DA SPALLONI A PARTIGIANI

La strada sfuma all’orizzonte, inghiottita da nuvole che gravano sulla terra, e io, un passo dopo l’altro, consumo le mie scarpe, la suola abrasa dal passo strascicato. I miei piedi reclamano un riposo che non voglio dargli, ma, raggiunto il porto, ormeggiata alla banchina, c’è la mia barca a vela: salgo a bordo e mi siedo. Lascio scorrere lo sguardo sulle onde crestate di bianco: stasera cambierà il vento e i flutti si alzeranno. Buffo per un montanaro come me saper leggere il mare. Accendo la pipa e scuoto la testa per cacciare indietro punture moleste, punture di vespe. Scuoto la testa e le vespe svaniscono come certi sogni all’alba. Ho male ai piedi: hanno ragione a dolersi, credo di aver macinato chilometri bastanti a fare il giro del mondo nella mia lunga vita.

Nel tempo, ho cercato di seppellire i ricordi sotto un grande amore, molte avventure, tante risate.

Ed eccolo a turbare il mio equilibrio l’invito a raccontare la mia storia, la montagna… un invito che non voglio accettare, perché risveglia un passato che basta svoltare l’angolo per ritrovarlo, più presente che mai. Riaccendo la pipa, le mie nuvole di fumo gareggiano con quelle in cielo. Penso che forse dovrei accettare, che in un modo o nell’altro la mia parte l’ho già fatta, e per quanto a volte pensi il contrario, il passato resta passato.

Così, non del tutto convinto, mi ritrovo sul treno: da Sanremo alle montagne che fanno da confine tra Lombardia e Svizzera, faccio un viaggio al contrario, riavvolgendo all’indietro la mia vita.
Nel vagone trovo posto tra due sedili frontali con un tavolino in mezzo. Ho voglia di scendere. Mi alzo in piedi: il treno si muove. Troppo tardi!

Seduti di fronte, una coppia di giovani mi lancia un’occhiata distratta, si eclissano fagocitati dal cellulare. Il posto accanto al mio è libero, sto per sistemarci zaino e giacca, quando arriva una signora piuttosto anziana ma ancora avvenente. Le sorrido e libero svelto il sedile; lei ringrazia. Mentre tenta di sollevare una piccola valigia verso il portabagagli, mi alzo per aiutarla, ma l’occhiata che mi scocca mi fa sedere.

“Non sono così vecchio come sembro” cerco di protestare, con una voce che dimostra il contrario.

“Non si preoccupi. Mi aiuteranno questi ragazzi. Vero?” dice, mentre i due alieni riemergono dai telefonini.

“Faccio io!” dice lo spilungone barbuto col cranio rasato.

Solleva la valigia come fosse una pagliuzza e in pochi secondi si riannulla nello smartphone. La ragazza accenna un saluto, e torna a immergersi in questo aggeggio tecnologico che detesto. Lancio un’occhiata velenosa al giovane aitante, sono invidioso, sto pensando che gli darei volentieri un calcio, però assumo la mia aria consumata da latin lover stantio e con il sorriso migliore che pesco nel repertorio saluto la signora e attacco bottone.

“È di Sanremo?”

Lei si gira togliendosi la giacca: per miracolo non mi viene un colpo. Mi raggiunge il suo profumo: non lo sentivo da anni, un profumo non più di moda, lo stesso che usava mia moglie. La nostalgia, come uno stiletto ghiacciato, gioca col mio cuore. Mi sento impallidire.

“Scusi signore, sta bene?” chiede lei passandomi in rassegna. Sono un medico…”

Cerco di riavermi, forse sto già bene, perché i miei occhi non nascondono l’aria divertita.

“Così, lei è un medico?” chiedo sporcando il tono con l’ironia.

“Veramente lo ero… sono in pensione da un po’” risponde, colorandosi in viso e mostrando una piccola smorfia simpatica. “Lo sa, vero, che alla mia età gli anni di troppo non si nascondono più.” La smorfia si trasforma in una aperta risata che condivido.

“Sono un idiota, mi perdoni. Mi chiamo Dino”

“Io Miriam, piacere di conoscerla” dice, allungando una mano che stringo con delicatezza tanto è minuscola.

“Lei è di Sanremo?” le richiedo.

“No, di Genova: da pensionata ho preferito ritirarmi in un posto meno caotico, anche se d’estate è troppo affollata. E lei di dov’è? Non ha l’accento ligure…”

“Vivo a Sanremo da molti anni, ma sono nato lontano, in Lombardia, quasi in Svizzera”

“Come si trova un montanaro al mare? Le manca la neve, l’orizzonte chiuso dai picchi? Lo sa che è la prima cosa che noto quando vado in montagna? Credo sia per il fatto che al mare l’orizzonte è libero, niente scherma il cielo, se non le sagome delle navi o delle vele.”

“Non ci crederà, ma le vele ho imparato a farle volare, sono diventato un marinaio e ho portato gente sul mio scafo a fare crociere per poche persone. Quelli che potevano spendere, sa?”
La mia schiena si drizza orgogliosa, anche per lo sguardo ammirato di lei.

“Mi ha colpito la storia dell’orizzonte, è un pensiero profondo,” le dico, guardandola bene in faccia.

“Forse è l’abitudine di fare diagnosi, mettere insieme fatti e indizi e trovare risposte.”

Sono sempre più ammirato, questa signora comincia a piacermi sul serio.

“Torno in montagna, al mio paese, ma solo per pochi giorni. Lei dov’è diretta?”

“Anch’io vado in montagna, in Lombardia, quasi Svizzera, come ha detto lei prima.”

“C’è già stata da quelle parti, conosce quei monti?” chiedo, sentendo crescere l’interesse.

Lei non risponde, fissa le dita della ragazza che sfiorano veloci lo schermo del cellulare. Le guardo anch’io. Poi le ripeto la domanda.

“Ci sono stata con i miei genitori, quelle montagne le abbiamo attraversate, ma ero troppo piccola per ricordarlo.”

La signora sembra stanca e io mi sento turbato. Rimaniamo in silenzio a fissare il paesaggio che scorre veloce dal finestrino.

Presto avverto il bisogno di parlare. “Io quei monti li conosco come le mie tasche, sono nato a Viggiù, ma ci consumavo gli scarponi scavalcando le montagne tra i due confini.”

La signora mi osserva con attenzione, noto che ha le guance rosa e gli occhi neri. I miei sono nocciola dorato, grandi, in un volto dai tratti infantili invecchiati. Piacevano alle donne e io ci marciavo su a più non posso.

Intanto siamo nei pressi della stazione Centrale di Milano.

“Io scendo qui” dico.

“Anch’io” dice la signora.

Ci alziamo e lo spilungone ci tira giù le valigie. Lo ha fatto autonomamente. Sta a vedere che devo ricredermi sulla cortesia dei giovani d’oggi…

Ci avviamo verso l’atrio, noto che lei si guarda intorno, come se cercasse qualcuno.

“Vengono a prenderla?” le chiedo.

“Si, avrà in mano un cartello, lo riconoscerò da quello.”

“Strano, è così anche per me…”

Tra la gente, scorgo un uomo vestito bene: mostra un cartello con su scritto ‘ANPI di Viggiù’ 

“Ecco il mio uomo,” dico agitando una mano,

“Veramente, è anche il mio,” dice lei con aria perplessa.

Lui ci viene incontro: “Buongiorno, anche se è la mezza passata,” osserva sorridendo, “Non ho faticato a individuarvi, aspettavo due persone, non sapevo vi conosceste.”

“Infatti non ci conoscevamo, eravamo seduti accanto in treno e abbiamo scambiato qualche parola” spiego, notando l’espressione pensierosa della signora.

“Allora presentiamoci per bene: mi chiamo Sandro Villa, sono il presidente dell’ANPI di Viggiù: come avete già potuto leggere nell’invito, siamo onorati di avervi con noi.”

“Mi chiamo Miriam Foa, e l’onore è mio,” dice la donna.

“Io sono Dino Sclavis, felice di conoscervi”.

“Sarete affamati, andiamo a mangiare, poi ci metteremo in viaggio per Viggiù. Ho preferito venirvi a prendere qui piuttosto che sapervi alle prese con cambi di treno e scomodità simili.”

Di fronte a un buon risotto giallo e vino rosso le lingue si sciolgono.

“Ho i racconti di mio padre sulla vita durante la guerra: lui e gli altri partigiani rimasti in paese hanno dato vita all’associazione, so che c’era anche lei, signor Dino. Loro raccontavano sempre le sue imprese…”

Alzo la mano per interromperlo. “La prego, Sandro… la verità è che non si può stare in mezzo al guado quando l’onda di fango ti sommerge, per questo sono convinto che nella vita bisogna essere partigiani. In sostanza odio gli indifferenti, ma queste cose le ha scritte benissimo Gramsci.”

“Lei, Dino, è uno di quei combattenti ai quali dobbiamo la libertà e in tantissimi casi anche la vita” dice Miriam, con l’aria seria e commossa.

Scuoto il capo in segno di diniego e mi preme chiarire: “Difficilmente la vita è una linea retta, quasi sempre è un sentiero tortuoso di montagna, e poi valgono tanto le circostanze, quelle sì che possono fare davvero la differenza.”

“Questo mi interessa moltissimo, continuiamo in macchina, se no facciamo tardi” dice Sandro, alzandosi.

Miriam è seduta accanto a lui, che guida con perizia. Io, spaparanzato sul sedile dietro, osservo il paesaggio, con sempre meno case e più campi.

“Vorrei che continuassimo il discorso di prima, se siete d’accordo,” dice Il guidatore, scrutandomi dallo specchietto retrovisore. Miriam si gira verso di me e annuisce.

“Prima accennavo alle circostanze: ad esempio, dopo l’8 settembre, molti dei ragazzi chiamati alla leva si rifugiarono in montagna e divennero partigiani. L’alternativa era rimanere con Mussolini a Salò, o farsi catturare e deportare dai tedeschi.”

“Solo questo?” chiede Sandro.

“Naturalmente no! Prendi me e tuo padre… sai per mangiare che mestiere facevamo? Sai che le poche bestie e la terra della montagna non sfamavano le famiglie numerose di allora?”

“So che la vita era molto dura,” risponde Sandro.

“Appunto! Per questo, in una zona di confine come la nostra, si diventava spalloni con la bricolla in spalla. Anche mia sorella Marisa, che aveva quattordici anni, ha fatto il contrabbando per tanti anni: eravamo in otto e senza il padre partito per la guerra. Io avevo ricevuto la cartolina della leva, mi sono unito a una brigata Garibaldina.”

“La necessità fa fare anche cose illegali: è più che giustificato, in questo caso. Ma che cosa si contrabbandava?” chiede Miriam

“Questo lo so io!” dice Sandro deciso, “La Svizzera neutrale era circondata dalla guerra che impediva i suoi commerci e noi avevamo bisogno di altri prodotti, con quell’idiozia dell’autarchia, come se non fosse bastata già la guerra. Si contrabbandava riso, sigarette, carne, zucchero, sale ed altro.”

Io confermo: “Durante la guerra, portavamo riso agli Svizzeri; prima eravamo noi, più che altro, a prendere merci da loro.”
Mi lancia un’occhiata dallo specchietto, vede i miei occhi chiusi. “Sta dormendo, non lo disturbiamo,” dice a Miriam facendole segno di tacere.

I miei occhi guardano all’indietro, sento il vento freddo sulla faccia, il rumore dei ciottoli calpestati dagli scarponi su sentieri impervi, per evitare i finanzieri, su quelle frontiere che per i montanari non erano mai esistite. Sugli alpeggi c’erano famiglie svizzere in Italia e viceversa: spesso un semplice cippo di pietra divideva i due paesi.

Finalmente arriviamo a Viggiù, Sandro ci accompagna in albergo. Io e Miriam ci ritiriamo nelle nostre stanze. La mia camera ha una grande finestra, mi affaccio, noto che siamo vicini al sentiero da dove partivamo.

Ripenso alla notte in cui la mia merce era cambiata: il comandante di Brigata mi aveva affidato il compito di far attraversare il confine agli ebrei in fuga.

“Arriveranno scortati dagli scout, che li hanno forniti di documenti falsi,” mi aveva detto. “Tu sei il più esperto. Ci sono infiltrati fascisti anche tra di noi, stai attento.”

Dovevo incontrarli in serata, all’inizio del sentiero che parte dal centro del paese: erano sei uomini e tre donne, poco attrezzate per la notte sui monti.

Rivedo la via stretta tra le case, che sale per poi addentrarsi nei boschi. Poi, per chilometri, zone disseminate da trincee, gallerie e fortini della guerra del 1915, fino ai mille metri del Monte Orsa.

Ogni notte su alla cieca, nel buio, sperando e temendo la luna piena, che illuminava il sentiero ma ci rendeva visibili.

Bussano discretamente alla mia porta, è Miriam che vorrebbe cenare insieme. Accetto con piacere.

“Per me una minestrina” dico al cameriere.

“Per me lo stesso. Meglio tenersi leggeri la sera, è più salutare”

“Ah, già, dimenticavo che è un medico!” Ridiamo entrambi.

“Se posso permettermi, vorrei che mi parlasse di queste montagne, di allora…”

L’espressione timida di lei mi rimescola dentro, non mi faccio pregare.

“C’erano anche altri passatori che si univano alla Brigata. Uno di questi, Nello, mi fu affiancato dal comandante. Era un ragazzo socievole, che amava scherzare, come me, così diventammo subito amici. In due avremmo potuto accompagnare più persone. Ne arrivavano in continuazione, soprattutto ebrei che fuggivano disperatamente dalla deportazione nei lager.”

Miriam rabbrividisce vistosamente.

“Se la turbo smetto subito, forse è meglio anche per me,” dico stropicciandomi le mani.

“La prego, continui. Voglio sapere.” Allunga una mano e sfiora leggermente la mia.

Sospiro profondamente e riprendo.

“Una notte, una squadra fascista ci sorprese e fummo costretti alla fuga. Aiutai le persone a percorrere un sentiero erto e con pochi appigli, ma non avevamo alternative. Nello restava indietro a chiudere il gruppo. Dopo diversi minuti sentii degli spari, l’urlo di Nello, poi il silenzio: sapevo che il mio dovere era portare in salvo quella gente, ero disperato, non potevo fare niente per il mio amico.

Arrivati al confine, trovammo i contatti, le persone erano in salvo. Di solito ci nascondevamo da qualche parte per dormire qualche ora prima del ritorno, ma quella notte avevo l’urgenza di sapere cosa era accaduto al mio amico, come mai i fascisti si erano spinti così in alto.

Quando arrivai alla Brigata, Nello era già lì, illeso. Mi raccontò che aveva urlato per farmi capire che i soldati lo dividevano da noi, poi si era precipitato nel bosco ed era riuscito a tornare, distrutto, perché non aveva potuto far niente per noi. Ci abbracciammo piangendo: gli chiesi perdono, lui fece lo stesso con me.”

“Ha altri racconti?” chiede Miriam, tormentandosi il mento.

La mia voce è un sussurro. “Da quella volta, il sentiero solito diventò troppo pericoloso, i fascisti arrivavano sempre più spesso. Una notte, con noi c’era solo una famigliola di tre persone: padre, madre e una piccolina di un paio d’anni, con un cappottino rosa, che abbracciava stretta una bambolina di pezza. Era quasi inverno, e loro non erano vestiti a sufficienza per il gelo che ci aspettava fuori. Ai piedi avevano scarpe da città avvolte in pezze di lana, portavano valigie pesanti, il padre aveva anche la bimba sulle spalle… dopo pochi chilometri si era fermato esausto.

Dissi all’uomo che avrei sistemato la bimba nella bricolla, così stava più al caldo. La madre mollò la valigia e mi abbracciò, mi disse parole piene di riconoscenza. Il padre mi strinse la mano, disse che quando tutto sarebbe finito mi avrebbe cercato per sdebitarsi. Notai che Nello stava in disparte, a testa bassa. Ci muovemmo: era necessario ripartire presto. Stavamo uscendo da un cunicolo, quando apparvero dei nazifascisti con i fucili puntati. Mi liberai della bricolla e sussurrai ai due ebrei di scappare, di tornare indietro. Nello si portò alle mie spalle e mi puntò la canna del fucile tra le scapole: ero impietrito dalla sorpresa e dall’orrore. “Perché?” chiesi.

“I tuoi ebrei li lascerò andare, ma tu devi venire con noi, questo è il patto, la tua vita per la loro.” Chinai la testa e mi arresi.

“Come fanno le persone a essere così spietate? Che vigliacco!” il viso infuriato di Miriam mi aiuta a continuare.

“Furono giorni di torture, non sapevo quanto avrei resistito, e mi feriva la smorfia feroce di Nello che mi gridava ‘traditore della Patria, bastardo comunista’. Urlava che lui sarebbe sempre stato fascista e che era colpa nostra se stavamo perdendo la guerra. Trovai la forza di chiedergli della famiglia ebrea. ‘Non sono un bastardo come te,’ rispose. Poi mi colpì alla testa con fucile e persi i sensi.

“Come ha fatto a salvarsi?” Miriam cerca i miei occhi, i suoi sono pieni di tenerezza.

Il suo calore mi incoraggia a parlare. “Mi risvegliai riverso sulle rocce dure come l’acciaio, tremavo dal freddo e dal dolore, sentivo degli spari, molti spari, credevo di avere le allucinazioni, quando vidi il comandante di Brigata chino su di me.

“Hai la pelle dura, Dino. Li abbiamo battuti quei bastardi nazifascisti. Ti portiamo in casa di amici, ti curerà un medico. Forza, è tutto finito.”

Passai dei giorni in uno stato di semicoscienza. Una ragazza, in particolare, si prendeva cura di me, era talmente bella che non sapevo se ero sveglio o sognavo. Ci siamo poi sposati.  Finalmente guarii, anche se i segni delle ferite, sul corpo e nell’anima, quelle restano. Ma ero vivo e non dovevo lamentarmi. Però, in tutti questi anni, non mi ha mai abbandonato il senso di colpa nei confronti di quella famiglia, di quella bimba. Non ne ho saputo più niente. Se avessi capito chi era veramente Nello, si sarebbero salvati. È colpa mia…”

Miriam si alza, mi abbraccia, le nostre lacrime si mescolano.

Il giorno dopo, Sandro mi informa che Miriam è già uscita, ci incontreremo alla sede dell’ANPI: i pochissimi partigiani rimasti commemorano quelli che hanno perso la vita per il liberare il nostro paese.  Sto parlando io, quando vedo entrare Miriam, con un cappotto rosa e una bambolina di pezza in braccio.

Meno male che sono seduto, ancora un po'  il cuore mi esce dalla gola.

“Volevamo farti una sorpresa,” dicono Miriam e Sandro.

“Volevate farmi fuori, eh?” balbetto, mentre Miriam mi stringe in un abbraccio.

“Ci avevano abbandonati sulla neve, per fortuna sono passati degli spalloni che ci hanno condotto alla frontiera. Ci avete salvato. Grazie, Dino.”

È un mare salato di felicità a sollevarmi leggero come una piuma, come un’onda lava il mio senso di colpa.

 

Autore: Teresa Surdo
Data: 23 gen 2023