marito ha trovato da ridire che per aiutarla avevamo perso tempo, mi sono arrabbiata di brutto.

Ti auguro ogni bene e spero che un giorno ci rivedremo, tu con la tua officina e io che faccio i pennelli. I nostri fratelli a mandare avanti la campagna con i vecchi ma tra poco ci viene Fanny ad aiutarli. Si sposano dopo i lavori.

Tua sorella Lidia

 

Torino, 18 maggio 1910

 

Gentilissimo Sig. Carlo

 Sono Tonia la sua operaia e volevo dire che non è giusto per l’altro giorno che ha sgridato la signora Lidia per colpa mia.

Mi sono sentita male perché sono incinta, ma è stato solo un momento e non capiterà più.

La Signora Lidia è una brava persona. Ha imparato il lavoro e va in fretta a fare il lavoro e ci parla come a delle amiche anche nella sua posizione.

Ci ha detto l’altro giorno che pioveva di usare la stanza in fondo al magazzino per mangiare e scaldare quello che ci portiamo da casa per non restare nel cortile spero che non la vuole sgridare anche per questo. Ieri ci ha portato dei guanti spessi perché abbiamo le mani ferite e non possiamo lavorare così.

Ci teniamo al nostro lavoro ci dà il pane e la signora Lidia si fa sentire vicina e questo ci fa molto piacere.

Parlo a nome di tutte

Tonia

 

Santa Fe 20 luglio 1910

Cara Lidia,

Spero che state tutti bene anche i vecchi e tu a Torino a fare la padrona ma scherzo so che lavori come un uomo.

Anche io lavoro come un mulo per fare andare avanti la baracca.

Non mi lamento anche se sono stanco morto e Antonio mi dice di riposarmi ma il lavoro è da fare e allora come faccio.  Mi sono messo a imparare la lingua di qui lo spagnolo e faccio un minestrone tra il piemontese, l’italiano e lo spagnolo ma se devo parlare per il lavoro mi arrangio.

Dina è incinta e sono contento, lei alle volte sembra contenta alle volte triste. È difficile da prendere.

Abitiamo ancora tutti insieme ma io voglio una casa mia e cerco di trovare la maniera di non offendere Antonio e gli altri. Ci voglio bene e ci sono riconoscente ma voglio la mia indipendenza. Dina invece non vuole andare via e discutiamo alla sera, vuole stare sempre con sua madre e sorelle.

Qui c’è stata una grande festa in tutto il paese a festeggiare il centenario della repubblica di quando hanno mandato via gli spagnoli.

So che a Buenos Aires anno fatto tante cose e un po anche qui. Venivano da tanti paesi del mondo a Buenos Aires vedere come l’Argentina sia un posto dove ce tanto progresso e lavoro e noi immigrati abbiamo trasformato queste campagne. Ma ci sono tanti lavoratori che patiscono la fame e il lavoro è mal pagato e non avevano da festeggiare volevano fare sciopero. Il governo a fatto una repressione molto forte che tanti sono finiti in prigione.

È un paese questo qui che digerisce male i cambiamenti e i caporioni comandano di brutto.

Quando mi scrivi non mettere il nome Paschetto che quello dell’immigrazione quando sono arrivato mi ha messo Pasquet e ora sono così.

Scrivimi dimmi cosa succede da voi, come vivete. Non lavorare troppo e a Carlo dicci che lo vorrei conoscere uno che tiene testa a mia sorella.

Ciau tuo fratello Daniele

 

Torino 1 dicembre 1910

Caro fratello

Non disimparare il dialetto che se torni non ci capisci più. Sono contenta che la famiglia aumenta e facciamo diventare nonni i vecchi. Spero che Dina si sia convinta le farà bene mettere su famiglia ci passeranno tante idee per la testa quando avrà un bambino da guardare.

Anche io aspetto un figlio ma anche se non sto tanto bene vado a lavorare lo stesso che mi piace trovarmi con le donne che si guadagnano il pane.

Carlo mi dice di stare a casa a fare la mamma quando nasce a giugno ma io mi faccio aiutare e vado a lavorare.

Piuttosto me lo porto giù al laboratorio ci metto una culla e me lo guardo, le operaie mi prendono in giro.

Domenica siamo andati a San Secondo che non la riconosci più la casa: Vittorio ha sposato Fanny e Cesare ci parla a Ida e sta preparando altre stanze. Hanno chiuso il fienile e fatto le stanze sembra una casa popolare. E tutti a lavorare quella terra dura ci faranno la fame. Meno male che noialtri ce ne siamo andati.

Torino sta cambiando ci sono tante boite, tanta gente viene dai paesi vicini per lavorare e fittano quelle vecchie case umide e marce.

Il lavoro c’è e poi si parla delle nuove fabbriche di macchine che magari tu vai sempre con il carro ma qui non prenderemo più il treno tra un po’. La Fiat ha preso la Ceirano fa delle belle macchine e Torino diventerà una città delle fabbriche e delle macchine che Agnelli a una bella testa e qui avremo il lavoro.

Qualche volta penso che se non partivi forse era meglio ma a te ti piaceva andare all’avventura e forse qui non ti trovavi. Eri uno che guardava oltre il cortile, ciai un’altra testa.

A Torino è caduta la neve ma non e bella come a casa si sporca subito, a lavorare fa freddo abbiamo acceso il braciere. Ti mando già gli auguri di Natale che tu lo passi sudando. Ciau saluti a Dina e a te un abraccio,

Lidia

 

Santa Fè, 10 febbraio 1911

Cara Lidia,

Scrivo per dirti che sono diventato papà di un bel maschio di tre chili che ho chiamato Giovanni come il nonno di Dina.

Tutta la famiglia a fatto festa, nonostante il caldo abbiamo fatto un asado con tutti i vicini della “pampa gringa” la terra di noi immigrati. Dina sta bene e sembra aver trovato la contentezza nel vedere il figlio. Meno male io sono contento.

Mi sono fatto degli amici italiani.

Qui a Santa Fè ci sono tanti piemontesi e lombardi. Si chiamano campesinos hanno avuto la terra per pochi soldi e lavorano come muli. Alle volte hanno troppa terra e la lavorano male e il raccolto va in malora, alcuni che non hanno la famiglia si stancano e non ce la fanno vendono per comprare il biglietto di ritorno.

Ma se sono venuti con la famiglia resistono meglio e anche se ci manca la vita del paese, gli amici, la piola, la chiesa resistono e pensano che a tornare non ce la fanno più. La cosa più dura sono le distanze tra un podere e l’altro che non è come da noialtri che ci vedevamo e ci aiutavamo come vicini.

Sono entrato in una società di mutuo soccorso per aiutare quelli che trovano delle difficoltà e io sono nel comitato e mi piace andare alle riunioni dove si decide che cosa sembra meglio per tutti.

Per esempio voglio proporre la scuola per i nostri figli che non devono crescere più ignoranti dei cugini restati in Italia.

Sono contento che Giovanni cresce in una terra che promette bene e se studia può fare grandi cose.

Sulla parete della casa dove c’è la società di mutuo soccorso ho copiato che non sapevo scriverlo bene questa frase dove si dice cosa è questo posto per noi.

Dilatado, tendido, sin altos ni bajos, este es el suelo mio, este es mi campo. Es como a mi me gusta, verde, ancho, el sol por todo el, el agua a mano

 

E in italiano vuol dire

«Dilatata, distesa, senza alti né bassi, questa è la terra mia, la mia campagna. È come piace a me, verde, spaziosa, con il sole ovunque e acqua a volontà»

 

E mi viene un po di magone se penso a voi e ai vecchi ma mi sento anche parte di qui di questa gente che fatica sulla terra e io servo per riparare e vendere le macchine che li aiutano.

Penso che era questo che cercavo.

E tu cosa racconti?

Sei diventata mamma? Ruschi sempre?

Ciau, un bacio a tutti.

Tuo fratello Daniele

 

Torino, 1 maggio 1911

Caro Daniele,

allora sono diventata zia di Giovanni? Sono contenta per te e tua moglie che a messo la testa a posto.

Io sono grossa come una casa ma comprerò ai primi di giugno. Non sto a casa ma vado meno a lavorare, mi riposo ogni tanto.

Li vedi i giornali dell’Italia? Ti arriva la Domenica del Corriere?

Sai che a Torino cè l’Esposizione Universale? E tutta una festa e io nonostante la pancia andrei sempre a vedere tutte le cose che ci sono esposte. L’hanno fatto vicino al Valentino, al Ponte Isabella e ci sono tanti padiglioni di tutto il Mondo, il Ponte Monumentale le ferrovie sopraelevate. Sembra di entrare in una storia. All’inaugurazione c’era il Re Vittorio Emanuele III e tutti i caporioni anche stranieri.

Si intitola esposizione internazionale dell’industria e del lavoro. Il mio preferito è il Palazzo della cascata alla sera si accende di tutte le luci che illuminano le fontane. Uno spettacolo.

Sono andata con Carlo a vedere il padiglione dell’Argentina che è come un grande palazzo con le torri e dentro ci sono le foto delle terre, delle bestie e mi è venuto da piangere a pensare che tu vivi lì ma era come se eri tornato a casa per un po.

Torino è piena di gente per questa cosa e io ci vivo bene in mezzo a tutto questo movimento. Tutte le sere andrei a sentire i concerti e gli spettacoli che danno e non mi immagino come fai tu a vivere in mezzo al gnente.

Comunque non vado solo in giro per l’Esposizione tanto dura fino a novembre sto anche andando a scuola.

Mi sono fatta amica di una che abita sul balcone della casa che è una maestra e mi ha detto che sono troppo ignorante e devo aiutare Carlo a scrivere le lettere a fare di conto.

Mi a detto se siamo andati a scuola la domenica a San Secondo. Ci ho raccontato che il maestro Peyronel si faceva portare il sali per darci sulle gambe se non sapevamo le tabelline.

Lei dice che mi fa imparare a scrivere e mi farà il caffè.

Questa è l’ultima lettera analfabeta che ti scrivo poi sarò meglio.

Per ora ti lascio sono stanca e tutti sono a dormire

Ciau tua Lidia

 

CONSOLATO ITALIANO

Ufficio del Console Accreditato Comm. Attilio Bellora

Buenos Aires, 12 maggio 1911

Gent.mo Sig. Ferrero,

ho ricevuto la sua lettera in cui mi chiede informazioni riguardanti una famiglia di Saluzzo emigrata in Argentina e di cui ha perso le tracce.

A quanto mi dice, le lettere che lei ha indirizzato ai Signori Borno non hanno avuto risposta e non sono ritornate al mittente.

In Argentina non esiste il ritorno al mittente della posta che non ha trovato recapito. Comunque ho cercato nei nostri archivi le notizie che le stanno a cuore.

Per sua tranquillità la informo che la famiglia Borno non si trova più a Cordoba ma si è trasferita a Santa Fè, dove il capofamiglia, il sig. Antonio, ha rilevato un’attività di vendita e riparazione macchine agricole unitamente a un socio.

La Ditta Borno Y Pasquet, mi hanno riferito, è un punto di riferimento per i campesinos dei dintorni, anche perché il socio, il signor Daniel Pasquet, genero del Sig. Antonio e piemontese anche lui, è molto attivo nella locale società di mutuo soccorso. Queste società sono diventate delle realtà indispensabili nelle zone rurali, dove la lontananza dalle istituzioni, indispensabili per avere aiuti o informazioni, era la causa principale dell’abbandono delle campagne da parte di persone che avevano attraversato l’oceano per cercare fortuna qui.

Ho trovato la sua lettera al mio ritorno dall’Italia, dove ho presenziato all’inaugurazione del padiglione dell’Argentina all’Esposizione Universale di Torino: sono stato orgoglioso di rappresentare questa realtà fatta di uomini forti che portano l’impegno e l’intelligenza italiana nel nuovo mondo.

Resto a sua disposizione per ulteriori chiarimenti e le porgo i miei più cordiali saluti.

Attilio Bellora

 

Torino, 12 novembre 1911

Caro Fratello

purtroppo è capitato tutto il bello e il brutto e ti scrivo che sono disperata. Il 2 giugno è nato il mio Nicola, un bimbo bello come il sole. Piccolo era piccolo ma era tutto a posto e piangeva e andava tutto bene. Io ho patito molto il parto e poi non avevo latte così Carlo mi ha portata a San Secondo dove c’era Felicina, sai che veniva a scuola con noi quella che abita ai Brusiti che aveva avuto una figlia anche lei ed era piena di latte che lo perdeva dappertutto.

Alla fine ho consentito di darci Nicola a balia. Quando sono andata a casa sua non mi piaceva era tanto sporco e pieno di mosche ma la sua bambina cresceva bene  era vispa e con due pumin rossi che sembrava il fiore della salute.

Da principio Nicola si è attaccato bene mangiava e dormiva e io sono tornata a Torino. Non so se questa mostra ha dato una mossa al lavoro fatto sta che non avevamo mai avuto tanti ordini come allora. Non si teneva buono, facevamo tutti gli straordinari e la domenica prendevo il treno e andavo a vedere il mio bambino.

Cresceva poco ma era vivace e mi sorrideva quando mi vedeva. A settembre a cominciato a stare male, vomitava sempre e io sono andata a casa a San Secondo per stargli vicino ma poi è venuta una febbre forte e mi è morto fra le braccia.

Sono stata un giorno che non volevo lasciarlo andare via, era freddo ma io cercavo di scaldarlo. Poi lo abbiamo sotterrato al camposanto vicino a nonna Luigia. Non sono più riuscita a tornare a Torino per tanti giorni e Carlo veniva la domenica e mi diceva di tornare a casa.  Avevo lasciato la culla pronta e non potevo vederla vuota così Carlo ce l’ha data a Tonia.

Sono tornata a Torino ai morti e lavoro tutto il giorno ma non sono più io. Le donne cercano di parlarmi di svagarmi ma io non ce la faccio e non so se ritornerò come prima.

Carlo dice che avremo un altro figlio ma io non voglio nemmeno sentirlo. Spero Giovanni cresca bene e che state tutti bene.

Ti abbraccio. Lidia

 

2. LA GRANDE GUERRA
 

Santa Fè, 15 giugno 1915
Cara Lidia,
come state? Cosa succede là in Italia? Sono preoccupato per voi che dovrete affrontare la guerra e io penso cosa faccio qui?
Tuo marito è richiamato al fronte? E Vittorio e Cesare sono partiti?
Qui facciamo delle riunioni al mutuo soccorso e l’argomento è sempre quello che succede là dove abbiamo lasciato i parenti e dove siamo nati. Tutti portano le notizie che ricevono dall’Italia e qualcuno sta scegliendo di tornare a combattere forse sono gente che qui non si è ambientata e non ha famiglia. So che a Buenos Aires fanno delle grandi propagande per tornare a dare una mano alla patria e ci sono bastimenti pronti a caricare questi che si fanno infiammare da quello che leggono e da quello che ci raccontano i parenti a casa. Si è messa anche la crisi sui prodotti agricoli che a fatto calare il lavoro e qualche campesino non sa più come andare avanti.
Ma io non posso tornare e credo che tu lo capisca bene non perché non sono italiano ma qui ho la famiglia da mandare avanti che Antonio è invecchiato e sta sempre peggio con la sua asma e quasi non lavora più.
Quando porto a casa i giornali dall’Italia vedo Dina che si fa pallida e so che pensa a Saluzzo ai suoi cugini che ce l’hanno l’età per andare soldati.
Per fortuna Giovanni e Nicolas sono dei bambini che ci danno tante soddisfazioni uno ha quattro anni ed e un furbo chiacchierone spero che mi aiuta per il lavoro, Nicolas ha fatto due anni a gennaio e ci assomiglia tanto a Dina.

Quando torno a casa la sera stanco e pieno di preoccupazioni e loro si arrampicano sulle ginocchia trovo la contentezza. Scusa questo non dovevo dirlo a te che ai perso il tuo ma so quanto sei buona.
Spero che i miei figli possano vivere senza la guerra e lavorare e guadagnarsi il pane e questo paese non faccia come l’Italia che si fa tirare in cose più grandi di lei.
Fammi sapere, dammi notizie di tutti e a te
Un bacio tuo fratello Daniele


Torino, 1 settembre 1915
Caro Daniele,
non pensare che ti giudico male perché non ritorni a fare la guerra. Stai lì con la tua famiglia che qui siamo caduti come pere cotte in questa grande tragedia.

I giornali dicevano che Torino non era per fare la guerra, anche il Sindaco Teofilo Rossi era contrario ma certo non si può staccare Torino dal resto del paese che non ragiona. Qui c’era il lavoro, l’industria delle macchine, la Fiat. Tanta gente era venuta dal Sud a lavorare e ora buttiamo in aria tutto e mandiamo i giovani a morire. Carlo è stato arruolato in fanteria e ora è nel quarto reggimento Fanteria Piemonte che si trova in Carnia.
Mi scrive e la censura cancella le righe che non vuole che legga. Gli ho mandato un pacco di maglie di lana e calze, ho cercato sull’atlante e ho visto che è in montagna e là fra poco farà freddo.
Qui siamo rimaste solo le donne. Alla mattina apro la boita e siamo tre o alle volte quattro ma il pomeriggio chiudiamo presto. Farò un poco di scorta e poi chiuderò perché non ci ho più i soldi per pagare le operaie e poi a chi li vendo i pennelli?
A San Secondo è partito Vittorio negli Alpini gruppo artiglieria di montagna e povero diavolo ha combattuto sul Monte Nero una battaglia che se non ci ha lasciato la pelle è un miracolo.

Scrive a casa ma lui non si lamenta perché è uno che non vuole fare impensierire chi è rimasto, ma io ho letto che la guerra da quelle parti è dura, guerra di trincea e di assalti su dei terreni scoperti che gli austriaci ti sparano come ai conigli selvatici.
Qui per comprare da mangiare è un problema e meno male che a casa a San Secondo mi danno delle uova, del latte.

Cesare sta facendo tutti i lavori della campagna io l’ho aiutato a vendemmiare con le altre donne, ma non cantavamo eravamo tristi. Tutti avevano gente al fronte, qualcuno già dei morti. Sono tanto sola e la notte ho paura e quando arriva il postino ho paura che mi porta brutte notizie.
Vado sempre dalla maestra quella del balcone, ma dice che non ci ho la testa, che devo imparare a scrivere bene per quando rispondo a Carlo che lui è più istruito di me.
Speriamo la guerra non duri troppo e che i nostri tornino a casa, ma non solo i nostri anche quelli degli altri.
Ciau, Lidia

Cittadella, 15 dicembre 1915
Cara Lidia,
ti ringrazio del pacco che mi è arrivato con le maglie e le buone cose da mangiare.
Ci hanno spostato qui a Cittadella che si trova tra Padova e Vicenza in un territorio pianeggiante, ma da qui si vedono già le pendici del Monte Grappa, ed è lassù che dovremo salire nei prossimi giorni. Ora che siamo qui in una caserma ci godiamo dei letti anche se un po’ pulciosi e un rancio passabile prima di ritornare a fare i topi in trincea.
Inutile dire che la torta di meliga, il salame e le mele sono già finiti non solo ingoiati dalla mia fame arretrata, ma anche da quella dei miei compagni meno fortunati che non hanno una moglie che può rendere una giornata meno triste.
Ti penso sola a Torino, chiudi la boita e vai dai tuoi a San Secondo, almeno stai in compagnia e in campagna è meno problematico trovare del cibo.
Mi sono fatto degli amici, io che non sono tanto di compagnia, ma qui si è uniti dalla paura, dalla nostalgia di casa, dalla voglia che finisca presto questa guerra che vogliono quelli che stanno al caldo e sono ben nutriti.
Siamo stati tutta l’estate su al Pal Piccolo che è alto 1800 metri ed è una montagna ripida e battuta dal vento al confine tra Italia e Impero Asburgico. C’era sempre un gran rumore e i colpi della mitragliatrice erano un sottofondo costante. Ora mi riposo le orecchie.

Ma di notte sogno di essere là a fare il turno di guardia, tra i camminamenti a controllare il fronte nemico che a volte era a solo poche centinaia di metri. Mi accendevo una sigaretta per scaldarmi e mi pareva di vedere, al di là del fronte, una luce rossa, segno che un uomo come me, stava facendo la stessa cosa, stringendo il fucile, battendo i piedi per il freddo.
Mi hanno raccontato che sul Pal Grande c’erano dei sentieri battuti anche da donne: “le portatrici carniche” che portavano gerle con viveri e munizioni e tenevano i collegamenti fra le varie trincee.
Devono essere toste le donne di qui, conoscono le montagne come le loro tasche e mi dicono bevono cicchetti di grappa come gli uomini.
Il tenente Ferrucci, un friulano, ci ha portato della grappa che era la fine del mondo. Ci servirà là sulla montagna che porta il suo nome.
Non avere paura per me, cercherò di essere prudente e di portare la pellaccia a casa.
Ora ti lascio, domattina dobbiamo partire presto per una ricognizione.
So che sei forte e questo brutto periodo speriamo passi presto e torniamo a casa, vincitori o vinti non importa. Ma vivi.
Ti abbraccio forte, tuo marito Carlo


Canale d’Isonzo, 27 dicembre 1915
Cara Laura,
ti sto scrivendo mentre sta nevicando alla grande. Siamo qui al Castello di Canale d’Isonzo, adattato a caserma, dopo le battaglie che ci hanno visto sulle rive di questo fiume per lungo tempo a strappare al nemico ogni lembo di terra.
Sarebbero posti splendidi, Laura, in tempo di pace.

Se sopravvivo, mi riprometto di tornarci su queste sponde, alla fortezza di Gradisca, al Castello di Duino.
Nella mia posizione di ufficiale mi sento un privilegiato, la mia stanza si affaccia su un pendio che costeggia il fiume. Apro la finestra e sento il rumore dell’acqua che in alcuni punti è ghiacciata. Prendo il violino, suono e una gran pace mi scende nell’animo. Sconfiggo il nemico e la paura con la musica che sempre mi ha accompagnato e sorretto nella vita.
Il Generale Fantoni, a cui sono sottoposto, è un grande amante della musica e, da quando ha scoperto la mia passione e professione, non mi dà pace.
Ieri è successo un fatto che non dimenticherò mai. Era una giornata tranquilla, anche il nemico si era presa una pausa e il generale mi ha convocato dicendo di prepararmi e di portare con me il violino.
Con un mezzo militare abbiamo viaggiato per una strada che, lasciandosi alle spalle il fiume, si dirigeva verso Trieste. Alle mie domande, Fantoni sorrideva sornione e scuoteva il capo.
A un certo punto la strada costeggiava il mare e, pur nella curiosità, mi godevo il viaggio inaspettato.
Siamo arrivati in un punto della costa molto panoramico, dove si vedeva in lontananza un castello bellissimo che ricordava, nella struttura, quello di Miramare.
Siamo entrati in un ampio cortile e da qui, per una ripida scalinata, al salone del castello.
L’interno era arredato come una dimora regale, sale con caminetti di marmo, tappeti, consolle, suppellettili, quadri e arazzi a profusione.
Sono stato presentato al padrone di casa “il duca Alessandro di Duino” ultimo discendente dei della Torre di Valsassina.
A dire il vero non sapevo chi fosse costui, ma i quadri alle pareti, in cui era ritratto accanto al Re Vittorio Emanuele, parlavano per lui.
Da un gruppo di invitati si è staccato un uomo per venire verso di noi: non credevo ai miei occhi, nientemeno che il maestro Toscanini in persona!
Non avevo parole, ma per fortuna il padrone di casa, dopo le presentazioni, mi ha scortato verso un gruppo di musicisti e qui, sotto la direzione del maestro, non sono più state necessarie le parole.
Dalle finestre del castello, si vedeva il mare e la nostra musica aveva cancellato il tempo, la guerra, tutto.
Mi hanno poi spiegato cosa ci faceva lì Arturo Toscanini: era stato invitato dal generale Capello al Comando della II Armata, per un progetto musicale a favore delle truppe e lui aveva chiesto di salire sul Monte Santo.
Qui era rimasto per quattro giorni, accanto ai soldati, condividendo ogni istante della giornata. Ma Toscanini non aveva ancora finito di stupire gli increduli soldati…

Incontrata una fanfara, seguendo il suo istinto, "ne aveva preso d’autorità la direzione e al tramonto, dalla vetta, aveva riversato le note della Marcia Reale e di Fratelli d’Italia sugli austriaci che erano appena stati sloggiati dalla loro postazione”. I quali austriaci non l’hanno presa bene, a quanto riferiscono le fonti, perché hanno risposto con un altrettanto patriottico concerto di artiglieria.
Sono tornato alla sera, esausto ma felice, come non ricordavo da molto tempo.
Mi rendo conto che ti avrò già annoiata con questa lunga lettera.

Ho parlato solo di me, ma spero che a Saluzzo la guerra non sia tanto dura, che voi stiate bene, e i miei nipoti crescano e non mi dimentichino.
Ti abbraccio forte
Tuo fratello Mario
 

Torino, 26 marzo 1916
Caro marito mio,
non ho più ricevuto tue notizie e ogni giorno aspetto la posta con tanta pena. Alla sera vado dalla vicina, la maestra, e insieme guardiamo i giornali, seguiamo le battaglie che dicono sono sempre più difficili contro quei bastardi di crucchi.
Dicono che c’è tanta neve lassù dove ti penso e non so come fai a non congelare. Qui a Torino è arrivata la primavera, i viali sono fioriti ma non fanno allegria. Sono stata quasi un mese a San Secondo, ma non mi sono trovata, ora che in casa ci sono le mogli di Vittorio e Cesare, mi sento d’imbarazzo.
Avrei voluto aiutarli nella campagna: c’era da potare le viti, mungere le vacche, dar da mangiare ai maiali, e come facevo io non andava mai bene, mi chiamavano la “signora” e questo mi faceva dispiacere.

So che ai nostri vecchi ci facevo piacere a essere lì, ma quando ci mettevamo a tavola mi sentivo una bocca che non avevano voglia di sfamare.
Sono tornata a Torino, non sapevo cosa fare ora che ho chiuso la boita. Ho saputo che cercavano mano d’opera alla Pirelli, dove fanno le maschere antigas. Mi hanno presa subito, avevano di bisogno e faccio otto ore al giorno in un capannone vicino a Porta Susa.
Da principio mi faceva impressione assemblare quelle maschere con quegli occhiali e quei serbatoi sotto il naso. Pensavo, mentre lavoravo, che ti potevano servire, potevi usarla per respirare e tornare a casa.
Domenica ho passeggiato lungo il Po che era grosso per le forti piogge e penso a quando tornerai a casa, a come sarà, dopo tutto questo, se la vita potrà essere come prima.
Ieri notte ho sognato che ti mandavano in licenza, bussavi ai vetri e io ero lì che facevo cena e tu avevi fame ma io avevo solo pane e latte.
Ma ti bastava lo stesso mi hai detto, e hai mangiato anche la mia parte ma dalla contentezza mi era passata la fame.
Scrivimi, dimmi che stai bene.
Ciao, ti bacio forte. Lidia

Ospedale Militare di Arta Terme, 12 aprile 1916
Cara Lidia,
spero che non ti spaventi a ricevere una busta dall’Ospedale militare, sono qui ricoverato da circa un mese, ma il peggio è passato e sono in via di guarigione. Sono in questo grande albergo di Arta Terme, dove è stato installato un ospedale militare e c’ è la Sede della Croce Rossa.
Non posso descriverti i particolari, è proibito, ma durante un assalto è scoppiata una granata che mi ha colpito ferendomi alla gamba destra.
I compagni che erano con me sono morti tutti. È un miracolo, così ha detto il medico, che l’esplosione mi abbia risparmiato la vita e la gamba. Il trasporto dalla trincea dove eravamo noi è stato lungo e ho perso tanto sangue, ma i medici e le infermiere mi hanno curato bene. Forse zoppicherò un po’, ma con il tempo dovrei guarire del tutto.
Sono qui nel giardino a godermi il sole e gli alberi fioriti e ringrazio Dio di poterti scrivere e rassicurare, ma non posso fare a meno di pensare ai miei compagni: a Sandro, al Rosso, a Giovanni… mi rendo conto solo ora di quanto ci si possa sentire uniti ai compagni con cui ogni giorno si condivide la vita di trincea.
Non ho più ricevuto le tue lettere, ma mi dicono che è normale, i collegamenti sono difficili anche per la posta. Ti spero bene, a casa o dai tuoi, almeno sei al sicuro. Qui dove mi trovo era il grande albergo Savoia, penso ci venisse gente altolocata: ci sono stanze imponenti, grandi lampadari, soffitti dipinti. Le Dame della Croce Rossa sono molto brave, fanno turni estenuanti, eppure sono allegre e le più giovani scherzano, fanno ricordare i bei tempi. Ho avuto come vicino di stanza nientemeno che un poeta, un certo Fausto Maria Martini, un volontario che è stato ferito gravemente alla testa, proprio dove ero distaccato io. Ora che sta meglio è sempre circondato da persone che gli chiedono di declamare poesie, di leggere dei pezzi di un libro che sta scrivendo. Ieri, dopo che è ritornato in camera, mi sono accorto che un foglio gli era sfuggito ed era finito sul prato.

Mi è piaciuta questa poesia e te la mando. Ora sono stanco e rientro anch’io. (Vado a restituire la poesia)
Ti stringo forte, Carlo
 

Perché non t'uccisi:
Non per viltà - tu non l'avrai creduto, tu che la sera stessa, sotto un folle riso di stelle, fosti tra le zolle,
zolla di grumi, fatto inerte e muto
non per viltà mancai la giusta impresa di trapassarti il cuore: fu perché
sullo sfondo inumano, vidi te
così biondo, te, dalla faccia accesa
d'un rossor di fanciullo, avido, anelo, con l'empito del correre nel petto, umana assurdità sul parapetto
della trincea, con due gocce di cielo
per occhi (non più scorderò quegli occhi che predaron la mia trafitta fronte!) [...]
Non t'uccisi perchè nella stess'ora
noi ci eravamo sporti sopra il fondo gorgo del nulla, o sconosciuto e biondo nemico, insieme, e, quello che scolora
nel ricordo, tuo viso, somigliava
già questo mio, più macilento e vecchio, (o l'aria di nessuno era uno specchio, non anche frantumato dalla lava
delle granate?) insieme sulla morte noi, vivi, ci sporgemmo, e tu fanciullo m'apparisti qual io m'ero: un trastullo inconscio nelle mani della sorte
eguale, trascinato dal fluire.


Innsbruck, 28 maggio 1916
Cara Laura,
ti mando questa lettera che, partendo da una posta non militare, non sarà soggetta a censura.
Ti chiederai cosa ci faccio a Innsbruck. Ero pronto con il mio reggimento a partire per l’altopiano di Asiago, quando il generale di cui ti ho già parlato mi ha convocato per partecipare a una spedizione segreta. A Innsbruck, il 25 maggio, si sarebbe svolto il “Promenadenkonzerte”, un appuntamento con la musica, che stranamente non è stato cancellato dalla guerra. Ho lasciato la divisa per indossare abiti borghesi, sono ritornato a essere, per poco, un musicista, che munito di regolare invito di partecipazione alla kermesse musicale, portava con sé “la legittima consorte”.
Ho conosciuto “mia moglie” alla stazione di Bassano del Grappa. Una giovane minuta, con grandi occhi scuri.
Le informazioni ricevute sul suo conto erano molto scarse: Luisa Zeni, così si chiamava, doveva raggiungere Innsbruck e aveva bisogno di una copertura. Siamo scesi all’Union Hotel, dove, tra musicisti e ufficiali di stanza in città, sembrava di essere in una babele.
Ho suonato la Sinfonia concertante di Mozart ed è andato tutto bene. Il mio “matrimonio” è durato in tutto quattro giorni.
Abbiamo passeggiato per la città, cenato a lume di candela a beneficio di quelli che ci consideravano una coppia normale, cercato una sistemazione per lei dopo la mia partenza. In questi giorni mi ha raccontato a grandi linee la sua vita: nata in Trentino, ma di fede irredentista, si era proposta come volontaria nei servizi segreti.
Ci siamo salutati oggi alla stazione, mi sembrava sicura di sé e fiduciosa sul suo futuro.
Sto tornado a Bassano, alla guerra, che credimi, cara Laura, è ogni giorno più difficile e crudele. Sono venuto a conoscenza di punizioni molto diffuse nei vari battaglioni.

Luigi Cadorna infatti, sin dall'inizio della guerra, aveva ordinato la massima severità per il mantenimento della disciplina e il rispetto dell’autorità. Atteggiamento che, nel corso del conflitto, si è irrigidito sempre di più, assumendo spesso i contorni di una spietata crudeltà. I soldati che si rifiutano di uscire dalle trincee durante un assalto, ad esempio, possono essere colpiti alle spalle dai plotoni di carabinieri, mentre la censura in trincea diviene ogni giorno più oppressiva. Qualsiasi lettera scritta dai soldati non può contenere informazioni diverse da quelle pubblicate dai giornali italiani, e deve trasmettere entusiasmo per la guerra.
I soldati sono stanchi, pensano alle loro case, agli affetti che hanno lasciato e non ne possono più. Prego Dio di non trovarmi mai in una situazione in cui mi venga chiesto di applicare questa disciplina, perché a questo punto fuggirei, non avrei scelta.
Scusa il mio sfogo, ma l’occasione di scriverti senza censura era troppo forte.
Le tue lettere fiduciose e colme di normalità mi fanno bene al cuore.
Ti abbraccio, tuo fratello Mario


Santa Fè, 12 settembre 1916
Cara Lidia,

ho ricevuto la tua lettera dove mi dai le notizie di casa e di Carlo che la scampata bella.

Sono sempre più preoccupato per voi e mentre me ne sto qui a disfrutar la vida, vedo quello che dovete patire e me fa doler.
Sono stato a Buenos Aires per lavoro e ho visto al porto le navi pronte per riportare in Italia quelli che hanno deciso di tornare.
Uno di questi è un tale che ha fatto molta propaganda e si chiama Fausto Filzi. Era scappato dall’Italia per le sue idee politiche e qui lavorava come impiegato in una empresa. Quando ha saputo che il fratello è stato ucciso assieme al patriota Cesare Battisti, è tornato per combattere.
Dina riceve delle lettere da Saluzzo e si scrive con una cugina. Ieri ha ricevuto la notizia che uno sei suoi parenti è morto sul Carso. Stiamo vivendo un momento brutto anche noi, e non possiamo non pensare all’Italia.
Antonio, il padre di Dina, il mio socio, sta sempre peggio e io devo pensare a tutto, al lavoro e a quelli che lavorano per noi. Spero di leggere che questa guerra finisce presto e allora staremo più tranquilli.
Sai che mi fa fatica a scrivere in italiano? È un brutto segno? Non lo so. Ma mi corazon està con vosotros.
Ciao cara sorella, stai bene e abbraccia tutti per me
Daniele

3. CONTRASTI

Santa Fè, 12 marzo 1920
Cara Lidia,
è passato mucho tiempo da quando ci siamo sentiti. È stata anche mia la colpa per la mia rabbia contro i fratelli che non mi aspettavo questo comportamento. Ma io so che tu non centri con le loro manovre. Quando sono venuto qui ho detto che lasciavo la mia parte di terra perché potessero vivere meglio ma adesso che la spagnola si è portata via i nostri vecchi, quelli stavano sui carboni accesi perché avevano paura che cambiavo idea e volevo la mia parte.
Io sono di parola e mentre loro in tutti questi anni non si sono mai degnati di scrivere gnente, io ho dato le mie notizie a mezzo de ti e ci siamo sempre scritti e detto tutto.
Mi avessero scritto, se sanno scrivere oltre che fare la croce per la firma, e dirmi come la pensavano, mi sarebbe andato bene.
Invece si presenta quel guapito con tutte le carte e l’incarico per la mia rinuncia. Mi a fatto tristeza che io non tornerò forse mai più a San Secondo ma almeno dirmi: “Se vuoi tornare ci sarà sempre posto per te...” Anche per farci conoscere i miei figli mi avrebbe fatto piacere.
Non ho di bisogno di quella terra da fujot, se la tengano pure e ci facciano quel vino che sembra vinagre.
Bon, non ci voglio pensare più e spero la vita ti vada bene, che ci sia il lavoro per quella povera Italia che la guerra ha fatto tanti morti e ora deve ripartire.
Anche qui la spagnola è arrivata e ha fatto le sue vittime, sembrava passata e invece è stata più forte quando pensavamo di averla scampata. È morto Antonio e sua moglie non è morta di quello, ma si è lasciata andare e Dina ha sofferto tanto per la loro perdita.
Ora si sono fatti sentire i parenti di Saluzzo che sono muy educados dei nostri fratelli, hanno scritto per le terre e una casa che mio suocero aveva ancora in Italia.
Dina vuole tornare là e portarci Giovanni e Nicolas che ormai sono grandicelli e fare le cose necessarie con il notaio.
Io non posso tornare, non lascio il lavoro ora che ho quattro trabajadores e ne sono responsabile.
Mia moglie andrà da sua cugina Elsa ma voglio che ti conosca e anche quelli là con figli, i fratelli Caini che ho lasciato.
Fammi sapere se ti va bene, dammi notizie di tutto quello che succede
Ciau un abbraccio
Daniele

Torino, 3 maggio 1920
Caro Daniele,
Sono molto contenta che hai ripreso a scrivere, mi mancavano le tue lettere e sono tanto felice di sapere che tua moglie verrà in Italia.
Anche se andrà da sua cugina a Saluzzo, qui a casa mia c’è il posto per lei e per i tuoi figli. Non vedo l’ora di conoscerli.
Qui il paese si sta riprendendo, la guerra ha fatto tanti morti, ma ora la gente vuole dimenticare, il lavoro non manca e tutti cercano di farsi una posizione.
Torino è diventata una città piena di industrie e di lavoro.
Borgo San Paolo, la Barriera di Milano hanno accolto tante nuove famiglie che lavorano alla Fiat, all’Ansaldo, alla Lancia.
Ti piacerebbe vivere qui, forse tua moglie ti racconterà di quello che ti sei perso e ti verrà voglia di ritornare.
Anche la nostra boita va bene, ci siamo allargati e il lavoro non manca. Io sono sempre più impegnata, perché Carlo è cambiato, non è più lui.

La guerra non ha solo danneggiato il paese, ma ha distrutto qualcosa nell’anima degli uomini che l’hanno combattuta.
Di notte sento delle urla che mi svegliano di soprassalto e vedo mio marito che non riesce a respirare e si copre la faccia con le mani. Sogna sempre di quando era là in trincea, dei suoi compagni morti, della bomba che gli è caduta vicino. Ma, oltre a questo, da quando è tornato, mi accorgo che beve troppo. Dice che ha preso l’abitudine là, per ripararsi dal freddo, a bere grappa e liquori.

Anche Vittorio è tornato malandato: quando vado a San Secondo Fanny si lamenta, lo sgrida, ma anche lui ha lo stesso vizio di Carlo.

Vicino a casa nostra ci sono tante osterie e mio marito le frequenta tutte. Quando non lo trovo al lavoro, è là che lo vado a prendere per portarlo a casa.

Dei giorni va bene e lavora, riceve i fornitori e va dai clienti, ma poi basta che incontri uno che gli offre di bere ed è finita.
Meno male che sono stata una brava scolara con la maestra, la mia vicina, perché ora mi occupo dei conti, della corrispondenza. Ogni tanto la faccio controllare a Lucia, ma lei sorride e dice che sono quasi a posto. Anche a te, che scrivevi già male ma ora ci metti pure lo spagnolo, ti correggerò, vedrai.
Voglio portare Dina a San Secondo a vedere i posti da dove sei partito, Vittorio ha un figlio, ora, e i tuoi potranno conoscere il cugino.
Si è fatto tardi e vedo che Carlo non torna, spero sia solo andato a giocare alle bocce, gli vado incontro.
Ti abbraccio, Lidia

Saluzzo, 12 agosto 1920
Caro Daniele,
sono arrivata a Genova il 1 agosto, il viaggio è stato bello con mare calmo, buona compagnia per me e per i ragazzi.
Il bastimento Excelsior era grande come una città e non ci è bastata la lunga permanenza a bordo per vederlo tutto.

I ragazzi hanno conosciuto dei coetanei con cui hanno fatto amicizia e ogni giorno era un’occasione buona per inventare nuovi giochi e farsi ricevere dal comandante che, giovane e gentile, li accoglieva per mostrar loro la sala macchine, i radar e gli strumenti di bordo.
Ho conosciuto una signora di Genova, una cantante d’opera che si esibiva nelle serate di gala, abbiamo fatto amicizia e mi ha invitata al Teatro Carlo Felice di Genova, dove si esibirà a breve.
Da Genova abbiamo preso il treno e alla stazione di Saluzzo ci aspettava Elsa con tutta la famiglia.
Tutto qui mi sembra piccolo, raccolto e bello come una miniatura. Erano dodici anni che vedevo campagne senza fine.

Mi piacciono i piccoli poderi, gli appezzamenti agricoli delimitati da piante di rose, gli animali che pascolano ma che puoi contare.

Ho ritrovato la città vecchia che s’inerpica con il suo acciottolato fino alla Castiglia, non sai come mi sento felice negli spazi delimitati da antiche mura, campanili, piccoli cortili.
Anche Torino è stata una sorpresa: non ci ero mai stata prima di partire con la mia famiglia.

Lidia è una donna molto simpatica, ci siamo piaciute subito, a pelle. È decisa e si vede chi in casa porta i pantaloni.

Ci ha portati in giro per la città, sui tram, sul battello del Po, al Valentino e Superga. È una città bellissima e vivace.

Giovanni è preso dalle automobili che vede passare, e mi ha detto di dirti che vuole restare qui e lavorare alla Lancia.
A Nicolas invece piace seguire Carlo nel laboratorio e guardarlo lavorare mentre confeziona i pennelli.
A Torino siamo stati tre giorni, la casa di Lidia è un porto di mare. Amiche che abitano accanto a lei sui lunghi balconi ci hanno invitate a prendere caffè e mangiare deliziosi dolci al cioccolato.
Siamo rientrati a Saluzzo ieri e domani ho appuntamento con il notaio.
Spero tu stia bene e non lavori troppo.

Qui è estate e fa molto caldo, Lidia ci vuole portare a San Secondo a conoscere i tuoi fratelli.
Ho un sacco di bei programmi, come vedi, e voglio godermeli tutti.
Ciao, stai bene, ti abbraccio
Dina

Saluzzo, 18 agosto 1920
Ti sto scrivendo in preda ad una crisi di nervi, di rabbia e di disgusto.
Come avete potuto tu e mio padre farmi questo? Perché avete deciso della mia vita come dei padreterni? Con mio padre non posso più arrabbiarmi, ma posso prendermela con te.
Ieri, mentre tornavo dal notaio per le ultime firme, l’ho incontrato. Tu sai chi.
Sai che quando ti ho conosciuto ero fidanzata, e Mario doveva raggiungermi là, dove mio padre mi aveva obbligato a seguirlo.
Quando mi ha vista, mi è venuto incontro e mi ha detto una sola parola: “Perché?” Io avrei voluto fargli la stessa domanda.

Avevamo solo domande e ci siamo dati, parlando, delle risposte.
Lui era pronto a partire, a raggiungermi, e mi ha scritto, mi ha cercata anche attraverso il consolato. Ma io le sue lettere non le ho mai ricevute. Qualcuno le ha intercettate e fatte sparire!

Quando ci siamo trasferiti da Cordoba a Santa Fè, mio padre aveva comunque un contatto che gli indirizzava la posta che arrivava là.
Chi ha deciso e manovrato il mio destino?

Lui non si è sposato, non ha potuto dimenticarmi, ed io ho capito ora come la mia vita avrebbe potuto essere diversa.
Non tornerò in Argentina, sappilo.

Ti lascio. Ho deciso che voglio vivere la vita che mi avete rubato.
Non ho firmato per vendere la parte di mio padre, terrò qualcosa per me, per vivere qui, dov’ero destinata.
Dina

Genova,15 dicembre 1920
Caro Mario,
quando riceverai questa lettera, sarò già lontana dall’Italia: domani mattina partiremo alla volta di Buenos Aires.
Sono qui in albergo e ti scrivo guardando il mare e le navi ancorate.
Sono scappata come una ladra senza affrontarti, perché ero certa che di fronte ai tuoi argomenti e al tuo amore avrei ceduto, e non potevo permettermelo.
Non ho aspettato il tuo ritorno da Milano, anzi ho approfittato della tua assenza per fare quello di cui mi sentivo incapace.
Penso a quando ti ho incontrato, al mio ritorno a Saluzzo, alla scoperta di come siamo stati vittime di chi aveva manovrato i nostri destini e alla passione che è riaffiorata più forte di prima. Abbiamo passato giorni meravigliosi, ci siamo ripresi un pezzo di vita che ci era stato sottratto e di cui avevamo il diritto di godere.
Ho sognato, di fronte alle stanze vuote che mi ero riservata dalla vendita dei beni di mio padre, di poterle riempire non solo di mobili e suppellettili, ma d’amore, nostro e dei miei figli, che sarebbero stati anche i tuoi. Il fatto che tu avessi legato tanto con loro, come fossero contenti di ascoltarti parlare, suonare, mi aveva dato l’illusione di una vita possibile. Mi vedevo percorrere al tuo braccio le strade della mia gioventù, godere dei tuoi successi musicali, vivere in un contesto che amo, anche se il pensiero di Daniele e della sua sofferenza era un punteruolo che scalfiva la mia felicità.
Mia cognata Lidia ha giocato tutte le sue carte nel convincermi a tornare da mio marito. Daniele certo l’aveva implorata di farlo.

Poi, da donna intelligente, come la reputo, ha lasciato a me la decisione. È stato giovedì scorso: eravamo da lei a Torino e i ragazzi erano con Carlo nel laboratorio a guardarlo lavorare.
Giovanni si è messo a raccontare di suo padre, del lavoro che avrebbe fatto anche lui e di come non vedesse l’ora d’imparare.

Nicolas, invece, gli raccontava degli animali, dei cavalli che avrebbe allevato. Esprimevano un amore così assoluto per la terra in cui sono nati, che mi sono chiesta quale diritto avessi di allontanarli.
Mario, sappi che non tornerò più in Italia. Anche se le grandi praterie mi “stanno strette” e non ho l’amore dei mei figli e di mio marito per l’Argentina, il mio posto è là.
Ci sono persone che vivono insieme lunghi anni, trascinando amori spenti, noi abbiamo vissuto in poco tempo un amore assoluto.
Consideriamolo un privilegio che ci aiuterà ad affrontare il futuro.

Stringo fra le dita il medaglione che mi hai messo al collo, pegno del tuo amore. Lo stringerò ogni volta che ti penserò.
Non ti dimenticherò mai e ti amerò per sempre
Dina
 

Santa Fè, 1 febbraio 1921

Cara Lidia,
dopo il telegramma che ti avvisavo dell’arrivo di Dina ti scrivo per ringraziarte ancora per quello che hai fatto.
Quando ho saputo che tornavano mi si è allargato il cuore. Sono andato a prenderli a Buenos Aires e i miei figli mi sono saltati al collo e tutta la mia sofferenza è desaparesida di colpo.
Nei primi giorni Dina era strana, melanconica. Ci siamo parlati, spiegati e poi passando i giorni abbiamo ripreso la nostra vita.
Forse è stato un bene questo dolore, perché è meglio affrontare i fantasmi.
Mi ha detto di aver fatto tutto con il notaio, non c’è più nulla dei Borno a Saluzzo. La nostra vita è qui.
Ti devo dare una bella notizia: Dina aspetta un bambino.

È stata una sorpresa anche per me, non pensavamo di avere altri figli. Ma è successo e io sono lleno de alegria che la nostra famiglia si ingrandisce. Ci sarà un posto speciale per questo figlio o figlia.
Mi ha raccontato di te e di Carlo, di come siete stati gentili con lei e i nostri ragazzi. Giovanni e Nicolas mi hanno detto della città, delle auto, di tutte le novità che hanno visto, ma poi sono stati ripresi dalle loro abitudini. Ora vanno a cavallo e corrono come matti. Sono felici e questo è quello che conta.
Sono certo che senza il tuo aiuto Dina non sarebbe tornata e te debo la mia felicità di oggi.
Ciao sorella che diventerai zia un’altra volta,
Daniele
 

Saluzzo, 23 dicembre 1920
Gent.ma Sig.ra Lidia,
le sembrerà strano ricevere posta da me, ma ho cercato il suo recapito e con questo scritto voglio farle sapere il mio pensiero.
Quando ci siamo incontrati al Regio di Torino, a ottobre, dopo i convenevoli iniziali, lei ha capito benissimo che io in realtà non ero l’amico d’infanzia che Dina le ha presentato.

Lei ha percepito il legame che c’era tra noi e so che ha fatto di tutto per “far ragionare” Dina: me l’ha confessato lei stessa nella lettera che ho ricevuto dopo la sua partenza.
Non posso darle torto, Daniele è suo fratello e lei vuole il bene della famiglia. Lei pensa di aver raggiunto il suo scopo, perché la famiglia si è riunita e tutti i tasselli sono tornati al loro posto.

Ma ha sottovalutato il rapporto tra Dina e me, frutto lei crede di un amore giovanile osteggiato, che ha vissuto, in questo autunno che ci ha riunito, i suoi ultimi bagliori.

Non è così, cara signora. Se in passato la gioventù mi ha visto indeciso, soggetto e sopraffatto dal volere altrui, gli anni di oggi, la guerra, hanno fatto di me un uomo deciso a prendersi quello che ama.
Le giuro che questa volta l’oceano non mi spaventerà e andrò a prendere quello che è mio.

Non importa quando e come, ma lei non ha vinto, se ne faccia una ragione!
Mario


Studio Notarile SANDRO OCCELLI - Saluzzo

Saluzzo, 12 gennaio 1921

Caro Mario,
nonostante questa sia una lettera ufficiale, a cui allegherò i documenti relativi alla successione dei beni dei defunti Giorgio e Laura Corgnati e l’atto con cui acquisirai la funzione di “tutore” di Maria Grazia e Sergio loro figli, è in veste di amico che ti mando questa mia.
Caro Mario, è stato un grande dolore per tutta la comunità, e mio in particolare, assistere alla grave perdita che avete avuto tu e i tuoi nipoti. Giorgio era per me un amico carissimo e Laura, tua sorella, una persona amabile, con cui la mia famiglia ha trascorso momenti indimenticabili.
Come sia potuta succedere una tragedia così, è ancora inspiegabile.

La Fiat 529, di cui tuo cognato era fiero, e di cui era un guidatore esperto, non ha avuto, secondo le perizie, alcun guasto: l’accaduto non è imputabile al mezzo, ma a un malore, che ha fatto perdere il controllo dell’auto a Giorgio, facendola precipitare nella scarpata.
Ho visto i tuoi nipoti: Maria Grazia, in particolare, mi preoccupa molto. Il suo mutismo, quella mancanza di pianto, denotano un dolore profondo che non trova sfogo. Sono certo, però, che saprai prendertene cura: il tuo affetto saprà guidare i due orfani verso un futuro in cui vivere serenamente la loro vita.
Caro Mario, il destino finora non ti aveva dato una famiglia e ora l’hai trovata… Auguro a te e a loro di trovare pace.

Sandro
 

4.  DITTATURE

Pinerolo, 10 settembre 1927

Caro Daniele,

Ti spero bene come la tua bella famiglia. Ti scrivo da Pinerolo, dove mi sono trasferita quest’estate per sfuggire al caldo torrido di Torino. Abbiamo comprato una casa in mezzo al verde, non lontano dalla stazione. Ci sono alcune case come la nostra e campi infiniti. Questa è a due piani, molto spaziosa con un cortile e un giardino, dove ho piantato fiori a profusione.  Ho avuto un’occasione, il proprietario era morto da poco e i figli me l’hanno venduta subito, non me la sono fatta sfuggire per portare Carlo via da Torino, dove l’aria è malsana. Lui non sta bene, lo vedo deperire, quindi mi dispero, poi riprendersi e aver voglia di fare, ieri per esempio ha costruito una “topia” nel cortile per poter mangiare fuori su un tavolo con due sedili di pietra. Era tutto contento: vuole farci scorrere una vite di uva americana per ripararci dal sole. Faceva progetti per il futuro ed io ero felice.

Ho lasciato il lavoro a malincuore, ma il cognato di Carlo, Nicola, è una persona fidata, che ha preso le redini del laboratorio in questo difficile momento.

Carlo non è più stato lo stesso dal ritorno della guerra. Ha passato momenti difficili, è stato ferito, ma su quei monti, in quelle trincee, ha preso il vizio del bere che prima non aveva.

Non so se era lo stesso esercito a passare grappa o altre bevande per renderli in grado di sopportare la carneficina che avevano intorno.

Dopo il congedo anche a casa ha continuato: le “piole” erano i suoi posti preferiti. Non c’è più stato interesse per il teatro o per altre cose che prima ci piacevano tanto.

Ho passato anni difficili e tristi: spesso non lo vedevo rincasare e dovevo andare a riprenderlo in qualche bar. L’indomani al risveglio mi chiedeva scusa e mi prometteva di smettere di bere.

Ora qui ha poche tentazioni, lo accompagno fuori a camminare e gli sto accanto. Non gli permetto di andare alla stazione dove c’è un bar senza di me.

Qualche volta andiamo a San Secondo, dove adesso ci sono tanti bambini: tre di Vittorio e una di Cesare. Qualche volta lo sorprendo a guardarli con occhi tristi e penso anch’io, come lui, a nostro figlio, a come sarebbe stata la nostra vita con lui.

Penso che rimarrò qui fino ai primi freddi, così che possa godere di queste giornate. Poi si vedrà. Se necessario, per il suo bene, potremo stare qui e vendere il laboratorio.

Stai bene, caro Daniele, e pensa che qui la casa è grande, puoi venirci quando vuoi, se ti senti di ritornare sui tuoi passi.

Un abbraccio, Lidia

 

Posadas, 15 ottobre 1927

Cara Lidia,

tu mi scrivi da Pinerolo e io dalla mia nuova abitazione, che si trova a circa 800 km. da Santa Fè. Questa lettera è scritta da mia moglie Dina.

Mi dispiace molto sentire dei problemi di tuo marito, che non ho mai conosciuto, ma di cui Dina ha un buon ricordo.

Credo anch’io che la guerra abbia lasciato tanti feriti nel corpo e nello spirito, perché è una cosa innaturale veder morire i compagni  che hai accanto. Spero si riprenda presto e sono contento di sapere che lo stai aiutando in tutti i modi e saresti disposta anche a rinunciare al lavoro per il suo bene.

Noi non ci siamo trasferiti volontariamente, ma siamo letteralmente scappati da Santa Fè, dopo l’incendio doloso appiccato alla mia casa e all’officina.

È successo una notte di due mesi fa. Per fortuna il nostro cane si è messo ad abbaiare e svegliandoci abbiamo visto dei bagliori e un gran fumo. Abbiamo perso tutto, ma abbiamo salva la vita.

Ti avevo parlato in passato della mia attività di mutuo soccorso per aiutare i contadini a far valere i loro diritti. Questo mio impegno era diventato sempre più importante e mal visto dai grandi latifondisti della zona.

Ultimamente mi sono esposto per un campesino molto sfortunato che, in seguito ad un grave incidente che l’aveva reso zoppo, temeva di perdere il suo campo, confinante con la proprietà di un allevatore molto potente. Avevo ricevuto delle minacce, ma sono andato avanti per la mia strada e mi hanno dato una lezione.

Sono capitato qui non a caso: ci ero venuto in passato per una fiera agricola, e questa città mi era piaciuta. Un amico che ha un’officina meccanica mi ha offerto un lavoro.

Qui non ci sono le distese a perdita d’occhio di Santa Fè, ma campi coltivati a tabacco e cereali.

C’è molto legname, che viene trasportato sul fiume. È un luogo di pace, ne avevamo bisogno. Ai ragazzi piace, anche se all’inizio erano spaventati e temevano che i responsabili dell’incendio ci avrebbero trovato.

Giovanni ora ha sedici anni e, mentre ha sempre detto di voler seguire il mio lavoro, ora ha deciso che entrerà in polizia. Non so se questa idea ce l’aveva già prima o è maturata dopo l’incidente. Qui c’è una scuola di polizia e si vuole iscrivere. Invece Nicolas, che ha tre anni di meno, vuole seguire le mie orme e ne sono felice. Spero di essere in grado di aiutarlo, perché non sono più in una posizione favorevole come prima, ma mi rifarò, te lo giuro, tornerò l’uomo forte che ero.

Il piccolo, invece, ha sei anni: è un bambino molto serio, a differenza dei fratelli che erano scalmanati, è tranquillo e felice con un libro.

Ti ho detto prima che la lettera era scritta da Dina: nell’incendio ho avuto delle profonde ferite alla mano destra e maneggiare una penna mi costa fatica. Ci hai guadagnato, non ci saranno errori.

Ti abbracciamo forte

Daniele e Dina

 

Torino, 20 novembre 1927

Caro Daniele,

purtroppo devo darti la triste notizia della morte di Carlo. Si è spento il 5 novembre, aveva solo trentanove anni.

Siamo ritornati a Torino ai primi di ottobre perché era sempre più debole e a Pinerolo non c’era un medico valido.

Quando siamo arrivati a Torino, ha cominciato ad avere la febbre e il suo medico gli ha diagnosticato una polmonite. Il fisico era troppo debilitato per reggere ancora e il medico non mi ha dato nessuna speranza. Ha trascorso gli ultimi giorni a letto, chiedendo sempre di andare in laboratorio a lavorare, mentre non si reggeva più in piedi.

Al funerale c’era tanta gente, tutti i vicini e gli amici di un tempo. La carrozza bardata di nero con i cavalli pure neri erano così tristi che non so come ho fatto a raggiungere il cimitero.

Ho trascorso a casa una settimana, poi non riuscivo più a restare così sola. Sono scesa al lavoro, le giornate scorrono più veloci e riesco a non pensare tanto. Nicola è ritornato al suo lavoro ma mi ha detto che è a disposizione, se in futuro avrò ancora bisogno di lui. Le operaie sono delle amiche e mi sono vicine. Alla sera risalgo le scale con una tristezza infinita: so che troverò la casa vuota, ho voglia che arrivi presto il mattino.

Sono rimasta allibita da quello che mi hai scritto e dal pericolo che hai corso. Spero che il luogo in cui ti trovi ora sia sicuro e possiate vivere bene e i tuoi figli possano avere un futuro.

La domenica qualche volta vado a Pinerolo e anche lì mi trovo sola in quella grande casa. Mi chiedo se avrò il coraggio di andarci a vivere quando sarò vecchia. Curo un po’ i miei fiori, taglio l’erba dietro la casa e ritorno a Torino. Questa è la mia vita.

Molte volte vado a San Secondo, dove trovo più compagnia.

Riguardati fratello e ti prego di abbracciare da parte mia Dina e i ragazzi. 

Lidia

 

Posadas, 20 dicembre

Cara Lidia,

Che dolore mi hai dato con la notizia della morte di Carlo. Ti penso sola a vivere e mandare avanti un’attività. Come farai? Non posso pensarti così disperata. Perché non mi raggiungi? Qui è un posto bellissimo, sei giovane, potresti farti una nuova vita.

Lasciati alle spalle l’Italia: i fratelli che sono quelli che sono, ormai hanno le loro famiglie, mentre qui avresti i miei figli che ti potrebbero aiutare ad andare avanti. Dina sarebbe felice di avere accanto una persona come te.

Domenica siamo stati a fare una gita alle cascate dell’Iguazu’. Dovresti vederle: un mondo d’acqua che cade e forma arcobaleni con i raggi del sole.

So che qui saresti felice, lasceresti in Italia le tue tristezze.

Pensaci, promettimelo.

A presto, tuo Daniele

 

Torino, 6 gennaio 1930

Caro Daniele,

è iniziato un nuovo anno e sono qui sola a festeggiarlo. Ho passato il Natale a San Secondo, dove la presenza dei bambini ha rallegrato la festa.

Vittorio ha un figlio di dieci anni, Luigi: un testone di quelli da prendere con le molle, poi c’è Ines che ha sei anni e Irma quattro. Invece Cesare ha Renata di cinque anni. Quando sono insieme fanno una bella cagnara…

Penso ai tuoi figli che ho visto piccoli e che ora saranno giovanotti.

Qui è caduta la neve e dalla finestra vedo sfilare ragazzini vestiti da Balilla e le bambine da piccole italiane. Sì, caro mio, Mussolini ha saputo prendere per il bavero i Savoia, ora comanda lui e non so dove ci porterà tutto questo nazionalismo.

Mio cognato Nicola ora lavora con me. Mi era stato di grande aiuto durante la malattia di Carlo. È una persona molto seria e le sue idee politiche di sinistra non gli permettono più di lavorare nella pubblica amministrazione senza avere la tessera del partito.

Ha visto i suoi colleghi e amici chinare la testa e fare buon viso a cattivo gioco. Se vuoi lavorare devi essere fascista. Io sono contenta della sua presenza perché sentivo troppa pressione con tutte le nuove regole sul lavoro. Per fortuna ora lavoriamo e speriamo che quel fanatico di Mussolini ci lasci vivere in pace.

E tu come stai?  Ho sentito al giornale radio che c’è sempre maretta in Argentina e si prevede un colpo stato. Penso che anche tu, con le tue idee politiche, ti trovi allo stretto in un paese così grande come quello in cui vivi. Avete terra, bestiame, agricoltura, industrie, non so perché al potere non potete mai avere degli uomini degni di governare.

Forse ci vorrebbe una donna, penserebbe solo al benessere, alla pace… come fanno le donne all’interno della famiglia. E pensare che non possiamo nemmeno votare. Per ora non mi dispiace perché la scelta è già bell’e fatta, ma forse ci sarà un tempo in cui anche le donne potranno dire qualcosa, e sarà una cosa buona e giusta.

Ti lascio, caro fratello, con l’augurio che questo anno ti porti salute e prosperità. Un abbraccio a Dina e ai tuoi figli,

Lidia

 

Posadas,  25 febbraio 1930

                                                                                                                                                                                                                                                   

Cara Lidia,

che bello avere tue notizie e sentire che a Torino nevica mentre mi asciugo il sudore dalla fronte… Sono contento che stai bene e ora non sei più sola a trabajar. Questo pensiero me consuela. So che sei una donna in gamba, ma non sei più giovanissima e avere un po' di problemi in meno ti farà bene.

Hai ragione, qui stiamo vivendo un momento difficile.
Agli inizi, quando sono arrivato, forse perché era joven e tutto sembrava facile, avevo una grande fiducia in questo paese che mi sembrava staccato dal vecchio mondo, non solo per i grandi spazi liberi, ma anche per le persone, per le possibilità di lavoro. Ora che gli anni sono passati e ho visto cambiare partiti, promesse di riforme mai avvenute, mi rendo conto di come la politica no piensa en la gente excepto en campañas electorales.

Certo, l’Argentina era un paese prospero, ma la grande Depressione partita dagli Stati Uniti si allarga nel mondo intero e non fa ben sperare. Non vorrei essere al posto del presidente Yrigoyen che cerca in tutti i modi di salvare la poltrona.

Io lavoro sempre con il mio amico Carlo, che si è rivelato tale nel momento del bisogno. Siamo soci e abbiamo molto lavoro, perché qui le macchine per il taglio e la raccolta del tabacco sono molte e richiedono sempre manutenzione. Così come le grandi attrezzature per il taglio del legno.
Giovanni ha seguito la strada che si era prefissato: entrare in polizia. Era un ragazzo timido, ma da quando fa questo lavoro è cambiato. È  diventato forte e sicuro di sé.

Per fortuna, Posadas no es una ciudad que tenga tantos problemas. Al massimo qualche rissa di ubriachi tra i lavoratori delle segherie al sabato sera, quando ricevono la paga.

Nicolas invece è entrato nell’azienda e ha preso da me: è un meccanico che ama imparare e far bene le cose.

Carlo, che non ha figli, dice che possiamo già affidargli la baracca e andare a pescare…

Antonio, che ora ha nove anni, è un intellettuale… non ha preso nulla da parte mia. Assomiglia a Dina, sempre immerso nella lettura. Fa parte del coro parrocchiale, ha una bella voce.
Dina fa la maestra, dice che ora che i figli sono più grandi deve pensare anche a sé stessa e questo lavoro le dà soddisfazione. Intentemos disfrutar de este tiempo de paz e spero che in Italia quel cretino non faccia passi falsi, perché quando uno così si monta la testa non si sa come va a finire.

Salutami tutta la marmaglia di San Secondo e un bacio ai nipoti che forse non vedrò mai.

A te un grande abbraccio

Daniele

 

Posadas, 8 settembre 1930

Cara Lidia,

da ieri un colpo di Stato ha rovesciato il governo e ora abbiamo al potere una dittatura militare. Hemos tenido momentos difíciles aquí en Argentina pero es la primera vez que el fascismo, que ustedes conocen bien en Europa, asoma aquí también. 

Hanno scomodato anche un poeta, un certo Lugones, per dargli il compito di scrivere il proclama rivoluzionario. E bravo Uriburu, un nome ostrogoto, che è stato nell’ombra tramando per sconvolgere la democrazia. È un tipo da cui non sappiamo cosa aspettarci.
Si pienso en cuando estuve involucrado en política y traté de hacer justicia para los más débiles, me parece que una vida ha pasado y que, lo mejor que he vivido, está muerto para siempre.

Ci sono molti disordini che la polizia deve reprimere e ho paura per Giovanni e per la sua posizione. Suo fratello Nicolas gli dice che non poteva prendere una strada peggiore, che ora abbiamo la polizia in casa… qualche volta le discussioni in famiglia si fanno accese.

Dina cerca di distogliere i discorsi dalla politica, ma è inevitabile. Solo Antonio è sereno. Il maestro del coro l’ha preso a cuore, dice che è portato per la musica e il canto e ci ha chiesto di poterlo avviare a perfezionarsi e a imparare a suonare l’organo in chiesa. Io sono molto ignorante in materia, ma Dina è felice e pensa che di meccanici in casa bastano quelli che ci sono.
Qui fa molto caldo, construí una pérgola y pienso en la que teníamos en casa... sto invecchiando, e i ricordi a volte sono dolorosi. Quando sono arrivato qui mi sentivo invincibile, ora sono diventato più sensibile.

Cara Lidia, ti auguro ogni bene, ti abbraccio forte.

Daniele
   

Torino, 1 novembre 1932

Caro Daniele

Spero la tua bella famiglia stia bene, anche noi del vecchio continente per la salute non ci lamentiamo.

Abbiamo allargato la boita comprando un magazzino che si affacciava sul cortile. È bastato buttare giù il muro che ci divideva e ora si può dire che abbiamo una bella fabbrichetta. Penso a Carlo, a come sarebbe contento di tutto questo. Aveva chiesto al signor Tornoni, che aveva questo magazzino di prodotti alimentari che gli rendeva poco, se voleva venderlo a noi, ma lui aveva detto chiaramente che era il suo lavoro e non lo avrebbe ceduto. Poi d’improvviso è sparito.

Voci di cortile dicono che la polizia sia venuta a prenderlo una notte: era un antifascista dichiarato e nemmeno troppo prudente.

Era solo, non aveva famiglia e, quando l’ufficio d’igiene è venuto a sgombrare il magazzino, abbiamo chiesto come comprarlo. È stato messo all’asta e l’abbiamo avuto.

Qui si sta festeggiando il decennale della Marcia su Roma e Mussolini non ha badato a spese per festeggiare il suo potere. Se non ci fosse mio cognato che mi fa stare con i piedi per terra, forse mi unirei a tutto il popolo che festeggia ed esulta questo periodo di prosperità che stiamo vivendo.

A Roma c’è una grande mostra per celebrare l’avvenimento, e il regime ha saputo usare il lavoro degli artisti per dare di sé un'immagine trionfale e avveniristica.

Ci sono stati molti festeggiamenti, sfilate, e per i giovani è difficile non lasciarsi attrarre da queste “sceneggiate”, come le chiama Nicola. Comunque, pur con le dovute cautele replico io, qualcosa si sta realizzando.

Già da tempo era stato dato il via alla "battaglia del grano" e i nostri fratelli, attirati dai proclami letti sulla Domenica del Corriere e con la speranza di vincere premi, hanno lasciato com’era solo la vigna vicino a casa  e il resto dei terreni li hanno seminati a frunento. Il campo delle Meniole, dei Brusiti, di Ponte Chisone quest’anno erano distese di spighe mature. Si sono poi accorti, quei “badola”, che non hanno fieno per gli animali e ora tocca comprarlo.

Ci sono state, molto propagandate a dire il vero, e quelle hanno entusiasmato anche me, le bonifiche delle terre acquitrinose.  Ciò che più ha appassionato la gente, è stato il prosciugamento delle paludi Pontine, dove sono sorte due nuove città: Littoria e Sabaudia, e sono venute ad abitarle coloni giunti dal Veneto e dall'Emilia...

Speriamo di non cadere dal piedistallo su cui siamo saliti e di non farci male cadendo.

Raccontami di te e del tuo paese.

Ti abbraccio forte

Lidia

 

Posadas, 18 agosto 1935

Cara Lidia,

Scusa se lascio passare tempo dai tuoi scritti e li faccio intercalare da brevi messaggi, ma la vita è sempre più complicata, si rimanda sempre per mettersi a scrivere seriamente.

Sono informato sui fatti dell’Italia, perché anche qui ci sono molti italiani e ci incontriamo in un circolo dove ritroviamo la nostra lingua, anche se ormai la parliamo male, e discutiamo dei fatti che succedono ai parenti lontani.
Nos preocupa su situación política: esta guerra que está librando en África, che fa ricordare le espansioni dell’impero romano, proprio non centra con gli italiani, un popolo che ha dovuto fuggire per cercare lavoro e ora va ad invadere altri paesi per sfruttarli.

Anche qui, tutti parlano di questa “impresa italiana”, e certe teste calde vorrebbero correre ad aiutare il paese che hanno lasciato. Sembra che ci si può arruolare in una divisione di camicie nere, la “Tevere”.

Ho letto sul Giornale d’Italia locuras di questo tipo: “Contro i selvaggi abissini, per un dovere patrio e per la fede al Duce, Capo Supremo della nostra grande Italia, partirò venerdì prossimo, per la Madre Patria come volontario nella guerra italo-abissina.” 
Querida hermana, a veces me siento en la orilla del gran río Paraná, lo veo pasar y reflexiono sobre la locura humana que no tiene límites.

Qui, per fortuna, per chi non fa politica, la vita scorre come questo fiume che, se non ci sono inondazioni o altri problemi, giunge alla sua foce del Rio della Plata. Quanto avremmo da imparare dalla natura, dalle migrazioni degli uccelli, dallo spostamento delle mandrie… per cercare un posto dove vivere in pace e tornare alla terra.
Scusa, oggi mi sento un po’ malinconico, forse perché Antonio ha fatto la valigia e sapere di non trovare più il piccolo a casa quando ritorno mi mette tristezza.

Tenía una beca para ir a estudiar música en Buenos Aires, dove continuerà anche le scuole superiori. Starà in un collegio e tornerà a casa per le vacanze.

L’insegnante del coro ha conoscenze a Buenos Aires, e ci ha chiamati mesi fa per dirci di questa possibilità di studiare musica al conservatorio, prima come “voce del coro” e poi per suonare uno strumento che sceglierà.

Ero molto perplesso, ma poi ho pensato che anche Barba Giacu era un suonatore di fisarmonica eccezionale e quando c’era lui i cortili si riempivano e tutti correvano a ballare.

Avrà preso dai Bonnet che erano tutti canterini e suonatori.

Stai bene, cara sorella, ti abbraccio forte.

Daniele

 

Torino 20 dicembre 1935

Caro fratello,

hai ragione quando nella tua lettera esprimi tutto il tuo dispiacere per la guerra coloniale dell’Italia.

Ora siamo andati anche a conquistare l’Etiopia!

Prego Dio che la gente possa rinsavire prima che sia troppo tardi.

Tutte le mattine Nicola ed io leggiamo il giornale e sentiamo la radio. Lui mi sa spiegare tante cose di politica che non potrei capire con la mia poca istruzione. So solo che abbiamo preso una strada che ci porterà in malora… Ieri è stata la giornata dell’Oro alla Patria, non so se ne hai sentito parlare. Gli italiani sono invitati a donare i loro gioielli, le argenterie, le medaglie, ogni cosa preziosa, addirittura le fedi matrimoniali per dimostrare l’attaccamento alla Patria, ma soprattutto per far vedere al mondo e a quegli stati che hanno imposto le sanzioni per le nostre iniziative in Africa, che siamo uniti e daremmo la vita per il Duce. Anche a Torino c’era la fila per donare l’oro. Era una fila più lunga di quella che vedo di solito davanti al Monte di Pietà.

Erano quasi tutte donne, alcune vestite bene, altre con le scarpe sfondate e i cappotti lisi stretti al seno per proteggersi dal freddo. Uscivano guardandosi la mano dove al posto della fede c’era un anello di latta. Mi hanno fatto venire una rabbia che ho preso il tram e sono andata al cimitero. La tomba di Carlo era coperta di foglie morte portate dal vento. Ho guardato la lapide e ho trovato un’incrinatura in un angolo. Ho fatto scorrere la fede in quello spazio, l’ho lasciata a chi un giorno lontano me l’ha messa a dito, altro che Duce.

Sono contenta che Antonio sia bravo come i Bonnet per la musica… li ricordo anch’io quanto mettevano allegria.

Cerchiamo di ricordare le cose belle che ci consolano del presente e tu quando vai in riva al fiume non farti prendere dalla malinconia, procurati una canna da pesca che almeno porti a casa la cena.

Ti saluto e ti bacio,

Lidia

 

REGIO POLITECNICO DI TORINO

CASTELLO DEL VALENTINO - TORINO

Torino, 4 gennaio 1936

Egr. Sig. Mario Ferrero,

In qualità di preside del suddetto Istituto, mi permetto di disturbarLa per renderle noto il disdicevole comportamento di Suo nipote Sergio Corgnati.

Il nostro allievo, come Le ho già comunicato per telefono, è un soggetto difficile, assolutamente inadatto allo studio e alla disciplina.

Ho cercato di comprenderne l’atteggiamento ribelle, pensando alla sua situazione familiare, al dolore che lo ha colpito in tenera età e che senz’altro ha influito sulla sua formazione. 

Le confesso, però, che mi riesce difficile stabilire un nesso tra la perdita subita da Suo nipote e i comportamenti che ora manifesta, pensando alla sollecitudine che Lei ha prodigato ai giovani orfani.

Oltre alle informazioni che già ci eravamo scambiati, devo purtroppo comunicarLe che Sergio, dopo aver aderito alla Gioventù Universitaria Fascista, cosa lecita e caldamente consigliata dal Regime, ha assunto il comando di un gruppo di camicie nere, tra cui molti compagni di corso, con il fine di intimorire e minacciare coloro che non manifestano attaccamento al regime.

In questo momento di esaltazione generale, è facile che i giovani siano attratti dalle manifestazioni di massa, ma taluni, invece, se ne tengono in disparte. Ed è proprio su questi soggetti che si scatenano Sergio e i suoi amici.

Ieri, ho dovuto ricorrere alle cure mediche per due fratelli ebrei, figli del banchiere Segre, che Suo nipote e i suoi seguaci hanno pestato a sangue.

Lei sa che sono un Suo ammiratore, non solo come professionista musicale ma anche come uomo, ed è in questa veste che Le chiedo di intervenire, prima che il consiglio di questo Istituto provveda ad espellere Suo nipote.

Sono certo che vivrebbe con rabbia il provvedimento, e temo possa che ciò possa accentuare il problema anziché risolverlo.

Mi faccia sapere come pensa di affrontare questa difficile situazione.

Alessandro Bonomi

 

5. DI NUOVO IN GUERRA

Torino 27 dicembre 1939

Caro Daniele,

spero siate in buona salute. Io sto bene ma sono molto intimorita dalle notizie che si sentono e si leggono sui giornali. Alla fine quel pazzo ci sta conducendo dritti nel baratro. All’idea di una nuova guerra mi sento mancare le forze. Non ho uomini che potrò perdere, ma il ricordo della sofferenza che ho patito è ancora vivo in me e non vorrei che nessun altro la provasse. Il lavoro va male, tutte le attività si rivolgono all’industria bellica e molte donne vanno a fare i lavori che avrebbero fatto gli uomini se non fossero arruolati.

Quando abbiamo comprato il magazzino e ingrandito il locale avevamo assunto altre due operaie, ma alcuni giorni fa le ho riunite tutte, e insieme a Nicola, abbiamo comunicato che saremo costretti a ridurre il lavoro, e a licenziare le ultime arrivate, per non dire subito che non vedo prospettive per la nostra attività.

Hanno capito e hanno accettato di buon grado la situazione. So che troveranno lavoro a cucire paracaduti, o a preparare spolette per le bombe.

Com’era bello preparare le setole, dividerle per colore e grana…

Nicola mi preoccupa molto per le sue idee politiche. Le sue riunioni ai collettivi di Giustizia e Libertà, la sua attività di volantinaggio presso i lavoratori della Fiat Mirafiori mi fanno stare col fiato sospeso. Temo sempre lo arrestino, lui dice che è il momento di agire, di far vedere a Mussolini che Torino non è fascista come lui crede. A questo proposito ha ragione perché quando a maggio hanno inaugurato il grande stabilimento di Fiat Mirafiori, gli operai che lo aspettavano sotto un diluvio non gli hanno riservato il calore che si aspettava.

Sono stata a San Secondo per Natale e ho chiesto ai nostri fratelli se, in caso la situazione si facesse difficile per il nuovo conflitto, potrei trovare rifugio presso di loro. Potrei andare a Pinerolo, ma quella casa in cui ho passato gli ultimi giorni con Carlo mi fa paura. Sarei così sola.  A questa richiesta, Vittorio e Cesare e le rispettive consorti si sono guardati.

Poi Ida, la moglie di Cesare, la più intraprendente, mi ha proposto di mettermi a disposizione due camere, per poter fare eventualmente la sfollata a mie spese. Sono stata contenta di questa prospettiva perché è difficile fare l’ospite e non sono il tipo.

Quelle più contente sono state Ines e Irma, le figlie di Vittorio. Sono ormai due signorine e mi stanno sempre addosso per chiedermi di Torino, dei teatri, della moda, dei cinema…

Guardano incuriosite i miei vestiti, il cappello, le scarpe…non so come faccia Fanny a tenerle in quello stato: con i vestiti logori, calzettoni di lana ruvidi e zoccoli di legno. Anche la casa la tiene che è uno schifo.

Io cerco di portar loro qualche regalo, ma c’è sempre quel malefico del fratello pronto a ricordarmi che sono contadine e non devono montarsi la testa.

Vorrei replicare che Renata, la figlia di Cesare, è anche lei una contadina, ma non necessariamente una mendicante.

Poi lascio perdere… Ti saluto, caro fratello, e spero di ricevere presto tue buone notizie

Lidia

 

Posadas, 13 giugno 1940

Cara Lidia,

ho appena saputo che Torino ieri sera è stata bombardata!  No pude leer el artículo, así que me molesté. 

Come stai? Hanno subito danni la tua casa, il tuo laboratorio? Mi sento di nuovo impotente come durante la prima guerra, mentre i miei parenti soffrivano e morivano ed io eri qui e non potevo fare nulla. Ti ho detto anni fa che sarei stato ben felice se tu avessi avuto il coraggio di attraversare il mare e venire qui da noi. E non ti direi di affittare due stanze…Ora abbiamo la casa libera. Giovanni si è sposato ai primi di giugno con una brava ragazza di origini polacche che fa la maestra, siamo stati molto contenti e gli sposi abitano qui nella nostra città. Nicolas per ora è l’unico rimasto a farci compagnia e non ha intenzione di mettere su famiglia.
Io e lui lavoriamo insieme e ci troviamo bene. Riceviamo sempre notizie da Antonio che da cinque anni si trova a Buenos Aires e ritorna a casa solo per le vacanze. È diventato un bravo musicista, aveva iniziato a studiare pianoforte e ne era entusiasta, poi un problema alle dita della mano destra l’ha fatto ripiegare sul violino. 

Es el único de la familia que siente curiosidad por los parientes en Italia y ha iniziato a scrivere ai cugini di Saluzzo, che sono giovani studenti come lui e, quando ritorna a casa, guarda le fotografie che abbiamo conservato e dice che un giorno tornerà a conoscere i luoghi da dove siamo partiti. Fammi avere notizie, cara sorella, di te e tutti.

Cercate di sopravvivere, vi prego

Daniele

 

Buenos Aires, 25 Agosto 1940

Carissimi genitori,

quando riceverete questa lettera, sarò già partito alla volta dell’Europa e precisamente di Vienna. So che sarete molto arrabbiati con me, e forse un po’ preoccupati, ma ora vi spiego tutto.

Quando sono venuto qui al Conservatorio National de Musica, non avevo in mente altro che la musica e un po’ la nostalgia di casa. Ma negli anni ho avuto modo di comprendere come la politica entri anche nelle scuole, nei luoghi di cultura. La Germania, che ora è sul piedistallo delle nazioni, si è infiltrata nella politica argentina in questo modo. La D.A.F, una sorta di Lega nazista, oltre a promulgare le sue idee, promuove anche le attività sportive e musicali. Ho risposto a un bando di concorso per un soggiorno di perfezionamento a Vienna con il Prof. Daniel Froschauer. Non pensavo assolutamente di essere convocato e non volevo coltivare false speranze, per cui non ve ne ho parlato. Quando il Direttore mi ha dato la bella notizia, era già troppo tardi. Mi ha detto che, essendo minorenne, avrei dovuto farvi firmare subito il permesso per l’espatrio. Ho avuto paura che non mi avreste lasciato partire, e so benissimo per quali motivi.
Vi giuro che non ho nessun interesse per il lato politico della cosa, anzi odio il nazismo e il fascismo, ma un soggiorno a Schonbrunn alla Casa della Musica era troppo allettante. Ho falsificato la vostra firma e ora sono sulla nave Splendor. Arriverò ad Amburgo e proseguirò in treno per Vienna.

Vi scriverò appena arrivo e quando tornerò saprò farmi perdonare.

Vi abbraccio forte, voi e i miei fratelli

Antonio

 

San Secondo, 15 giugno1941

Caro Daniele,

come vedi ti scrivo da San Secondo. Ho chiuso casa e boita a Torino e mi sono trasferita qui. La vita era diventata difficile: i bombardamenti continui, l’urlo delle sirene e il fuggi fuggi generale nei rifugi antiaerei mi avevano stremata.

Sono felice tu non debba subire tutto questo. Mentre ero là sotto con il batticuore, sentivo le bombe che distruggevano e uccidevano coloro che non erano riusciti a mettersi in salvo e pensavo che forse quella notte saremmo stati intrappolati come topi, se le case sopra di noi venivano abbattute. Quando si usciva, la polvere della distruzione era accecante, fuochi ardevano da ogni parte e col cuore in gola cercavamo le nostre case e se le vedevamo ancora in piedi eravamo felici di ritrovare i nostri ricordi. Trovare da mangiare era sempre più difficile, facevo lunghe file con la carta annonaria e portavo a casa un po' di cicoria per farmi il caffè e un pane nero che sembrava fatto con la terra. Ero fortunata perché avevo qualche soldo per comprarmi un uovo o un pezzo di formaggio alla borsa nera.

Qui sto bene, pago il mio affitto e compro da mangiare dalle mie cognate che sembrano contente di questa cosa. Le ragazze sono gentili e guardo la loro giovinezza che sboccia, nonostante la guerra. Ines, che ora ha diciassette anni, ha trovato lavoro alla filanda di Miradolo. Parte al mattino in bicicletta e torna la sera. Sono contenta possa imparare un lavoro che non la costringerà a lavorare la campagna.

Quella che mi fa pena è Irma. Ti avevo parlato della sua malattia. È una ragazza bellissima, con un sorriso meraviglioso e molto alta e sviluppata per la sua età. Gli attacchi epilettici per ora la prendono di rado, ma quando capita è una tragedia.

Nonostante la guerra, la vita continua e i giovani cercano di divertirsi quando possono. Hanno messo un ballo a palchetto a San Secondo e ho accompagnato le ragazze. Ines è più giudiziosa e si preoccupava di non fare tardi, ma Irma non guardava mai dalla nostra parte e volteggiava come una farfalla. Per fortuna non è capitato nulla e siamo tornate a casa in punta di piedi come Cenerentole.

A Miradolo dove va a lavorare Ines ci sono delle casermette che ospitano degli alpini. Una sera tornavo da Pinerolo in bicicletta, ero andata a fare un giro alla casa, ho visto Ines e un alpino che l’accompagnava. Quando le ho chiesto se si era fatta il moroso, è diventata rossa come un pomodoro… Beata gioventù!

Ti ringrazio dell’invito, ma non ho mai avuto il tuo desiderio di avventura e ora non è più il tempo, sono troppo vecchia.

Ti abbraccio, caro fratello

Lidia

 

San Secondo, 14 maggio 1942

Caro Daniele,

questa sera, dopo una giornata estenuante, ho il grande desiderio di scriverti. Oggi qui è nata una bambina, figlia di Ines, che le ha dato il nome di Bruna.

Non ti avevo più scritto e le cose qui sono precipitate dall’autunno scorso. Ti avevo raccontato che la figlia di Vittorio andava a lavorare alla filanda e del suo “moroso”, l’alpino, quello delle casermette.

Le cose sono andate avanti e io vedevo sempre la ragazza con lui, un bel giovane che l’accompagnava per un pezzo di strada. Lei non voleva che arrivasse qui al cancello si fermavano prima, al tabernacolo.  In autunno questi soldati sono partiti e la ragazza ha cominciato ad aspettare la posta, la vedevo triste e pensierosa.

Alla sera, qualche volta saliva da me e mi parlava di questo ragazzo che veniva da Piacenza, era un contadino che non aveva mai visto le montagne. Le brillavano gli occhi tanto ne era innamorata. Scriveva lunghe lettere e qualcuna arrivava anche a lei, poi più nulla. 

A un tratto si era chiusa in sé stessa. Non parlava con nessuno, era molto strana.

Un giorno mi ha chiesto di essere presente la sera dopo cena: doveva dire una cosa alla famiglia. In poche parole era incinta. Non ti dico in quella casa cosa non è successo. Nessuna tragedia da parte di Vittorio e Fanny, che certo non ne erano felici, ma avessi visto Luigi, il fratello, sembrava pazzo.

Comunque la cosa era detta e da quel giorno la povera ragazza ha continuato ad andare a lavorare e a rifugiarsi da me quando ritornava.

È rimasta a casa solo due giorni prima del parto.

Mi faceva pena vederla partire con la sua bicicletta e la pancia che la ingombrava nel pedalare.

La bimba è molto bella, bionda, un raggio di sole in queste giornate di guerra. L’ho tenuta in braccio, respirava tranquilla, immersa in un sonno di pace. Mi ha ricordato Nicola e ho pianto.

Torino è sotto bombardamento continuo, non ho più notizie di Nicola, spero sia vivo e di poterlo rivedere.

Scusa, ma dovevo raccontarti l’emozione di oggi.

Guardo verso Torino e vedo una luce rossa e lampi infuocati.

Quando finirà tutto questo?

Lidia

 

Posadas, 15 settembre 1942

Cara Lidia,

non sai come il mio pensiero sia sempre a voi che state patendo la guerra, i pericoli, la fame. Meno male che non sei a Torino e spero che in campagna è più facile procurarsi il cibo. Has dejado una ciudad donde los bombardeos son devastadores non solo per gli obiettivi da colpire ma anche per i civili, le loro case, le loro vite. 
Sento che sei molto presa dalla nascita della bambina e spero che questa nuova vita, che nessuno voleva, ti porti un po' di serenità.

Noi siamo molto in pensiero per Antonio, che due anni fa ha lasciato Buenos Aires e il conservatorio per studiare a Vienna con una borsa di studio. L’abbiamo saputo a cose fatte, perché non gli avremmo mai dato il permesso di andare in Europa ora che c’è la guerra.

Comunque, nei primi tempi scriveva sempre ed era contento dei suoi progressi nello studio: parlava solo di quello e ci dava poche notizie di quello che succedeva in Austria. Poi le lettere si sono diradate e in questi giorni abbiamo saputo che ha abbandonato l’Istituto ed è scappato. Non si sa dove, con chi, per fare cosa.

Abbiamo chiesto al consolato, al Conservatorio di Buenos Aires, ma per ora non abbiamo notizie.
Verá, querida hermana, aunque tenemos paz, también nos encontramos envueltos en la guerra.

Antonio è sempre stato un ragazzo studioso e poco interessato alla politica, ma è difficile, in questo momento, farsi bastare la musica, quando il mondo ti crolla intorno.

Preghiamo Dio che lo protegga ovunque sia. Ti darò notizie appena saprò qualcosa.

Ti abbraccio forte

Daniele

 

Pinerolo, 20 settembre 1943

Caro Daniele,

come vedi ti scrivo da Pinerolo, dove mi sono trasferita da agosto. Era un momento difficile per fare questo passo, ora che il fascismo sta crollando e che, liberandoci di Mussolini, siamo finiti dritti sotto le grinfie dei tedeschi che ce la vogliono far pagare.

Una ventata di libertà sembra sorgere magicamente negli animi di molti italiani, volonterosi di prendersi le responsabilità che in passato altri hanno preso per loro. Dirti che sono spaventata è poco, ma mi rincuora sapere che la gente ora vuol stare dalla parte giusta della storia, ed è pronta a combattere per rimanerci. 

La vita a San Secondo era diventata difficile. La situazione in casa era insostenibile, con i litigi tra Vittorio e suo figlio. Nostro fratello alla fine si ubriacava, scendeva in cantina anche di notte, accendeva le luci e non voleva sentir ragioni di andare a dormire.

Arrivavano i tedeschi, un comando acquartierato lì, e cominciavano gli interrogatori: cosa nascondevamo? Chi proteggevamo? Un incubo. Vedevo Ines stringere a sé la bambina, piena di spavento, e mi sono decisa: ho comunicato a tutti che me ne andavo a Pinerolo con Ines e sua figlia. Sono rimasti sorpresi, ma anche contenti che allontanassi il disonore della famiglia.

Qui la casa è grande e il giardino è una meraviglia, abbiamo fatto l’orto, e le piante da frutta, che Carlo aveva piantato, ci danno una mano per il cibo.

Ines va a lavorare a Miradolo in biciletta e io mi occupo della bimba. In queste belle giornate stiamo fuori al sole ad aspettare il ritorno della mamma. Bruna è sempre più bella: bionda con gli occhi azzurri, i suoi gridolini risuonano per la casa, solo ora mi rendo conto di quanto prima fosse infelice.
Mia nipote non ha più ricevuto notizie dall’alpino e a volte la vedo triste, assorta nei suoi pensieri. L’aiuterò a cercarlo, se è vivo deve sapere quello che è successo. Sai che sono una persona pratica: ora mi darò da fare per ritrovare il papà a questa meraviglia che si aggrappa a me per incamminarsi verso la vita.

Scusa se mi sono dilungata e non ti ho ancora chiesto di Antonio: nel tuo ultimo messaggio eri molto preoccupato per lui, ma penso e spero sia tornato a casa sano e salvo.

Ti abbraccio

Tua Lidia

 

 Pinerolo,10 ottobre 1943

Gentile signora Delfina,

le sembrerà strano ricevere questa lettera da una sconosciuta. Ho fatto molte ricerche per trovarla ed è stato il parroco di Podenzano a darmi il vostro indirizzo.

Sono vedova e abito a Pinerolo, dove suo figlio Egidio è stato in qualità di alpino nella primavera/estate del 1941, prima che venisse smistato per altri luoghi.

Mia nipote andava a lavorare in fabbrica, nei paraggi della caserma, ha conosciuto suo figlio e si sono innamorati. Bisogna avere comprensione per questi ragazzi che si sono ritrovati a vivere la loro gioventù in un momento così drammatico.

Vengo al dunque. La ragazza è rimasta incinta e ha dato alla luce una bella bambina, di cui le mando la fotografia.

Ho accolto in casa mia nipote e la figlia, ed entrambe vivono con me in serenità. Ma è indubbio che alla mamma manca l’amore, e alla bambina manca l’affetto paterno.

Vorrei avere notizie di suo figlio, sapere dove si trova.

So che i tempi sono difficili, specie ora che l’esercito è allo sbando, e i tedeschi prendono prigionieri quelli che prima erano loro alleati.

Spero lei mi dia notizie confortanti sul ragazzo che non conosco personalmente, ma a cui mia nipote ha risposto con un sentimento ora molto raro: l’amore.

La ringrazio e spero di poter avere presto sue nuove,

Lidia Paschetto ved. Secchi

 

San Polo di Podenzano,  25 novembre 1943

 

Gentile signora Lidia,

non è la Signora Delfina a risponderle, ma la maestra di San Polo, dove vive la famiglia di Egidio. La signora Delfina ha difficoltà a scriverle e ha incaricato me di questo compito.

La mia amica è rimasta sconcertata dalla sua lettera, come lei può immaginare, ma non può darle le buone notizie che lei auspica.

La famiglia ha quattro figli maschi e una femmina, che si è fatta suora di recente. I figli, di cui non ha più avuto notizie, sono prigionieri, Egidio in Germania, dopo essere stato catturato in Iugoslavia, e gli altri in Russia e in Corsica.

Il più giovane è stato richiamato in questi giorni e sta facendo il corso di telegrafista, sperando di non essere arruolato, visti i tempi.

Da Egidio si sono avute notizie nei primi tempi della prigionia, e si trovava nel campo di lavoro di Bielefel, poi più nulla.

La signora Delfina ha guardato a lungo la foto della bambina e si è commossa.

Mi creda, sono stata insegnante dei figli, e specialmente Egidio è un bravo ragazzo, cresciuto con principi morali e cristiani.

Terremo di conto il vostro indirizzo per quando avremo notizie.

Per ora, signora Lidia, non ci resta che pregare perché questa guerra finisca e si possa ricominciare a vivere.

Sua Adelina Torretta, maestra elementare

 

Saluzzo, 15 dicembre 1943

Cari genitori,

ogni volta che vi scrivo, esordisco col chiedervi perdono per qualcosa.

Sono scappato da Schonbrunn lo scorso settembre, per non essere arruolato nell’esercito tedesco.

Purtroppo all’istituto, dopo un periodo iniziale, in cui la musica sembrava essere il solo scopo delle nostre giornate, il comportamento degli insegnanti è cambiato. Anche prima, certo, intorno a noi c’era la guerra, con il suo carico di dolore e di morte, ma noi stavamo chiusi nel castello, come in una bolla rarefatta in cui solo la musica contava. Era un sogno che non poteva durare, e mi sono reso conto che l’Austria, dopo l’annessione alla Germania, era chiamata a fornire “carne da cannone” ai tedeschi.

Tutto ha avuto inizio con un invito velato ad arruolarsi, ma poco per volta è stato l’Istituto stesso a smantellare i corsi e inviare gli allievi all’esercito. Sono fuggito in modo rocambolesco, mi sono nascosto, poi ho ripreso la fuga, superando il confine con l’Italia.

Avevo pensato di raggiungere Genova per imbarcarmi e tornare a casa, ma qualcosa mi ha detto che avevo l’occasione di aiutare il paese dove sono le nostre radici.

Non vi sto a raccontare come sono giunto a Saluzzo, da Maria, la cugina di mamma e dai miei cugini, con cui ci siamo scambiati tante lettere. Sono stato accolto come un figlio. Da loro, dai loro racconti, ho capito che, per il momento, devo accantonare il violino per imbracciare il fucile. Qui si sta combattendo per la libertà dal nazismo, dal fascismo, per ridare all’Italia la dignità perduta.

Carissimi, voi sapete che ho sempre avuto allergia per la politica, ma qui invece ho il desiderio di essere utile. Non mi sono mai sentito così parte di un’idea, di un programma, di un sogno. Ho deciso di unirmi ai partigiani che, sulle montagne e nelle pianure, fanno la “resistenza”. Una parola bellissima che ne anticipa altre: libertà, pace, giustizia…

Vi abbraccio, pensatemi qui, da dove siete partiti e dove farò la mia parte.

Antonio

 

OSPEDALE MILITARE TORINO

Torino, 12 febbraio 1944

Cara Maria Grazia,

anzitutto voglio darti subito la notizia che Sergio è vivo, per miracolo, ma è vivo. Sono arrivato nel pomeriggio e sono venuto all’ospedale militare. Ho parlato con i medici e l’ho potuto vedere.

Era pallido, sembrava morto, aveva subito un intervento chirurgico ed era sotto trasfusione. Ho parlato con il suo capitano, che si trovava lì, il quale mi ha fatto un racconto strano sull’accaduto. Ho avuto la sensazione che stesse inventando tutto, perché prima diceva una cosa poi si contraddiceva.

Alla fine ho saputo la verità dal cappellano militare.

Sergio, con il suo gruppo di miliziani, si era recato in provincia di Cuneo, per controllare alcune cascine, in cui si diceva si nascondessero dei partigiani. Dopo aver spaventato gli abitanti e picchiato degli ignari contadini, si sono ubriacati. Sergio, a un certo, punto ha dato il meglio di sé, volendo impossessarsi di un maiale che una famiglia allevava per cibarsene.

La moglie del contadino, nell’atto di impedirgli il furto, ha preso un coltello e glielo ha conficcato nella schiena. Lui ha avuto il tempo di prendere la pistola e di ammazzarla. Al marito hanno pensato i suoi compagni.

Tremavo mentre questo buon prete mi raccontava questo: com’è possibile che tua madre, la mia amata sorella, abbia generato un individuo simile. Siete stati allevati nella medesima casa, ho cercato di darvi dei buoni principi e, mentre tu ti occupi dei poveri della parrocchia, lui va in giro ad ammazzare la gente.

Figlia mia, sono straziato dal dolore. Rimarrò qui fino a che non lo vedrò rimettersi.

Ti abbraccio forte

Mario

 

6. RESISTENZA E LIBERAZIONE

Salice D’Ulzio, 1 maggio 1944

Cara Maria Grazia,

siamo arrivati ieri sera all’albergo Miravalle. Sergio era stanco ma contento di aver lasciato Saluzzo. Allontanarci da casa, fino a quando tuo fratello sarà completamente guarito, è stata la decisione giusta: un soggiorno in montagna non può fargli che bene.

Faremo passeggiate, cercherò, parlandogli, di capire cosa sia successo nel suo animo. Non sono uno psicologo, ma ho avuto a che fare con molti allievi, nella mia vita. Se non otterrò nulla, mi arrenderò e lo lascerò al suo destino.

I vostri continui diverbi, a casa, facevano male a tutti. Sergio, benché tra voi fosse il più debole, voleva sempre l’ultima parola: siete così diversi.

La valle qui è molto bella: le cime del Genevris e Bourget, stamattina, erano attorniate da nuvole rosa, la natura qui è ancora in letargo, anche se dalle chiazze di neve stanno sbucando i bucaneve.

Prima che Sergio scendesse per la colazione, ho avuto modo di parlare con il proprietario, il Signor Fontan, il quale mi ha parlato della situazione locale.

Dopo l’8 settembre, i soldati in servizio al confine hanno abbandonato le loro postazioni e sono scesi a valle per imbracciare il fucile contro i loro antichi alleati. I contadini hanno fornito abiti, cibo e riparo ai ragazzi che hanno buttato le loro divise, finché le prime brigate partigiane si sono divise il territorio, per combattere la guerra di liberazione.

C’è grande fermento in Val Susa, i ragazzi danno filo da torcere ai tedeschi, con imboscate, facendo saltare ponti, sabotando i fili del telegrafo e cercando di impedire i collegamenti col nemico oltre confine. Ho portato Sergio nel posto giusto!

Nel pomeriggio siamo andati a fare una passeggiata e, al ritorno, al bar tabacchi del paese, ho fatto un incontro inaspettato: l’ing. Sergio Bellone, letteralmente sparito da Saluzzo lo scorso anno. Alcuni dicevano che era stato costretto a fuggire per le sue idee politiche, altri lo davano per morto.

Di fronte alla mia incredulità, si è comportato in modo strano: sembrava avere molta fretta e si guardava intorno, come per controllare di non essere visto.

Ho chiesto al Sig. Fontan se l’ingegnere per caso fosse ospite dell’albergo, ma lui è impallidito e mi ha detto che quell’uomo era ricercato per aver fatto saltare il ponte dell’Arnodera, che permette il collegamento della linea ferroviaria Torino-Modane. Pare che un gruppo di partigiani, da lui capeggiato, abbia trasportato un quantitativo enorme di esplosivo sotto il traliccio centrale del ponte, mentre alcuni artificieri accendevano le micce. Il ponte si è letteralmente disintegrato.

Ti confesso che ultimamente mi sono reso conto di aver vissuto finora in un mondo parallelo a quello reale. Un mondo dove la musica mi ha cullato, dato gioia e serenità, mentre intorno a me tutto crollava. Ho sempre pensato di essere troppo vecchio per mettermi in gioco, ma ho constatato, prima all’ospedale militare e ora qui, che per molti è giunto il tempo di fare una scelta e combattere per le proprie idee.

Domani, abbiamo in programma una gita al lago Laune,  da cui contiamo di proseguire su una vecchia pista forestale, sino a raggiungere la strada del Col Blegier.

Abbi cura di te, cara. Ti prometto di darti presto nostre notizie.

Mario

 

Valle Susa, 8 agosto 1944

Carissimi genitori,

finalmente trovo il tempo per scrivervi, ma so che avete avuto mie notizie da Maria di Saluzzo, a cui hanno scritto i figli. Affido questa lettera a un compagno che si reca a Genova e partirà per Gibilterra. Di lì farà partire questo messaggio, che non posso affidare alle poste.

Oggi è una giornata bellissima, qui nella Val Susa: il cielo è di un azzurro smagliante e l’ombra dei larici ci ripara dal caldo.

Sto bene e spero che a Posadas la vita continui a scorrere tranquilla come il fiume che la bagna. Quando sono venuto in questa valle con Lorenzo e Paolo, i figli di Maria, mi sentivo un po’ spaesato, ma poi ho dovuto ricredermi, sia per i luoghi che per le persone che li abitano.

Ci siamo trasferiti da poco nel Gran bosco di Salbertrand, dove ci troviamo ora, in alcune baite disabitate. Gli abitanti del villaggio vicino, che mi sembravano così chiusi, in realtà ci proteggono e ci portano rifornimenti.

Il nostro capitano è Walter Fontan: il fratello ha un albergo a Salice D’Ulzio, dove gli capita di ospitare i caporioni tedeschi. In realtà è dei nostri e, facendo credere di essere fedele al fascismo, ci fornisce informazioni importanti per i nostri interventi.

L’inverno, qui, è stato lungo e freddo, altro che il nostro! Ci siamo nascosti nel vallone del Lys: la neve, che non avevo mai visto in vita mia, sembrava proteggerci nel suo magico candore. A primavera, abbiamo ripreso la nostra attività, attaccando il presidio nazifascista di Bussoleno, dove abbiamo causato gravi perdite ai tedeschi. Purtroppo sono seguite forti rappresaglie sulla popolazione. In quei giorni abbiamo sofferto molto: i civili stavano pagando un prezzo molto alto per la nostra lotta.

Ma non ci possiamo fermare: la nostra risposta l’hanno avuta nella battaglia di Balmafol. Eravamo orami un gruppo sparuto e mal armato, e ci siamo accorti che i tedeschi stavano per accerchiarci sulle montagne di Chianocco. Abbiamo giocato la nostra ultima carta, facendo rotolare a valle massi enormi. Questo ha costretto i nostri nemici a uscire allo scoperto e abbiamo fatto una carneficina.

Mi rendo conto di apparirvi un figlio sconosciuto: passato dai movimenti armoniosi dell’archetto a quello convulso e ripetuto della mitragliatrice. Che mondo!

Spero con tutto il cuore che il nostro sforzo e il sacrificio di tante vite serva a fermare il nazifascismo. Le notizie che ci arrivano ci fanno ben sperare.

Domani usciremo allo scoperto; per fortuna, questa volta, non sarà per uccidere ma per rilassarci un po’. Uno dei nostri compagni ci ha invitati al matrimonio del fratello, che si terrà a Salice D’Ulzio. Ci raderemo, ci renderemo presentabili, per vedere se siamo ancora capaci di divertirci.

Non state in pena per me, come vedete me la so cavare: questa fase della mia vita è importante, forse più di quella che ho vissuto finora.

Vi abbraccio forte

Antonio

 

Salice D’Ulzio, 10 agosto 1944

Cara Maria Grazia,

mi è dispiaciuto lasciarti ancora una volta sola. Il caldo a Saluzzo era insopportabile e, da quando ho scoperto questa valle, all’inizio dell’estate, sento che me la porterò nel cuore.

So che hai preferito restare per proseguire il tuo lavoro all’ospedale militare, dove penso il tuo cuore abbia trovato buona compagnia… Ti ho vista passeggiare con il Dottor Frugoni e la vostra intesa mi è sembrata molto bella. Ho visto giusto?

Comunque, ti dicevo che questa valle ha un richiamo speciale per me e ieri ne ho avuto conferma.

Stavo passeggiando per il paese, quando sono stato richiamato da grida gioiose provenienti dalla chiesa di San Giovanni.

Mi sono avvicinato e ho visto una coppia di giovani sposi, festeggiata da parenti e da un bel gruppo di amici.

Vicino alla chiesa, sotto un pergolato, avevano allestito tavoli e panche per il pranzo. Vedendo che il cibo proveniva da una vicina trattoria, mi sono fermato a mangiare. Il cibo casereccio era molto buono e il vino scorreva giù che era una meraviglia. Gli invitati erano già tutti alticci e cantavano allegramente, quando al gruppo si sono avvicinati alcuni suonatori: una fisarmonica, un violino e un clarinetto.

I giovani si sono messi a ballare e cantare canti popolari. Durante una pausa, in cui i suonatori si dissetavano, un giovane ha chiesto al suonatore di violino il suo strumento. Si è messo da parte e, nella sorpresa generale, ha iniziato a suonare… nientemeno che la Mèditation de Thais di Massenet.

Lo strumento non era perfettamente accordato, ma il giovane ha saputo interpretare il brano con un virtuosismo raro. Il pubblico si è zittito, i balli sono cessati, mentre gli sguardi erano puntati sul giovane. Al termine, gli applausi scoscianti hanno chiesto il bis al suonatore.

Ho chiesto ad alcune persone sedute accanto a me chi fosse quel ragazzo alto, magro, bruno, con uno sguardo dolce ma intenso allo stesso tempo.

Mi hanno detto che veniva da Saluzzo. Possibile che non abbia mai conosciuto un talento simile nel mio campo?

Ho cercato di avvicinarmi per parlargli ma, a un segnale convenuto, un gruppo di quei giovani, tra cui il violinista, si sono radunati, hanno salutato gli sposi e i presenti, e se ne sono andati verso le montagne.

Un vecchio mi ha sussurrato che “se fosse stato giovane, li avrebbe seguiti”. Ho quindi capito che erano partigiani.

Poveri ragazzi, venuti a godere qualche ora di compagnia e festa. Non riesco a togliermi dalla testa quel giovane, devo fare in modo di incontrarlo. Ma dove, come?

Per ora ti lascio, ma ti farò sapere se ho trovato risposte alle mie domande.

Ti auguro ogni bene

Mario

 

Saluzzo, 20 Agosto 1944

Caro zio Mario,

ho ricevuto la tua lettera, in cui ti ho visto per la prima volta sotto le vesti di Cupido nei miei confronti, e di Sherlock Holmes per il ragazzo che ti ha incantato con il violino. Riguardo al primo punto, sono felice di aiutare nell’ospedale militare, ed Enrico Frugoni per ora è un buon amico.

Ho cercato di ricordare chi potesse essere il misterioso violinista, tra i giovani di Saluzzo: guarda caso, ieri, mentre rientravo dal lavoro, ho incontrato Stella, la mia compagna di scuola. Abbiamo fatto un tratto di strada insieme e le ho chiesto notizie dei suoi fratelli, che sapevo soldati e di cui non avevo notizie Ha abbassato la voce e mi ha fatto capire che stavano combattendo la guerra: quella giusta.

Le ho augurato buona fortuna per Lorenzo e Paolo. Lei ha aggiunto arrossendo “…e per Antonio.”  Non sapevo avesse tre fratelli, ma lei ha ribattuto che era un cugino venuto dall’Argentina. Ha cominciato a parlarmene, come di un prodigio nella musica, si vedeva che era cotta a puntino… Mi ricordo di averti sentito parlare di una famiglia di Saluzzo emigrata in Argentina. Sarà forse figlio loro?

Spero di aver soddisfatto in parte la tua curiosità. Ora vado a riposare, stanotte ho il turno, riguardati e riposati.

Un abbraccio

Maria Grazia

 

ALBERGO MIRAVALLE

Salice D’Ulzio 1 Settembre 1944

Gentile Signorina Maria Grazia,

ho appreso il suo indirizzo da una lettera che il Sig. Mario Ferrero aveva tra i suoi effetti personali. Mi duole comunicarle che suo zio è morto ieri, nella zona dell’alpeggio di Malafosse Alta.

Era partito ieri mattina per una passeggiata, facendosi preparare un pranzo al sacco. Non vedendolo tornare, nel pomeriggio inoltrato ho avvisato le forze dell’ordine. Ieri c’è stato un conflitto a fuoco tra un gruppo di partigiani e alcuni soldati tedeschi, nella zona dell’alpeggio.

Ci sono state perdite da entrambe le parti. Non so come mai suo zio si fosse avventurato su quella strada accidentata. Era una persona cordiale e amabile e sono onorato di averlo conosciuto.

Sono a disposizione per le operazioni inerenti le esequie.

La saluto con stima

Aurelio Fontan

 

Pinerolo, 30 Aprile 1945

Caro Daniele,

oggi è una giornata memorabile. La guerra è finita finalmente: la gente balla per la strada, siamo felici di lasciarci alle spalle tanto dolore. Nelle grandi città sfilano i carri armati degli alleati e i partigiani scendono dalle montagne per accogliere la loro parte di gloria.

Negli animi di coloro che hanno perso i loro cari questa felicità è velata dal rimpianto, dalla tristezza che essi non siano qui a festeggiare. È anche grazie a loro se ricominceremo a vivere.
Ti mando la copertina della Stampa per dirti che tutto questo è anche merito di Antonio, che ha lasciato la sua Patria in tempo di pace per combattere per noi. Spero che torni a casa sano e salvo.

Ora è arrivato il tempo di aspettare: sarà difficile organizzare i ritorni dei prigionieri, dei sopravvissuti. Immagino che cosa troveranno nei campi di lavoro, di prigionia: giovani che, se non sono morti, sono diventati uomini nel peggiore dei mondi.

C’è solo la speranza nei ritorni, per riunire le famiglie, ricostruire dalle macerie e tornare alla nostra vita. Ci vorrà molto tempo…

Ti abbraccio forte

Lidia

PS  Ines ed io oggi festeggeremo con la bambina e con una coppia di affittuari, a cui ho dato una parte del piano di sopra della casa. Sono una coppia di pensionati senza figli e stanno viziando Bruna come se fosse la loro nipotina.

 

Saluzzo 12 maggio 1945

Cara Dina, avrei preferito morire piuttosto che inviarti questa lettera.

Cara cugina, i nostri ragazzi, che combattevano per la libertà sulle montagne… non ci sono più.
Sono straziata dal dolore e, se non fosse per Stella e Attilio, mi sarei già buttata nel fiume per non provare più questo strazio.

Ho avuto la notizia dal Comando partigiani della Val Susa. Erano a pochi chilometri da Salice D’Ulzio, vicino a un alpeggio. Si erano fermati per riposare, prima di riprendere il cammino verso Jouvenceaux, dov’erano diretti, quando da un fitto bosco di larici sono sbucati i tedeschi. Li hanno colti di sorpresa: stavano bevendo alla fontana, rilassati. Li hanno uccisi mentre cercavano di imbracciare i fucili e difendersi. Si sono salvati solo due compagni, che stavano seguendo le tracce di una lepre nel bosco, e un altro, che era andato avanti per controllare il sentiero. Quando hanno sentito gli spari, sono tornati sui loro passi e hanno risposto al fuoco, fino a far fuggire i superstiti.

Che orrore dev’essere stato, tanto sangue sparso su quei pendii inondati dal sole.

L’anno scorso, quando Antonio è comparso alla nostra porta, ci era sembrato un miracolo. Tuo figlio che sentiva il bisogno di venire a combattere per noi. Gli abbiamo voluto bene subito, era un ragazzo meraviglioso. Nel periodo che è stato a casa nostra, siamo diventati tutti amanti della musica, che lui suonava e ci spiegava. Stella lo adorava.

Come potremo godere della fine della guerra, della libertà ritrovata, come ricostruire le nostre vite dalle macerie senza di loro?

Mi sembra impossibile, non m’importa più di nulla. Lascio che i giorni passino e si riducano quelli che mi condurranno alla pace.

Ti abbraccio forte e ti voglio bene.

Maria

P.S. Dimenticavo di dirti una cosa strana. Felice, il ragazzo che era avanti nel sentiero e che si è salvato, mi ha raccontato che, poche ore prima dell’attacco, era arrivato all’alpeggio, insieme a loro, un uomo di qui, delle nostre parti: un turista che andava a passeggio. Si erano spaventati, poi, giudicandolo innocuo, avevano condiviso il vino. Aveva chiesto chi di loro fosse il musicista che aveva sentito suonare a una festa. Antonio si è fatto avanti e i due hanno parlato a lungo.

Felice, che ha ricomposto i corpi, li ha trovati vicini, sembravano uniti in un abbraccio.

 

Posadas, 3 junio 1945

Querida tia Lidia,

te escribo esta carta en nombre de mis padres, que en este momento se encuentran inmenso al grande dolor luego de la muerte de su hijo amado Antonio. Un gran hijo y hermano amado por todos. Antonio murió junto a sus primos, mientras combatían con la resistencia en Italia. El hecho ocurrió durante una emboscada en Val Susa. Mi padre te escribirá cuando se sienta en las condiciones de hacerlo y te contará con detalles lo sucedido. Una triste noticia para todos. 

Me despido, no sin antes recordarte el momento emotivo en el que nos conocimos en Torino. 

Te abrazo sinceramente,

 Juan

 

Pinerolo, 12 agosto 1945

Carissimi,

ho ricevuto lo scritto di Giovanni che mi comunicava la triste notizia. Speravo tanto che con la fine della guerra avrei potuto conoscere Antonio, che era qui accanto a noi a combattere.

Che triste destino gli è toccato in sorte, quale grande sentimento di amore per la terra dei suoi cari lo ha spinto a venire a liberarci.

Non so come consolarvi, carissimi, ma sappiate che da queste rovine sorgerà un mondo migliore, anche per merito vostro.

Vi abbraccio forte e piango per voi, per la vostra grave perdita.

Lidia

 

Pinerolo, 12 Settembre 1946

Caro Daniele,

dai tuoi ultimi brevi scritti, ho la sensazione che state cominciando a riprendere la vostra vita, anche se vostro figlio sarà sempre nei pensieri di tutti noi.

Sono passati veloci questi mesi, in cui era tutto così difficile. Ora incomincio a vedere un paese in cui aleggia la speranza.

Per noi la vita è continuata con tranquillità.

Avrei voluto scuotere il tempo immobile dell’attesa, scrivendo di nuovo a Piacenza per chiedere notizie. Ines me lo ha impedito: “Abbiamo fatto sapere quello che è accaduto. Ora tocca al mio ragazzo, se è vivo, compiere un gesto non imposto.”

Tu sai che non è nel mio carattere rimanere ad aspettare, ma ho rispettato il pensiero di mia nipote.

Ieri eravamo sedute sotto la pianta di kaki che ombreggia il giardino davanti a casa. Era una giornata ancora calda e stavamo cucendo. Ines ricamava un vestitino della bambina, che giocherellava accanto a noi. Ho alzato lo sguardo e ho visto, in fondo alla strada che ci collega alla statale, un uomo con una valigia. Non ho detto nulla, mentre la figura si avvicinava. Ines ha alzato gli occhi, le sue mani hanno interrotto il lavoro e si sono messe a tremare.

L’uomo era diretto qui, si è fermato sotto le rose intrecciate in cima al cancello, che ormai stanno sfiorendo.

Ha appoggiato la mano sulla maniglia di ferro e ci ha guardate con un sorriso: in lui non avrei riconosciuto il soldato che accompagnava a casa Ines.

È tornato quando ormai avevo quasi perso le speranze.

È stato un giorno strano: il tempo trascorso aveva eretto un muro di timidezza, di parole non dette, di esperienze e sofferenze non condivise.

È stata la bambina a rompere il ghiaccio, prendendolo con naturalezza per mano e conducendolo in cortile a vedere le galline, i conigli, e nella vigna, dove i grappoli d’uva di un bel colore viola brillano tra le foglie.

A cena abbiamo cominciato a chiacchierare: sentivo che si stava colmando lo spazio, si riempiva il tempo vuoto dell’attesa.

Ieri sera, quando sono andata a chiudere il cancello, ho pensato di lasciare fuori il mondo e chiudere la porta che conteneva finalmente la mia famiglia.

Lidia

 

7. TEMPO DI PACE

Nella casa di Lidia, quattro anni dopo la fine della guerra, sono nata io: attesa dai miei genitori che speravano in un maschio, e da mia sorella che non vedeva l’ora di avere un bambolotto con cui giocare. Avevo un mondo vario su cui compiere i primi passi: grandi spazi, animali con cui giocare e la natura che ancora resisteva e di cui coglievo i cambiamenti.

La casa, nata nella periferia della città e in mezzo ai campi, fu ben presto attorniata da case popolari per i lavoratori della Riv, casette con giardino, nonché da alcune botteghe.

Mia madre aveva lasciato il lavoro dopo la mia nascita, anche per un male oscuro, che oggi chiameremmo depressione, che si portava dietro dal periodo della guerra per le sofferenze subite, causate anche dal contesto famigliare in cui era vissuta. C’erano periodi bui in cui Lidia ci faceva da madre e prendeva le redini della famiglia. Quando la luce tornava ad avere il sopravvento, entrambe avevano il loro daffare con gli animali da cortile e con una produzione copiosa di frutta e verdura che, se eccedeva, vendevano o regalavano al vicinato.

Mio padre lavorava alla Riv e, come i vicini di casa, al mattino prendeva il trenino che, attraversando la città, lo portava allo stabilimento di Villar Perosa.

Si era ambientato presto, anche se talvolta sentiva la nostalgia della sua famiglia, dei poderi rurali da cui proveniva e della nebbia, la bruma che spesso avvolge in un manto ovattato la pianura padana. Aveva imparato il piemontese, ma riprendeva il suo dialetto se era con i suoi genitori o con i fratelli.

Era un gran lavoratore, faceva turni e straordinari per aumentare lo stipendio. A casa, attingeva alla sua capacità di contadino per occuparsi della vigna, del frutteto e dell’orto. Uccideva con mano sicura gli animali da cortile, nascondendosi ai miei occhi e consolandomi delle perdite.

Era un uomo dolce, ma forte allo stesso tempo, e l’intesa con Lidia fu subito profonda. Lei lo amava come un figlio.

La casa divenne negli anni della mia infanzia il luogo di ritrovo dei bambini della zona che, rinchiusi in piccoli alloggi, trovavano spazio per i loro giochi. Anche le donne, le mamme, trovavano un luogo ideale per chiacchierare all’ombra delle piante del giardino, o accanto alla stufa d’inverno, in attesa delle mele che cuocevano nel forno. I miei nonni di Piacenza venivano a trovarci con il treno ed erano felici per il loro figlio, che vedevano contento e circondato da donne che lo amavano profondamente.

Erano stati fortunati nella grande tragedia della guerra, perché tutti i figli erano tornati dalla prigionia e, a quei tempi, questo era un privilegio di pochi.

Ancora non avevamo il telefono, era la posta a portare le notizie dalle persone lontane. Arrivavano lettere da Piacenza, zeppe di errori, che mia nonna Delfina cercava di scrivere con le poche nozioni imparate a scuola, e lettere che attiravano la mia attenzione e provenivano dall’Argentina. Erano buste leggere, con un bordo di riquadri alternati rossi e blu. Anche i fogli su cui si scriveva erano veline sottili. Guai a fare una macchia d’inchiostro.

Lidia aspettava felice queste missive di Daniele, e comprava l’occorrente della posta aerea per rispondergli.

L’Argentina non aveva subito gli orrori della guerra, e godeva di un prolungato periodo di pace e prosperità economica.

Al potere si succedevano militari, più volte scalzati, fino al sopraggiungere di Peron.

Daniele raccontava della sua vita normale, dei figli che lo avevano reso nonno. Talvolta ci spediva fotografie in cui era ritratto accanto a Dina sulla veranda di casa, attorniato da ragazzi e bambini.

Lidia lo trovava invecchiato precocemente: la perdita del figlio Antonio aveva segnato la famiglia. 

Lei, invece, sembrava non invecchiare mai, godeva di una salute di ferro e da quando aveva la “sua famiglia” era come rinata.

Erano gli anni del dopo guerra, della ripresa. C’era lavoro per tutti, arrivavano dal sud treni carichi di manodopera, tutti avevamo bisogno di tutto: dalle case, agli elettrodomestici, alle auto. Il boom economico era cominciato, ciascuno era chiamato a fare la sua parte e a goderne.

Come mi sembravano lontani i racconti di mio padre sulla sua prigionia, sulla fame patita, mentre io avevo il piatto pieno.

Le case che ci circondavano, nate negli anni successivi alla guerra, ci facevano riflettere sulle poche comodità di quella in cui vivevamo: per viverci degnamente, avrebbe avuto bisogno di una grande ristrutturazione. Mio padre non poteva permetterselo, così finimmo di rinunciare alla “casa di Lidia” per lasciar posto ad alcuni condomini, in cui andammo anche noi a vivere.

I ricordi della casa vecchia, mia sorella ed io, li portiamo sempre nel cuore: lì eravamo nate, avevamo trascorso l’infanzia, festeggiato i nostri compleanni e le feste con gli amici.

Lidia, senza un capello bianco, con chiome lunghe e ondulate che portava raccolte in uno chignon, viveva e gioiva della nostra vita.

È stata presente quando ci siamo fidanzate, ai nostri matrimoni, alla nascita dei nostri figli.

Nel 1975, dall’Argentina, Dina ci comunicò la dipartita improvvisa del marito, che aveva trovato morto nel sonno.

Dopo due anni lo seguì anche lei.

Fu Giovanni a scriverci, in spagnolo, che entrambi non c’erano più.

Sembrava, con questa notizia, che il forte legame tra noi e loro, tenuto vivo dalla corrispondenza di Lidia e Daniele, si fosse spezzato.

 

8.  RITROVARSI

Nel 1982, mio marito dovette andare in Argentina per lavoro. Era solito fare lunghe trasferte all’estero.

Tante volte aveva sentito Lidia raccontare di Daniele e dei suoi figli, perciò chiese qualche giorno di ferie, e da Buenos Aires con un aereo raggiunse Posadas.

Fu accolto con grande affetto, ospitato da Giovanni e dalla sua famiglia, perché il fratello Nicola si era trasferito a Cordoba.

Giovanni aveva due figli, a loro volta sposati e con prole.

Fecero varie grigliate con la buonissima carne argentina, bevvero mate e visitarono le Missioni, in cui i padri gesuiti avevano vissuto e cercato di convertire gli indios Guaranì. Infine si recarono alle famose cascate di Iguazù.

Al suo ritorno, guardavamo le fotografie delle persone e dei luoghi con grande emozione.

A Posadas, nella grande famiglia che si era raccolta per accoglierlo, mio marito Giuseppe aveva trovato un’intesa speciale con il primogenito di Giovanni.

Augusto era un professore di arti visive e, con la moglie Elena, docente di antropologia culturale, insegnava all’Università della città. Nelle lunghe passeggiate che avevano fatto insieme nella Serra e lungo il fiume Paranà, gli aveva parlato della sofferenza dei giovani argentini, specie gli studenti o appartenenti a qualunque associazione culturale, costretti a fuggire e nascondersi per non finire nelle prigioni militari e scomparire per sempre.

Durante il suo soggiorno a Buenos Aires, mio marito aveva avuto occasione di assistere alle storiche riunioni delle madri di Plaza de Majo e di vedere le prime prese di posizione del popolo per quello che era stato uno sterminio di massa di un’intera generazione.

Fu molto colpito dai racconti di Augusto, e dal fatto che, in quanto figlio di un poliziotto, si fosse trovato in una posizione difficile.

In realtà, Augusto aveva sempre difeso l’operato del padre che, pur non avendo una posizione di forza, aveva aiutato molti giovani della zona a espatriare.

Questo viaggio in Argentina, anche se intrapreso da un membro aggiunto della famiglia, rinsaldò i rapporti con i parenti oltre oceano.

Lidia poté vedere in fotografia dov’erano sepolti il fratello e la cognata, la casa in cui avevano vissuto, i luoghi in cui avevano trascorso la maggior parte della vita.

Iniziò così una corrispondenza tra me e Giovanni, fatta da notizie di nascite, matrimoni, vita delle nostre famiglie. Lui scriveva in spagnolo ed io rispondevo nella mia lingua. Sovente ricorrevo al vocabolario per tradurre le cose che non capivo.

Lidia era diventata una vecchietta magra e piccola, non era mai stata alta ma gli anni l’avevano incurvata. Conduceva una vita tranquilla, seduta sul divano, si addormentava facilmente. Cominciò a declinare dopo aver compiuto novantacinque anni e spesso ripeteva che Carlo da molto tempo la stava aspettando…

Si spense una sera d’estate, mentre eravamo tutti da mia madre per festeggiare qualche ricorrenza. Disse di sentirsi stanca, andò a letto e si addormentò per sempre. Aveva novantasei anni.

Scegliemmo per il funerale un salmo che la rappresentasse: “Ho lungamente e pazientemente aspettato il Signore; Ed egli si è inchinato a me, ed ha ascoltato il mio grido”.

Eravamo consapevoli che avesse vissuto una lunga vita, visto due guerre e goduto dell’affetto della famiglia.

Eppure, senza di lei, ci sentivamo orfani: Lidia c’era sempre stata,  aveva contato molto per tutti noi.

Ricevemmo nel duemila la notizia che Augusto ed Elena, il figlio e la nuora di Giovanni, in occasione del giubileo, sarebbero venuti in Italia.  Avrebbero visitato Roma, Firenze, Venezia; il loro viaggio si sarebbe concluso da noi, anche se non potevamo competere con le bellezze che avevano in programma.

Mi misi a studiare lo spagnolo, che però dimenticai subito, appena li vidi scendere dal treno, rivolgendomi loro in italiano.

Furono giornate intense, avevano voglia di vedere tutto: dalla casa dov’era partito il nonno Daniele e che ancora esisteva, alle vigne, al cimitero dove riposavano gli antenati. Restarono stupiti, nel cimitero di San Secondo, di leggere sulla maggior parte delle tombe il cognome Paschetto, da cui era derivato il loro Pasquet.

Erano curiosi di conoscere i luoghi valdesi, la religione del nonno, che lui non aveva mai praticato, anche se in Argentina esisteva la Chiesa valdense di Rio della Plata. Li portammo in montagna, si stupirono nel vedere le nostre Alpi, così diverse dalle loro Ande. Andammo alla Sacra di San Michele e a Torino feci loro da cicerone, raccontando le origini della città e la storia sabauda; visitammo insieme palazzi reali e musei. Godevamo da ambo le parti della ritrovata familiarità.

La sera, stanchi di girovagare, guardavamo le vecchie fotografie, che Lidia aveva conservato, ben riposte in un cofanetto, insieme a un numero infinito di lettere.

Anche loro avevano portato molte lettere che volevano farci vedere. Riconobbi quelle di Lidia, fino alle ultime scritte da me.

Alcune, invece, mi erano totalmente estranee. Arrivavano da Saluzzo, da dove era partita Dina con la famiglia: una corrispondenza fitta con i cugini e i parenti; altre provenivano da un amico, forse un innamorato.

Vi erano poi lettere risalenti al tempo in cui la donna era tornata a Saluzzo con i due figli, per un’assegnazione ereditaria.

Gli interlocutori erano Dina e un certo Mario Ferrero.

Questi scritti ci lasciarono un po' perplessi. Scherzammo sull’idea romantica e un po’ folle dell’innamorato ritrovato.

Poiché era in programma una visita ai parenti della nonna, organizzammo una giornata nella granda, dove ancora viveva una loro cugina: Stella, la figlia di Maria.

Saremmo anche andati a vedere la tomba di Antonio, che era sepolto lì. Alla fine della guerra, i parenti piemontesi avevano pensato di far rimpatriare la salma in Argentina, ma Dina si era opposta.

Nessuno ne aveva capito la ragione.

Salimmo alla Castiglia, da dove si poteva ammirare una vista molto bella della città e delle montagne che incorniciavano la campagna. Erano sempre emozionati i nostri ospiti, nel ritrovare i luoghi da cui erano partiti i loro antenati.

Ci trovammo con Stella nel centro storico di Saluzzo. Era una signora anziana, ma molto in gamba e, seduti al ristorante di fronte alle buone specialità del luogo, ricordava con vivacità Dina e la sua famiglia.

“Antonio”, disse, “mi aveva rubato il cuore con la sua musica.”

Riguardo al Signor Ferrero, il misterioso interlocutore delle lettere della nonna, disse di averlo conosciuto: era stato un bravo musicista, direttore dell’Istituto musicale della città che ancora lo ricordava, e ci avrebbe mostrato la sua tomba al cimitero.

Antonio era sepolto nella tomba dei caduti per la liberazione, insieme ai cugini. Non lontano, in una tomba di famiglia, riposava Mario Ferrero. Una donna, accanto al cancelletto di ferro, era intenta a disporre fiori, e Stella la chiamò per presentarci.

Era Maria Grazia, la nipote del defunto, con cui aveva vissuto fin da bambina, poiché i suoi genitori erano morti in un incidente. Accanto allo zio era sepolto anche il fratello di lei, Sergio, giustiziato alla fine della guerra dai partigiani.

La donna, quando seppe chi fossero gli ospiti, c’invitò a seguirla a casa sua, perché, disse, aveva qualcosa che “voleva restituire”. Si trattava di lettere dall’Argentina, che suo zio aveva conservato e lei aveva letto dopo la sua morte.

Di fronte ad una tazza di tè, nell’austero salotto di una bella casa di Saluzzo, si spiegarono molte cose. Ai nostri occhi si svelò l’intreccio che, come trama e ordito, aveva unito le vite di Mario e Dina.

La loro storia d’amore, repressa e poi ritrovata, era tornata nell’ombra in tempi in cui “onore e dovere” non erano solo parole.

I giorni erano trascorsi e arrivò quello della partenza di Augusto ed Elena: ci lasciammo, consapevoli di aver stretto un legame profondo, e con la promessa di rivederci.

Ormai non si dovevano più affrontare lunghe traversate, ma comodi voli transoceanici, un giorno, ci avrebbero fatti di nuovo incontrare.

 

9. EPILOGO

Pinerolo, 31 luglio 2000

Carissimi,

penso stiate sorvolando l’oceano mentre sto scrivendo. Non è solo la nostalgia, anche se è presente in me, che mi spinge a farlo così presto, ma un fatto successo dopo la vostra partenza.

Stavo riordinando le fotografie di Lidia e le lettere che abbiamo visto insieme, quando Minù mi è saltata in braccio, com’è solita fare, e ha fatto cadere la scatola che le conteneva. Era un bel cofanetto antico, se ricordate, e mi spiaceva perché nell’urto si è rotto.

Ho provato a ricomporlo, ma non ci riuscivo e non capivo perché i lati non combaciassero più. Ho poi scoperto perché. Nel coperchio c’era un foglio, celato dall’imbottitura, che nell’urto era uscito in parte. Conteneva una lettera che Lidia ha sempre tenuto segreta. Questo è il testo:

 

Piroscafo Principessa Mafalda, 20 dicembre 1920

Cara Lidia,

ti scrivo dalla nave, in una bella notte di luna. I ragazzi dormono e io sono salita sul ponte e guardo l’oceano.

Sono salpata il giorno 16, ho seguito il tuo consiglio, ma il mio cuore è pesante e non ho l’animo in pace, nella consapevolezza di aver fatto la cosa giusta.

Oltre a portarmi nel cuore l’amore di Mario, che non potrò mai dimenticare, so che gli sto sottraendo una cosa che avrebbe desiderato tanto: un figlio.

Ho avuto la certezza di essere incinta e, al dolore di averlo lasciato, ora si aggiunge il senso di colpa che provo per gli uomini della mia vita. Per Daniele, a cui farò credere che sarà di nuovo padre, e per Mario che non potrà mai stringere fra le braccia suo figlio o sua figlia.

Non so come potrei fare altrimenti, non voglio sconvolgere la vita della mia famiglia e fare di Mario un uomo senza onore.

Porterò per sempre nel cuore questo segreto, però stanotte ho bisogno di condividerlo con qualcuno.

Non tornerò mai più in Italia e prego Dio perdoni questa mia colpa.

Le costellazioni qui sono luminosissime, sembra di poterle congiungere con un filo. Siamo così piccoli di fronte alla grandezza del creato, un granello di polvere che s’illumina un attimo e poi si spegne. Chissà che cosa ci riserverà il futuro?

Cara Lidia, ti auguro ogni bene e spero tu possa realizzare il tuo desiderio più grande: avere una famiglia.

Ti abbraccio forte,

Dina

 

 

 

Autore: Marinella Undilli
Data: 14 dic 2020