2020 CRONACHE DI UN TEMPO SOSPESO
20 febbraio 2020
Lucio infila la chiave nella toppa, impaziente di entrare. L’odore di arrosto e patate rosolate risveglia la fame sopita, bussando alla bocca del suo stomaco.
Giuli si dà da fare in cucina, con tegami e padelle: lui le arriva alle spalle a passi felpati, l’abbraccia, lei fa un salto ed emette un gridolino.
- Ma quando la smetti di farmi prendere questi spaventi?
- Mi sei mancata, Giuli.
La bacia e le mordicchia un orecchio, piccolo e ben disegnato. Lei finge di divincolarsi, ma lo tiene stretto. Un sentore di bruciato si leva dai fornelli.
- Lucio, smettila o la nostra cena va in fumo! Lavati le mani e vieni a tavola.
Quando torna in cucina, il cibo è già sul tavolo, apparecchiato con piatti bianchi di porcellana e bicchieri di cristallo. Un gusto ereditato da sua madre.
- Com’è andata al lavoro oggi? Quanti hacker hai scoperto? - chiede Lucio.
- Stiamo lavorando ad alcuni algoritmi, l’informatica è in continua evoluzione.
Giuli ha la faccia seria, aggrotta le sopracciglia. Sta per imbarcarsi in spiegazioni che al momento Lucio non ha voglia di sentire: si affretta a precederla.
- Il tuo collega ti ha ancora insidiata? Ha cercato di approfittare di te alla toilette? - chiede ridendo.
Lei abbandona di colpo le dissertazioni informatiche, scoppiando in una risata irrefrenabile; getta il capo all’indietro e mostra il collo, adornato da un filo d’oro sottile.
- Non ci crederai: oggi è successa una cosa incredibile. Il mio collega alla toilette mi ha seguita davvero.
Lui strabuzza gli occhi, tossisce per il boccone andato di traverso.
- Non ci posso credere! - dice, - la voce ancora rotta dalla tosse.
- Giuro! - conferma lei, incrociando l’indice e il medio della mano destra e baciandoli da ambo i lati.
- In realtà, io ero entrata in uno dei gabinetti, è stata Aurora a beccarlo: lo ha visto chino davanti a una porta, intento a guardare dal buco della serratura. Quando gli ha urlato “Che cosa fai?” è scappato. Da dentro avevo sentito tutto, mi sono affrettata a uscire e mi sono trovata davanti il viso sconvolto di Aurora, mentre sbraitava:
“È un porco! Non si può tollerare questa situazione! Vado a raccontarlo al capo.”
Così, è successo il finimondo. Il capo ha chiamato il ‘guardone’ e lo ha incenerito. Sentivamo la sua voce dai nostri uffici: “Se lo fai un’altra volta ti licenzio, e ora fuori dalle palle, prenditi un permesso e sparisci.”
L’espressione di Lucio passa dal divertito al pensieroso.
- Poveraccio. È evidente che ha bisogno d’aiuto.
- Sì, lo credo anch’io. Il capo è venuto a comunicarci che lo “solleciteranno caldamente” a farsi curare, pena il licenziamento.
I due si dedicano a svuotare i piatti e far abbassare il livello di una bottiglia di Barbaresco.
- Una cena squisita, grazie Giuli. Che ne dici se sparecchiamo?
Pochi minuti dopo passano nel salone: le note di “Who Want to Live Forever” si librano nell’aria. Lei va verso di lui, sprofondato nel divano di pelle nera, accennando passi di danza; la sua figura snella e sensuale sembra avvolgersi nella musica, i lunghi riccioli neri ondeggiano. Gli si tuffa addosso facendogli il solletico: lui cerca di difendersi afferrandole le mani, poi la solleva portandola in braccio fino al letto. La luce soffusa di un abat-jour pervade di rosa la stanza, fanno l’amore: ed è una cosa naturale, come respirare, priva di complicazioni ma essenziale e vitale come l’aria. Rimangono allacciati: lui le circonda le spalle con un braccio.
Giuli solleva la testa, i suoi occhi stretti e scuri sono a pochi centimetri da quelli azzurri di lui.
- Che c’è, Lucio? Ho notato il tuo viso stanco appena sei entrato. Problemi in ospedale?
- In effetti, stanno succedendo cose strane: arrivano nel mio reparto persone con un tipo di polmonite molto aggressiva, una manifestazione violenta dell’influenza. Difficilmente ho visto polmoni così compromessi, con difficoltà respiratorie tali da rendere scarso il beneficio dell’ossigeno.
Giuli apre la bocca per dire qualcosa, desiste, gli riempie il viso di baci. Poi si scosta e scende dal letto. Si allontana a piedi nudi: torna con un flacone d’olio profumato.
- Girati a pancia in giù.
Lui ubbidisce, lei comincia a massaggiargli la schiena. Il calore delle sue mani e gli effluvi dell’olio lo rilassano. Dopo qualche minuto si abbandona al sonno. Lo squillo del telefono li fa sussultare. Lucio allunga la mano e afferra il ricevitore.
- Pronto. Sì, sono io. Ok. Vengo subito.
Lancia un’occhiata alla sveglia: segna le quattro e mezzo.
21 febbraio 2020
La suoneria penetra le sue orecchie, cercando di farsi strada fino al cervello. Il sonno le tiene la testa sul cuscino, “la maledetta” insiste: Giuli la fa tacere con una manata, quindi accende l’abat-jour, costringendosi ad aprire gli occhi. Ha la sensazione di essersi addormentata da poco. Poi ricorda: si era alzata con Lucio, dopo la chiamata dall’ospedale, voleva fargli un caffè. Un bacio rapido: lui è uscito, lei è tornata a letto.
Si alza, trascinandosi in bagno in preda agli sbadigli. Una lunga doccia per affacciarsi al nuovo giorno. Si veste con cura, scegliendo un completo azzurro, collana e bracciale di turchesi.
Si avvolge in una generosa spruzzata di profumo - adora le essenze - infine indossa giacca e scarpe.
In garage avverte un soffio d’aria fredda, eppure l’inverno è stato insolitamente mite. Anche oggi c’è un bel sole. Si butta nel traffico di Milano, imprecando contro gli automobilisti che vanno troppo piano o che sorpassano come pazzi.
Finalmente spegne il motore nell’enorme autorimessa della Compagnia Internazionale d’Informatica, presso la quale lavora. Ed è come entrare in un’altra città: talmente grande da occupare la metà di un edificio in vetro e acciaio di undici piani, brulicante di oltre duemila dipendenti.
Gli ambienti sono lussuosi e moderni: nonostante lei ci lavori da cinque anni, da quando ne aveva ventisette, ne rimane incantata tutte le volte. Al quarto piano, la porta del suo ufficio è la prima a destra. Aurora è in piedi davanti alla loro postazione. Con lei condivide l’ampio piano di lavoro, dove troneggiano due computer di ultima generazione, grandi schermi, stampanti, telefoni. Più avanti ci sono altre tre postazioni con sei addetti alle loro direttive. Giuli saluta tutti e si lascia cadere sulla sedia rivestita di stoffa rosso carminio. Un bel contrasto col resto degli arredi bianchi.
Aurora la squadra e scuote la testa: si siede a sua volta, girandosi verso di lei con fare malizioso.
- Benedetta gioventù! Sesso selvaggio anche stanotte?
- Ma se hai la mia età…
- Vedrai che, quando avrai un figlio, i bollenti spiriti si calmeranno.
Giuli la segue nella risata contagiosa.
- Ho un aspetto così terribile? - chiede preoccupata.
- Hai l’aria di una che ha dormito poco.
- Lucio è stato chiamato dall’ospedale in piena notte. Ieri sera era preoccupato per i casi di polmonite in aumento…
La faccia di Aurora si fa seria. Si passa le mani sui capelli castani, dal taglio sbarazzino.
- Temo che stiamo prendendo tutto sottogamba, è come se non volessimo capire. Eppure i segnali che dovrebbero allarmarci ci sono tutti.
Si ferma un attimo, come per riflettere.
- Il 31 gennaio, abbiamo avuto la dichiarazione dello stato di emergenza per sei mesi: c’è la possibilità concreta che il virus sia già tra noi.
- È vero, - conferma Giuli, - tuttavia mi pare che i nostri governanti e la Protezione Civile si stiano muovendo bene: lo stesso 31 gennaio hanno sospeso tutti i voli da e per la Cina.
Il viso aperto e cordiale di Aurora le rimanda un’espressione perplessa.
- Boh! Giuli, non condivido il tuo ottimismo, forse perché ho un bimbo di quattro anni. Che mi dici dei due turisti cinesi ricoverati il 31 gennaio a Roma e trovati positivi? Se non si fossero sentiti male, avrebbero sparso il virus, alla faccia dei controlli. Sospetto che i cinesi abbiano rivelato l’esplosione del contagio quando i buoi erano già scappati dalla stalla.
Giuli sente il bisogno di stropicciarsi il viso.
- Ho capito, - dice Aurora, - hai un disperato bisogno di caffè. Facciamo un salto al bar.
L’adesione è entusiastica. Attraversano lunghi corridoi e scendono al piano terra: l’atrio, luminoso e accogliente, è arredato con mobili di famosi designer e sculture moderne. Sulla parete di fronte all’ingresso principale c’è il bar, tutto acciaio e cristalli, così bello, da rivaleggiare con quello dell’Hotel Bulgari. Si sistemano sugli sgabelli e Aurora ordina due caffè doppi. Giuli approfitta dell’attesa per riprendere il discorso.
- Nessuno, - afferma, - dai tempi della Spagnola, si è trovato ad affrontare una pandemia. Una cosa spaventosa. Per fortuna ora abbiamo molte più conoscenze, quindi, più possibilità di uscirne. Arrivano i caffè che ingoiano bollenti, una consuetudine dagli anni dell’università. Si alzano, Aurora ha un fisico imponente e la sovrasta di tutta la testa, benché lei sia di statura media. La piglia per un braccio e la guida verso l’uscita.
- Abbiamo perso troppo tempo, Giuli, oggi saltiamo pranzo. È arrivato l’ultimo studio, dalla sede centrale, si chiama: “Tecnologie avanzate che supportano nuove strategie per la sicurezza di reti e sistemi informativi”.
L’altra spalanca la bocca, sinceramente stupita.
- Wow! Nientepopodimeno che dalla California.
Rientrando in ufficio, le accoglie il trillo del telefono. Aurora solleva la cornetta.
- Certo, veniamo subito. - A rapporto dal capo.
Un ometto con la testa grossa e lenti da miope le aspetta, seduto impettito su una poltrona presidenziale. È la classica persona a cui, incontrandola per strada, non daresti due lire. Invece, nel campo dell’informatica, è una delle menti più brillanti del paese, se non del pianeta. Le invita a sedersi. Il tremolio delle sue mani segnala grande eccitazione. La voce da tenore in quel fisico minuto è sorprendente.
- Come ho già accennato ad Aurora, è arrivato l’ultimo studio dalla California. Inutile dire la grande novità di questo lavoro. Un approccio nuovo alla lotta contro gli hacker. La nostra sede è stata scelta per vagliare, sperimentare il loro studio e trovare eventuali falle, punti di vulnerabilità. È un compito enorme, e ha dell’incredibile che lo abbiano affidato a noi.
Giuli scambia un’occhiata con Aurora, la loro mimica non nasconde una sfacciata soddisfazione.
- Capo, se mi permette, lei, anche se lavora a Milano, è uno dei classici esempi di fuga dei cervelli italiani all’estero, - dice Giuli sogghignando.
- La penso anch’io così. - aggiunge Aurora - La nostra Compagnia è americana e tutti i nostri lavori appartengono all’America.
Lui annuisce e stringe le labbra, una rabbia sopita dà un timbro particolare alla sua voce.
- Il nostro paese non crede nella ricerca, purtroppo! Nondimeno, oggi più che mai, rischiamo di pagarlo caro. Tra le poche offerte di lavoro che ricevetti, in passato, ce n’era una del Ministero della Difesa: lo stipendio era talmente misero che mi ci sarebbero voluti anni prima di rifarmi, anche solo dei costi dei master che avevo frequentato. Non posso pensarci!
- Nel nostro piccolo, anche per noi è stato così, - conferma Giuli, indicando Aurora.
- Ok. Basta divagazioni. Tra tutti i manager, ho scelto voi due per questo incarico. Il vostro master si avvicina maggiormente a quello che serve per analizzare questo studio. Buon lavoro.
Fuori dalla porta trattengono a stento grida di giubilo. Si abbracciano scambiandosi pacche sulla schiena. Giuli stenta a tenere basso il volume della voce.
- I nostri genitori si sono svenati, solo il corso è costato venticinquemila dollari. Però, Aurora, ne è valsa la pena.
- Devo ammettere che il master in America, era la giusta conclusione dei nostri studi. Adesso tutto questo cade proprio a fagiolo!
Lucio è appena uscito dalla doccia. L’accappatoio non riesce a nascondere il suo corpo muscoloso. Giuli, appena rientrata, si fionda per abbracciarlo, ma lui alza una mano fermandola. Non era mai successo.
- Non starci male, Giuli… ti spiego tutto dopo. Mi vesto in un attimo. Ho una fame da lupi, propongo di mangiare gli avanzi di ieri sera. Ho delle cose da dirti.
Lei cerca di darsi un contegno, concedendogli un sorriso forzato. Mentre prepara la tavola, ripensa a quello strano comportamento. Non sa se arrabbiarsi o aspettare di capire.
- Raccontami come ti è andata oggi, - chiede Lucio entrando in cucina.
Stavolta il sorriso che le stira le labbra è autentico.
- Oggi è successa una cosa impensabile. Gli americani ci hanno affidato un lavoro difficile che richiede grandi competenze.
Gli occhi di Lucio sono due punti interrogativi.
- E indovina a chi lo hanno assegnato?
Lei lascia che la domanda crei la giusta suspense.
- Ma dai… sto pensando la cosa giusta? Non dirmi niente. Scommetto che lo hanno affidato a te e Aurora.
- Bravo, dottore. Risposta esatta! Ti sei guadagnato una cena niente male. Tagliere di salumi, formaggi e gli avanzi di ieri.
- Ci vuole una bottiglia speciale per festeggiare, che ne diresti di un Roero Arneis?
- Ottima scelta.
Si siedono a tavola, fanno un brindisi al nuovo incarico e alla loro salute. Tuttavia lei non resiste a lungo: sottopone Lucio a una raffica di domande.
- Come ti avevo accennato ieri, polmoniti aggressive ci stanno mettendo in crisi. Dobbiamo ampliare i posti di terapia intensiva. Mancano respiratori e presidi che ci difendano dai contagi. Ieri abbiamo fatto i primi tamponi. Abbiamo pazienti positivi al Covid-19.
Per questo, Giuli, da oggi non dobbiamo più abbracciarci e dormirò nella stanza degli ospiti, userò in esclusiva il secondo bagno.
Lei non trova le parole, ha un nodo in gola, riesce solo a dire:
- No, non voglio.
Lucio allunga una mano, che lei afferra stringendola forte.
- Mi spiace, non c’è un altro modo. – sussurra, guardandola negli occhi – Ti adoro, Giuli, non posso rischiare di essere proprio io a portarti il virus a casa.
22 febbraio 2020
Stamane Giuli e Aurora si sono buttate sul lavoro, talmente concentrate che hanno scoperto di aver saltato il pranzo solo quando Vittorio, uno dei loro giovani colleghi, è arrivato con due toast.
Si sono concesse una breve pausa per un caffè, le menti agganciate allo studio che stavano analizzando.
Ora Giuli è a casa: si dà un gran daffare con le pulizie, mette in ordine, lava, igienizza tutte le superfici, maniglie, interruttori, tutto ciò che hanno potuto toccare e contaminare. Vuole che Lucio si senta tranquillo, vedendo che non trascura niente.
Avverte la stanchezza: si concede dieci minuti di relax. Poi preparerà un risotto ai funghi per cena - un piatto di cui lui è ghiotto.
Accende la tele. Squilla il cellulare.
- Ciao, Lucio.
- Scusa, Giuli, ma non ho potuto chiamarti prima.
- Come va in ospedale?
- Siamo in emergenza.
- Non avevi detto che vi stavate riorganizzando?
- Lo stiamo facendo, ma sta succedendo tutto troppo in fretta. Ora parlami di te. Come stai? Va tutto bene?
- Sì, sì. Tutto bene. Io e Aurora oggi abbiamo lavorato senza pause. Questo studio ci prende molto. Ma sono sciocchezze. Tu, invece? Ce la fai a venire per cena?
- Ascolta, Giuli, volevo parlarti proprio di questo. Io sto bene, però sono costretto ad aumentare le ore di lavoro, non sappiamo se alla fine del turno possiamo andar via, alcuni infermieri e un medico sono a casa in malattia. Siamo già pochi …
- Lucio, non sei fatto di ferro, hai bisogno di riposare anche tu, di dormire, mangiare…
- Senti, Giuli… dobbiamo fare dei cambiamenti, ti prego di capire. Il rischio è troppo grande: non posso tornare a casa con l’incubo di infettarti. Sono obbligato a chiederti di trasferirti a casa di tua madre.
- Scusa, capisco tutto, ma non sono d’accordo. Ho disinfettato e pulito ovunque, ogni cosa; ti garantisco che lo farò tutti i giorni.
- Non hai capito! Non abbiamo i mezzi per sanificare un appartamento. Per favore, non rendermi le cose più difficili. È necessario fare così, credimi.
- Quando tornerai dal lavoro sarai stanco, se sto a casa ti faccio trovare un piatto caldo e a tutto il resto ci penso io, disinfetterò ogni cosa, passerò tutto in candeggina…
- Non basta, Giuli.
- Insomma, com’era quella cosa di quando ci siamo sposati, “Nella buona e nella cattiva sorte”, ora non vale più? Io sono la tua donna e voglio condividere con te anche i momenti difficili. E poi, sai che non torno volentieri nella mia vecchia casa …
- Se non fosse indispensabile, non te lo domanderei… Ti prego, Giuli, cerca di capire.
Restano qualche secondo in un silenzio tracciato da scie di parole e sospiri trattenuti.
- Va bene, ho capito, ma faccio davvero molta fatica a rassegnarmi… Quando devo andar via?
- Prepara la tua valigia oggi, mettici tutto quello che ti serve, perché dopo non potrai più tornare. Io farò il turno di notte: dovrei venire a casa in tarda mattinata. Non ci incontreremo, arriverò quando sarai già uscita.
- Quindi devo già trasferirmi domani?
- Sì, per favore. Sono addolorato.
- Ok. Lo farò. Tu mi devi promettere che starai molto attento, non voglio che ti ammali.
- Promettimi di fare molta attenzione. Scusa, mi stanno chiamando, ci sentiamo domani. Ti adoro, piccola.
Giuli sente le tempie pulsare. Le scoppia un gran mal di testa. Fa appello al suo lato razionale, respira a fondo. Sa che deve darsi una mossa, non ha molto tempo, meglio fare una lista. Si siede in cucina e annota le cose che le vengono in mente. Un elenco piuttosto lungo. Tira fuori dal ripostiglio due grosse valigie, le mette sul letto e si blocca, l’assale un rifiuto. Non vuole andar via.
Le fa male lo stomaco, pensa sia meglio riempirlo con qualcosa: va in cucina e mangia della frutta. Si sente pervadere da una lenta rassegnazione, si ripete come un mantra: devo ragionare, devo riempire le valigie.
Apre i cassetti e l’armadio, ha la convinzione di aver bisogno di tutto - come quando parte per un viaggio. Ha urgenza di un caffè per darsi forza. È amaro dopo due cucchiaini di zucchero. Lo butta nel lavandino.
Consulta la lista: comincia a svuotare i cassetti e riempire le valigie. Sistema biancheria, abiti, giacche, scarpe, profumi, trucchi. Mette nella sua custodia il PC portatile, dal quale non si separa mai.
E di nuovo si blocca, rimane ferma, lascia cadere le braccia, china il capo e un torrente salato sgorga dai suoi occhi.
- Non ci posso credere. - mormora, - sto abbandonando la nostra casa, è la prima volta che ci separiamo, dal giorno del matrimonio.
Sono le undici passate; abbandonata sul divano, segue in TV una conferenza stampa del Presidente del Consiglio. Sta dicendo che è fondamentale che i cittadini collaborino, chiede di non recarsi nelle strutture sanitarie e utilizzare i numeri di emergenza solo se strettamente necessario.
Giuli avverte una stretta al cuore, una sgradevole premonizione: niente sarà più come prima. Questo maledetto virus, nel giro di una notte, si è mostrato in tutta la potenza e rischia di travolgere anche loro.
22 febbraio 2020
Giuli si è svegliata presto, contenta di uscire da un sonno agitato. Per fortuna è domenica.
La vista delle valigie rinnova lo sconforto: s’impone di non cedere e restare attiva. Esce per andare al supermercato, deve fare provviste per tutt'e due, lui non ne avrà certamente il tempo. Manca un quarto d’ora all'apertura, pensava di essere la prima, invece ha già una decina di persone davanti. Si mette in fila col carrello; copre naso e bocca con la sciarpa. Nota che parecchi indossano la mascherina.
- È lei l’ultima? - chiede una signora dai capelli bianchi, mettendosi in coda dietro di lei.
La cosa è evidente. Le scappa da ridere. Poi nota gli occhi allarmati dell’anziana e si sente in colpa.
- C’è tanta gente stamane, - le dice.
- Speriamo abbiano riempito gli scaffali, - risponde l’altra, - ieri sera molti erano vuoti, perciò sono tornata stamattina.
Fa un cenno di assenso, non ha voglia di parlare. La signora invece sì, snocciola parole che Giuli non segue. La libera l’apertura delle porte.
Si muovono tutti insieme come una mandria, spingendo il carrello. Giuli percorre velocemente le corsie, non perde tempo a guardare cose che non la interessano. Fa scorta di frutta e verdura, alimenti a lunga conservazione; prende diverse confezioni di pasta, pane, biscotti e tranci di pizza. Arraffa flaconi di amuchina e alcol e ancora prodotti per l’igiene personale e della casa. Riempie il carrello fino all'orlo. Intorno a lei, la gente si accalca e sgomita per accaparrarsi l’ultima scatola di pelati, l’ultimo pacco di farina. Invano, dagli altoparlanti, annunciano che i magazzini sono pieni di merci, che arriveranno al più presto sugli scaffali. Si affretta alla cassa, non vede l’ora di uscire.
Fuori le nuvole corrono veloci, scoprendo a tratti il sole. Aspira avida l’aria fresca, liberando naso e bocca dalla sciarpa. Carica le borse in macchina e imbocca la via del ritorno. Porta su la spesa per Lucio: il frigo e la dispensa traboccano. Ha l’abitudine di fare scorte anche in tempi normali: un argomento di discussione tra loro.
Raccatta borsoni e valigie. Sta per chiudere la porta, quando un pensiero la riporta dentro. Si dirige in bagno, su una mensola c’è il profumo di Lucio: lo spruzza sui polsi e lo annusa con voluttà, un effluvio di note fresche con sentori speziati evoca la sua presenza. Lo specchio che ha di fronte le rimanda l’immagine di due occhi smarriti.
Lascia un biglietto sul tavolo: “Sei tutto quello che ho. Abbi cura di te. Ti bacio da togliere il respiro.”
Esce, chiudendosi la porta alle spalle. Stenta a far stare tutto in macchina. Avvia l’auto in direzione Lambrate, il quartiere dov’è cresciuta: arriva davanti a un palazzo signorile color avorio. Diverse file di bovindo danno ritmo alla costruzione, dall'aria inglese.
Apre il cancello e percorre la rampa che porta ai garage.
Dopo due giri ha tutti i bagagli davanti all'ascensore. È quasi ora di pranzo, spera di sfuggire a quella ficcanaso della portinaia. Sta già cantando vittoria, quando la sua voce acuta le arriva alle orecchie.
- Buongiorno, signora Maggioni. È da tanto che non veniva da queste parti. L’aiuto con i bagagli.
- Buongiorno, Caterina. Grazie per l’aiuto. Come sta?
- Eh… non ho più le forze di quando lei era bambina, però, non posso lamentarmi. Scusi, ha intenzione di fermarsi tanto?
- Starò qui per un po'. Non so ancora bene. Ora devo proprio scappare. Tanto ci vedremo spesso in questi giorni.
Ha il dito sul pulsante del quarto piano.
- Volevo ancora dirle che ieri è venuta l’Adelina per la pulizia mensile. Troverà tutto a posto…
L’ascensore si muove: Giuli si perde senza rimpianti le ultime parole.
Sollevando le due valigie, s’inoltra tristemente in un vasto salone, trascina all'interno gli altri bagagli, sistema subito gli alimenti in frigo. Si guarda intorno: Adelina ha rimesso tutto in funzione - le aveva scritto un sms - e ora l’appartamento è lindo e pronto da abitare. Benedice la sua esistenza: si è presa cura di questo alloggio dalla sua nascita; da quando si è sposata, anche del suo.
Era una ragazza appena arrivata dalla Puglia in cerca di lavoro, quando la portinaia aveva parlato di lei a sua madre.
Fa il giro della casa spalancando porte e finestre. Il sole illumina gli ambienti, rinnovati di recente. Richiude poco dopo le imposte per il freddo che invade l’appartamento.
Ha fame. Mette su l’acqua per gli spaghetti. Con i suoi era abituale pranzare guardando il telegiornale, così accende la tele. Un giornalista annuncia che sono state abolite tutte le manifestazioni per il Carnevale e che sono vietati gli assembramenti.
Si siede e mangia. Tiene la mente impegnata, riflettendo sulle cose da fare. Non ha intenzione, per ora, di disfare le valigie. Occuperà la sua vecchia camera.
Un suono le annuncia l’arrivo di una email: il suo capo le comunica la decisione della Compagnia di chiudere, onde evitare il diffondersi del coronavirus. Lavoreranno da casa, in smart-working. Lei e Aurora continueranno a seguire lo studio in videoconferenza.
Ci rimane male, non se lo aspettava. Si chiede se non sono troppe le cose che le sono sfuggite.
Chiama Aurora: le risponde la segreteria telefonica. Sono le tre, azzarda una videochiamata con Lucio: le risponde subito.
- Giuli, che felicità vederti.
- Come stai?
- È stata una notte dura.
- Si vede dai tuoi occhi.
- Come ti senti nella tua vecchia casa?
- Cerco di congelare le emozioni. Mamma ha fatto appena in tempo a rimettere
tutto a nuovo.
- Sì, povera. Aveva appena finito la ristrutturazione… poco più di un anno fa. Scusa, come fai ora con l’agenzia immobiliare? Questo non è il momento di far venire gente a casa.
- Mi va bene che non ho firmato il contratto per la vendita dell’appartamento. Domani telefono e sistemo tutto.
- Mi manchi, la casa è vuota senza di te.
- Mi manchi anche tu. Un attimo prima di sentirci, ho ricevuto una email dalla Compagnia. Lavoreremo da casa in smart-working.
- Bene. Adesso mi sento più tranquillo.
Lucio non riesce a trattenere uno sbadiglio, i suoi occhi sono arrossati.
- Ora fila a nanna. Devi dormire almeno otto ore. Ti abbraccio forte forte. A domani.
- Ubbidisco, piccola. Sono esausto. A domani.
Giuli si concede una lunga passeggiata: riflette meglio quando cammina. Le piace girare in quelle strade che conosce come le sue tasche, in quei giardini, dove imbastiva giochi infiniti con gli amichetti, dove scopriva la gelosia, se l’amica del cuore dedicava le sue attenzioni ad altre, e più avanti, i baci rubati con i ragazzi, dietro una siepe di bosso. Baci che volevano stuzzicare la sua curiosità, la sua emozione, e non sapevano di niente.
Si sta facendo buio, torna a casa esausta per i chilometri percorsi. Nella sua camera, il letto è stato rifatto. S’infila tra le lenzuola che odorano di lavanda e chiude gli occhi, svanendo nel sonno.
24 febbraio 2020
Lucio non si rade da tre giorni. Ciabatta in pigiama, godendo del ristoro dopo una notte completa di sonno. Cerca di capire dove trovare le cose, come si attacca la lavastoviglie, che detersivi usare. C’erano Giuli e Adelina a gestire tutto. Ciò nonostante, non si scoraggia. Prepara la moka e videochiama Giuli.
- Indovina chi sono? - dice ridacchiando.
- Vediamo... barba lunga, pigiama… ci sono! Sei uno sveglio da poco.
- Indovinato! Propongo un caffè insieme. Ho già la moka pronta.
- Anch’io. Ok, al mio tre accendiamo il gas.
Cerca di leggere la sua espressione, lei fa lo stesso, ne sono coscienti: un sorriso illumina i loro volti, mentre qualche ombra ha già la meglio.
- Mi chiedevo, Giuli, come stai, cosa pensi…
La malinconia attraversa la donna: corre a nascondersi in fondo ai suoi occhi.
- È tutto ok. Devo solo abituarmi alla casa, a prendere le misure a questa situazione: non avrei mai immaginato, neppure lontanamente, di vivere una pandemia… roba da fantascienza.
- Non ti angosciare! Gli scienziati stanno studiando cure e vaccini. Trovato quello, il virus è fottuto. L’essenziale è prendere tutte le precauzioni; devi ragionare come se tutte le persone che incroci fossero contagiate. Se fai così non ti accadrà nulla.
- Lo farò, dottore! Sai cosa vorrei adesso? Spettinarti la criniera gialla e baciarti.
- Uhm. Programma interessante. Giuli, ti ricordi la nostra prima gita in montagna?
- Come dimenticarla… andammo a Cogne: avevamo organizzato un pic-nic con champagne e cioccolata.
- Non era per effetto delle bollicine che mi batteva forte il cuore. - La sua voce trema di emozione.
Lo schermo mostra le loro facce turbate, percepiscono respiri e battiti ritmati dagli stessi intervalli.
L’annuncio di una chiamata per lei interrompe l’incanto.
- Cavoli, mi ero scordata. Devo lavorare al pc con Aurora. Ci sentiamo presto.
- Uffa! Va bene. Ancora una cosa. Devi darmi delle dritte sulla casa, dove sono le cose, la lavatrice…
- Tranquillo. Ti manderò una email con tutte le istruzioni.
All’ora di pranzo Lucio si cimenta in una pasta con pomodorini, aglio olio e
basilico. Gli riesce alla grande. Ha ancora il pomeriggio a disposizione: farà il turno di notte.
Lo assale un bisogno di musica. Cerca il CD di un gruppo che miscela il Jazz con la classica. Si distende sul divano, s’immerge nella melodia di “Cortège”: il brano che ama di più.
Più sprofonda, più risalgono immagini. Vorrebbe chiamare Giuli, si frena perché la sa impegnata col lavoro; decide di scriverle una e-mail.
Ciao, bellissima,
stavo ascoltando il nostro pezzo: il desiderio di parlare della prima volta che ti vidi ha avuto la meglio, al punto da indurmi a scriverti.
Eri seduta a un tavolino con un’altra ragazza: mi colpisti tanto da scegliere un divanetto di fronte, per guardarti. Tu ascoltavi la musica col viso intento, battendo il tempo con le dita: affascinandomi. La band, nel locale che frequentavo abitualmente, si concesse una pausa.
Mentre cercavo un pretesto per avvicinarti senza trovarne neppure mezzo, la fortuna decise di stare dalla mia parte. Un uomo longilineo e benvestito arrivò al vostro tavolo e si chinò a baciare l’altra ragazza. Tirai un sospiro di sollievo. Nel momento in cui si girò verso di me ebbi la conferma che il fato esisteva. Era il mio amico Loris: non lo vedevo da qualche anno; avevamo giocato insieme a calcetto in una squadra rionale. Lo so, Giuli, son cose note, tuttavia, il momento particolare che stiamo attraversando mi fa sentire la necessità di rinnovare il ricordo, di ancorarmi a quello che siamo, e nel contempo, a quello che siamo stati.
Dunque, Loris mi invitò al vostro tavolo e ci presentò: io fingevo disinvoltura, e la vostra cordialità mi mise presto a mio agio. Offrii un giro di Mojito e un po' alla volta ci raccontammo. La tua amica si chiamava Aurora ed era fidanzata con Loris, ormai architetto tirocinante presso un famoso studio. Eravate appena tornate dall’America e lavoravate già presso la stessa azienda.
Poi, alcuni ragazzi vennero a prelevare la coppia per festeggiare al loro tavolo il compleanno di un amico comune. Noi due rimanemmo soli, volevo far colpo e avevo le mani sudate.
Cominciai a parlare di Jazz, argomento che conoscevo bene. Scoprimmo di amare lo stesso tipo di musica. Ti entusiasmasti, parlando di questa passione nata durante il soggiorno americano.
La band tornò a esibirsi: le note di “Cortège” si diffusero intorno a noi.
“È il mio pezzo preferito. Scusa, ma lo ascolto sempre in silenzio” - dicesti.
“Idem, - risposi, - uguale anche per me.”
Ti appoggiasti allo schienale, chiudendo gli occhi. Fummo tutt’uno con la melodia lenta e struggente del vibrafono, un suono talmente leggero da far pensare a tasti sfiorati da ali di farfalle; poi le note del pianoforte lanciato in una serie di fughe e riccioli barocchi. Un inseguirsi, un perdersi e ritrovarsi, attraverso il dialogo suggestivo tra gli strumenti.
Quando le ultime note si spensero, tu apristi gli occhi, che guardavano ancora lontano; anch’io riemergevo da un punto remoto.
Seppi che eravamo stati preda del medesimo struggimento.
Stupore ed eccitazione galleggiavano nella mia testa.
- Non ho mai incontrato una come te. Ti andrebbe di vederci ancora?
Tu mi guardasti sorpresa: non alzasti scudi; avvertii il tuo interesse accentuarsi. Ti sorrisi imbarazzato.
- Non uso abbordare così le ragazze… ti va di tornare sabato prossimo?
Tu accettasti.
Lucio ritorna alla realtà, col notiziario delle diciotto: annunciano la chiusura di scuole e musei; verranno sottoposti alla quarantena gli individui che hanno avuto contatti stretti con casi confermati di coronavirus; chiuderanno tutte le attività commerciali, escluse quelle per l'acquisto dei beni di prima necessità, condizionato all'utilizzo di dispositivi di protezione individuale…
25 febbraio 2020
Ciao, ragazzo,
ma quanto è bello leggerti. Ottima l’idea delle email, così possiamo parlarci anche quando i nostri orari lo impediscono. È il secondo giorno di lavoro in smart-working. Con Aurora passiamo gran parte della giornata in videoconferenza: per adesso lo studio che stiamo analizzando ci appare come una nebulosa, siamo a caccia di una piccola falla che ne tradisca la supposta sicurezza. In questo tipo di lavoro non esiste certezza, è tutto un rincorrersi tra gli hacker che si inseriscono nei sistemi di sicurezza e noi che tentiamo di snidarli e neutralizzarli. Anche Loris sta lavorando da casa, i suoi orari sono flessibili e gli lasciano più possibilità di badare ad Andrea. Il bimbo è vispo e curioso di tutto. È buffo, con quegli occhioni rotondi, da orsetto. Ogni tanto appare sullo schermo, corre a dare un bacio alla mamma e uno saluto a me, alla zia Uli.
Aurora mi fa tanta compagnia: meno male che c’è lei, amica e sorella dai tempi del liceo. Insieme, abbiamo colmato la solitudine dei figli unici.
Il giorno passa abbastanza velocemente tra la novità del lavoro, la preparazione del pranzo e alcune pause caffè; arrivo a cena con il cervello fuso.
Prima di scriverti sono andata in salone, mi sono affacciata alla veranda del bovindo: la luce che attraversa i vetri colorati diffonde all’interno trasparenze acquose di foglie e di cielo. Non ricordavo fosse così bello.
Osservando il giardino, fitto di alberi che mettono foglie e cespugli quasi in fiore, ho notato un gatto tigrato avanzare sinuosamente sul cornicione del muro divisorio tra la nostra area condominiale e il parco. Dovevi vedere come si rannicchiava per spiccare un balzo su un passerotto. Era fantastico assistere alla scena. L’uccellino è volato via; inutile dire per chi tifavo.
Sai, Lucio, mi è venuto in mente che da noi non uso affacciarmi, né osservare la vita che si svolge fuori. Sarà per il poco tempo libero e per la consuetudine di andare via nei weekend, in ogni modo, non lo facevo neanche quando tu eri di turno, per cui credo che alla fine fosse solo disinteresse.
Mi manchi, soprattutto la sera. L’appartamento è inutilmente grande per una persona sola. Il buio che avanza m’inquieta. Ti so in ospedale e sono preoccupata. Scusa, capitolo chiuso! Non voglio appesantire questi momenti.
Facciamo un gioco: adesso mi affaccio di nuovo, ti dico cosa vedo, così puoi immaginare di essere accanto a me.
Allora: vedo qualche runner correre veloce, un anziano procedere a passo lento aiutandosi col bastone, un altro è trascinato da un barboncino dal pelo bianco. Ora arriva un gruppetto in bici, vanno piano, tra risate e richiami. Sono una giovane coppia e due bambini, un maschio e una femmina. Sento la voce della bambina urlare: “Mamma, ho fame, facciamo merenda.”
Si fermano, sistemandosi su una panchina. La donna estrae dei sacchetti di carta che distribuisce. Credo siano entrambi in età da scuola elementare, il bimbo sembra più grande di un paio d’anni. Mi catturano le voci gioiose e i gesti affettuosi che si scambiano. Percepisco un vuoto indistinto. Mi rivedo con i miei genitori, rifletto su cosa ci siamo dati e cosa ci siamo presi.
Finora un figlio mi è sembrato una privazione della libertà: prima venivano lo studio e la carriera. Invece, in questo momento, quella famigliola mi suggerisce un senso di completamento, un cerchio che si chiude. Mi sembra incredibile fare questi discorsi, pensarci. Lucio, saranno questi strani giorni, questo senso tremendo di provvisorietà che trasmette la presenza del virus?
Ti abbraccio.
Giuli si scalda un trancio di pizza e guarda il notiziario:
“In gran parte delle Regioni del nord sono sospesi eventi e competizioni sportive. I dirigenti scolastici possono attivare modalità di didattica a distanza…”
Fa tacere la tele.
La cupezza di queste notizie la smonta. Immagina una ragnatela in continua espansione sul nord Italia, zeppa di ragni pronti a pungere e inoculare veleno.
Cerca consolazione in un budino al cioccolato, non è una panacea, ma la rincuora.
Pensa sia tempo di fare il giro della casa, di aprire la porta di ogni stanza. Accende ovunque le luci. Il palchetto dalle tonalità calde ha sostituito la ceramica, creando un ambiente raffinato, un bel contrasto con le pareti bianche, sulle quali sono appese vedute marine: paesini liguri con case pastello e palme, abbarbicati su scogliere a picco e un mare cobalto. Si sente sopraffare da emozioni contrastanti, ricordi belli e brutti fanno a cazzotti.
Seduta sul divano color lavanda come le tappezzerie, ripensa alla sua vita in quella casa. Nel silenzio riecheggiano suoni familiari: quelli delle pentole sul fuoco, il leggero tintinnio delle stoviglie quando apparecchiavano il tavolo, gli arpeggi della chitarra di suo padre e lo stereo spesso acceso a diffondere, per la maggior parte, pezzi degli anni settanta e ottanta, e ancora il tic tac della pendola, i rintocchi che scandivano le ore con la suoneria Westminster. Era un orologio a colonna firmato “Samuel Smith - London”: sua madre lo aveva ereditato dai suoi genitori e ci teneva tantissimo.
Fa il numero di Lucio. Lui risponde subito.
- Stavo per chiamarti io…
- Come stai?
- Io bene, tu piuttosto?
- Solo stanco, per il resto bene. Qui il lavoro è tanto e siamo in pochi. Ma ora basta parlare di questo. Giuli, lo so che ti ho chiesto molto, credimi, è difficile anche per me. Mi manchi tanto.
- Dove sei, hai finito il turno?
- Sto per entrare in macchina e tornare a casa.
- Voglio che vieni qui, voglio vederti, incontrarti. Non ne posso più di questa lontananza.
- Anch’io. Come puoi pensare che non sia così?
- Lo so, per questo ti aspetto.
- È una pazzia. Lo farò, se mi prometti che mi starai lontano, niente abbracci e mascherina incollata al viso. Vedremo solo i nostri occhi. Sarà eccitante.
- Ti aspetto. Non vedo l’ora.
La macchina di Lucio si ferma davanti al portone: lei gli va incontro, lui apre la portiera ed esce. Si fermano a un metro di distanza, lottando contro la voglia di stringersi e baciarsi.
- Sono tre giorni che non ci vediamo, ma sembra un secolo, - dice Lucio, - sei bellissima anche con la mascherina. Fa risaltare i tuoi occhi scuri.
- Sei bellissimo tu, sono gelosa delle infermiere che possono vedere i tuoi occhi azzurri tutti i giorni. Hai visto come sono brava? Non ti sono ancora saltata addosso.
- Devo fare la parte del medico e pensare alla salute del mio amore grande. Sto facendo sforzi sovrumani per non saltarti addosso io.
Si siedono sul gradino del portone, a parlare: il senso di vicinanza li avvolge, scivola su di loro, regala ad entrambi l’oblio del mondo fuori.
26 febbraio 2020
Lucio torna a casa: turni lunghi e difficoltà infinite gli si appiccicano addosso. Pensa di doversi sforzare di essere più realista, di tirar fuori ancora più risorse, per attraversare l’oceano di guai che sta muovendo le sue onde e li sta lambendo. Cerca un libro, avverte il bisogno di distrarsi: lo apre, fissa le parole che non gli significano, lo lascia ricadere sul divano.
È ancora un’ora decente quando videochiama Giuli.
- Ciao, prima di tutto volevo dirti quanto mi abbia reso felice la nostra follia di ieri. Un piccolo momento di quasi normalità, anche se tremo all’idea del rischio che ti ho fatto correre.
- Sono così felice di averti visto in carne e ossa... non m’importa niente del rischio.
- Come va?
- Domanda di riserva? No… va bene, sono solo un po’ inquieta. A te non lo chiedo, lo dice la tua faccia. Ieri, tra buio e mascherina non ho visto quanto sei pallido. Dovresti stare all’aria aperta, mangiare meglio e dormire di più.
- Cercherò di farlo.
- Lucio, la tua descrizione di ieri sera, sulla vita a casa da single, mi fa aumentare la smania di tornare. Mi sembra di vedere il tavolo con gli avanzi di cibo del giorno prima, la nostra camera con gli abiti in disordine e il letto sfatto. Però trovo irresistibile il dilemma in cui ti dibatti: non sai se ti manco più io o Adelina.
Si lasciano andare in una fragorosa risata.
- Finalmente ridiamo un po’, Giuli! Abbiamo bisogno di scrollarci di dosso un po' di zavorra.
- Lucio, pensi ancora le cose che mi hai detto ieri?
- Sulla tua voglia di maternità? Sì, certo. Mi hai stupito, riempito di contentezza. Da qualche tempo pensavo a un figlio, aspettavo questo momento, confidando nel richiamo ormonale delle femmine.
- Bruto maschilista!
- Collaborerò con entusiasmo a concretizzare il progetto. Non ti darò tregua.
- Ti ho già detto che non resisto al tuo fascino?
- Mai! Neanche lontanamente accennato.
- Bene! Occasione buona per continuare a tacere.
Nello schermo le loro bocche sorridono, eppure hanno gli occhi lucidi, la gola chiusa.
Ciao, bellissima,
ci siamo parlati poche ore fa, tuttavia, sento il desiderio di mantenere il contatto, di ripeterti quanto sia felice all’idea di un bimbo nostro. So che finirà questa lontananza forzata, ma per adesso mi manca tutto di noi.
Giuli, voglio raccontarti una cosa. Ieri sera ero stanco, sono piombato subito in un sonno pesante. Dopo qualche ora ho aperto gli occhi: dando un’occhiata all’orologio, mi sono sentito sollevato, potevo dormire ancora un paio d’ore. Nel giro di alcuni istanti ero nuovamente tra le braccia di Morfeo, ritrovandomi a sognare di noi.
Nel sogno avevamo iniziato a uscire da qualche tempo: parlavamo spesso, tu mi stavi ad ascoltare quando ti dicevo del mio lavoro, del senso di solitudine che non riuscivo a scrollarmi di dosso. Ti raccontavo di come, figlio unico, ancora adolescente, la malattia di mio padre, un tumore ai polmoni, mi avesse fatto crescere in fretta. Mi sono rivisto giurare che avrei fatto il medico, curato la gente, per questo avrei studiato senza risparmiarmi e sarei diventato il più bravo.
Poi il sogno si spostava alla prima volta che sei venuta da me. I miei erano via e avevo la casa a disposizione. Ti feci trovare torta al cioccolato e caffè: seduti a tavola, mentre ci studiavamo, da noi emanava un’aria d’attesa. Accesi lo stereo, e la musica ci sciolse. Ti presi fra le braccia e ballammo baciandoci. Poi furono le nostre dita tremanti a sfilare vestiti con gesti timidi in un crescendo di desiderio. Infine le mie mani tra i tuoi capelli: mentre ti guardavo incantato, ti sussurravo che eri bellissima. Restammo a lungo sdraiati ad ascoltare la musica, parte essenziale di noi. E facemmo di nuovo l’amore, cercandoci, tentando di imparare la nostra pelle, di riconoscere le nostre mani, di superare le nostre paure.
Quando ti riaccompagnai a casa, ero stordito dalla felicità. Camminavamo lentamente, parlando piano, tenendoci stretti. Avrei voluto che quel tempo si dilatasse, ci lasciasse immemori del resto del mondo.
Nell’ascensore di casa tua ti baciai nuovamente, schiacciando diverse volte il pulsante che portava all’ultimo piano e arrivati, quello che tornava al pianterreno. Sentivo di poter fare cose assurde, non ero mai stato così preso da qualcuno in tutta la mia vita. Percepivo una rara sintonia: la magia di esseri simili.
Ti bacio col batticuore di sempre.
27 febbraio 2020
Oggi il primario di Lucio ha riunito medici e infermieri nella stanza per lo scambio delle consegne tra il personale che si avvicenda nei turni. È necessario fare il punto della situazione con Gil, un infermiere del servizio controllo infezioni ospedaliere, col quale collaborano continuamente.
Sono seduti intorno a un tavolo: l’espressione normalmente seria di Gil è accentuata dalle cose che deve dire.
- Purtroppo le notizie non sono buone, ad oggi i casi accertati di Coronavirus in Italia sono 650 di cui 403 nella nostra Regione. Questo conferma la difficoltà in cui versano molti nostri ospedali, specie se pensiamo che a Milano cinque giorni fa risultava un solo contagiato.
Gil tace, si liscia la barba, lascia scorrere lo sguardo sui colleghi: nota i loro occhi preoccupati. Il primario, un uomo alto e magro, sospira rumorosamente.
- Temo ci siano state pericolose sottovalutazioni, - osserva, - Penso alla partita Atalanta-Valencia del 19 febbraio a San Siro: condivido in pieno quanto hanno scritto i giornali, e cioè che di certo è stata un grande veicolo di contagio, dato che ha concentrato decine di migliaia di persone nella stessa zona. Pure se giungono notizie che l’epidemia sia partita prima, con ogni probabilità nelle campagne, durante le fiere agricole e nei bar di paese.
- Concordo con lei - risponde Gil, - al momento sembra attendibile che l’area di Codogno e Castiglione siano il centro del focolaio.
- Ora veniamo a noi, - riprende il primario, - abbiamo rivoluzionato l’ospedale, smembrato e chiuso reparti, trasferito medici e infermieri nei nuovi spazi dedicati ai malati di Covid-19, ma con gli scenari che si prospettano mi chiedo se sarà sufficiente. Il dott. Casati che ha diretto le trasformazioni potrà aggiornarci.
Lucio si sente addosso gli occhi di tutti, mentre comincia a parlare.
- Abbiamo allestito, fuori dall’ospedale, una struttura mobile, dove passano per il triage tutti i nuovi pazienti, per fare da filtro al pronto soccorso e isolare subito i contagiati. Come diceva il primario, abbiamo trasformato reparti in zone Covid: la scuola infermieri è stata modificata in foresteria per il personale che fa turni lunghi e stressanti, saltando spesso i riposi, e per quelli che non possono tornare a casa per evitare di contagiare i loro congiunti.
- Caro Gil, - dice il primario, - i mezzi di protezione che ci fornite sono insufficienti, spesso ci tocca stare un intero turno senza mangiare, bere e andare in bagno, perché, quando usciamo dall’area dell’isolamento, non possiamo più rientrarci senza esserci cambiati. Pertanto, ti invitiamo a sollecitare la direzione sanitaria a trovare una soluzione. Ora, però, diamo il cambio ai nostri colleghi. Grazie a tutti e buon lavoro.
Uscendo dalla stanza, Lucio manovra per avvicinarsi a Gil, un caro amico che stima molto.
- Senti, Gil, Gianni e altri colleghi amministrativi mi hanno riferito che non solo non sono stati forniti di mascherine, ma non gli avete neppure consentito di indossare quelle acquistate da loro, con la motivazione che avrebbero spaventato le persone che venivano in ospedale. Sono parecchio arrabbiati. Onestamente credo abbiano ragione, anche perché hanno contatti con noi e con gli utenti.
- Sapessi, Lucio, com’è difficile anche per me. Faccio da parafulmine ai malumori, seppur giustificati, del personale sanitario e amministrativo. Avete tutti ragione, ma l’ospedale non ha soldi per fare grandi acquisti, scarseggiano gli approvvigionamenti del materiale di protezione e, com’è ovvio in questi casi, privilegiamo quelli come voi, direttamente esposti al contagio. Più di così, ti assicuro, non posso fare. Se ti raccontassi le discussioni con la direzione sanitaria per ottenere di più ti annoierei, perché succedono un giorno sì e l’altro pure.
- Scusa, Gil, su questo non avevo dubbi, ti conosco bene, so che sei sempre dalla parte di chi lavora.
- Dottor Casati, l’aspettiamo, - sollecita Concetta, la capo sala.
- Arrivo subito, - scusa, devo scappare, - Ciao, Gil.
28 febbraio 2020
Ciao, Lucio.
Scriverti in questo momento di lontananza fisica, mi sembra il modo migliore per raccontarci.
Le giornate scorrono a tratti frenetiche e a tratti lente, restringendo e dilatando il tempo in un’altalena di pieni e vuoti.
Il lavoro con Aurora procede con ordine, siamo in continuo contatto e, so che non ti sorprende, ci scambiamo lunghe telefonate.
Lei è un’amica preziosa e mi dimostra tutto il suo affetto. Il piccolo Andrea, poi, è un tesoro; mi diverte farlo parlare, è un bimbo precoce per i suoi quattro anni. Stamane, mentre eravamo in videoconferenza, è apparso sullo schermo “per salutare zia Uli”
Gli ho chiesto se gli mancavano gli amichetti dell’asilo, lui ha risposto:
“Tanto tanto. Papà dice colpa del virus cattivo ma poi gioco di nuovo con loro.”
Quando mi chiama zia Uli e mi manda i bacetti con la manina, mi sento sciogliere.
Non oso immaginare come sarebbe bello sentirsi chiamare mamma da un bimbo nostro.
Stasera verrà Aurora a cena: un sostegno a superare la solitudine in questa casa dove il silenzio parla e a volte urla. Non mi sento ancora di aprire porte per far uscire ricordi che non sono in grado di gestire, mi riprometto di farlo un po’ alla volta. In un certo senso, questo star soli è l’ideale per fare introspezione e cercare di mettere le cose a posto, dargli il giusto peso che devono avere nella mia vita. Aurora ha frequentato questa casa e condiviso la mia esistenza dal primo anno di liceo: può contribuire a ricostruire alcuni fatti, rendendo, forse, la mia visione più obiettiva. L’ho nominata personal trainer di psicologia, con diritto di esprimere il suo dissenso. Ti vedo già sogghignare, hai l’espressione di chi vuole mettere in dubbio la mia capacità di lasciarle questa libertà.
Oggi il vento soffia più forte spostando nuvole, mostrando il grigio e l’azzurro dove brilla un bel sole. Non fa freddo. Del resto siamo a fine mese, ci avviniamo alla sospirata primavera, speriamo che la rinascita della natura acceleri la morte del virus. Abbi cura di te.
ps. Aspetto con ansia la tua telefonata, chiamami a qualsiasi ora. Intanto ti bacio.
29 febbraio 2020
Ciao, Lucio,
non voglio gravare anch’io, ma sia ieri sera che oggi, alla videochiamata, ho visto il tuo viso smagrito e stanco, i tuoi occhi erano tristi. Cerco di seguirti col pensiero nei tuoi turni in reparto, alle prese con prove ardue e difficoltà estreme, però mi rendo conto che bisognerebbe proprio esserci per capire davvero cosa state passando, quanto questi malati di Covid-19 siano complessi da trattare. Lucio, non esitare a parlarmene, a sfogarti, io ci sono per qualsiasi cosa, so che è superfluo dirtelo, tra noi è sempre stato così, lo faccio solo perché stiamo attraversando un momento in cui siamo minacciati dal virus invisibile che rende tutto incerto.
Ora cambiamo discorso, basta tediarti.
Come sai, ieri è venuta Aurora: abbiamo passato una bella serata parlando a lungo, alla fine mi ha convinta a svuotare gli armadi di mia madre. Nella notte, l’impegno preso ha traballato e avrei fatto marcia indietro se Adelina, venuta stamattina a far le pulizie, non mi avesse detto che ha la stessa taglia di mamma e le sono sempre piaciuti i suoi vestiti.
Come non rendermi utile a questa cara persona. Certo non sarà facile, eppure credo di avere il dovere di farlo. Sarà il mio modo per reagire e affrontare i fantasmi del passato.
Oggi è l’ultimo giorno di febbraio, di questo anno bisestile che mette a dura prova i convincimenti delle persone, come me, non superstiziose.
Se continua così, non escludo che possa prendere un appuntamento con una maga fornita di sfera di cristallo per farmi predire il futuro… e togliere il malocchio. Ora sono certa che stai ridendo.
Un abbraccio dei nostri.
primo marzo 2020
Ciao, Lucio,
da quando sono qui, non riesco a sentire musica: mi sembra di non poterne sopportare le emozioni.
Marzo è iniziato con una domenica: in altri periodi ci avrebbe visto su qualche montagna, in mezzo alla natura. Invece è una domenica utile per svuotare cassetti e armadi dagli indumenti di mia madre. Ho aperto due grandi valigie da riempire per Adelina.
Nella sua camera, l’atmosfera è quella di sempre, come l’arredamento: il grande armadio, il lettone e un comò. La considerava il suo “spazio riservato”.
Papà dormiva in un’altra stanza: tutto ciò mi sembrava normale, forse perché era sempre stato così. Quando scoprii che i genitori dei miei amici condividevano lo stesso letto, gliene chiesi il perché.
“Noi facciamo come i nobili: abbiamo letti e camere separate,” mi rispose lei sorridendo.
La mia faccia rimase seria e misi il broncio. Lei mi abbracciò, mi portò in cucina, mi fece sedere. Tirò fuori dal frigo il gelato, riempì due coppe nelle quali affondammo golosamente i cucchiaini. Condividevamo una sfrenata passione per il gelato, questo lo sai.
Poi con la faccia seria mi disse che ero ancora piccola per capire alcune cose. Io obiettai che facevo già la terza elementare.
“Intendo piccola per capire le cose dei grandi. A volte sono talmente complicate che non le capiamo neanche noi. Però, quello che voglio spiegarti è la ragione per cui io e tuo padre abbiamo scelto di dormire in camere separate. A me piace leggere a letto e spesso lo faccio fino a tardi; a lui piace ascoltare e comporre musica, conosci la sua passione per il basso e le tastiere, che suona silenziate e con le cuffie per non disturbare noi e il vicinato. Chiaro che tutto questo non si può fare stando in due in una stanza. Diciamo che sono i nostri momenti di relax, dopo una giornata di lavoro. Ci tengo a dirti che noi siamo una famiglia moderna, di idee aperte: non dimenticarlo mai, Giuli, ne siamo molto orgogliosi perché è il nostro tratto distintivo.”
Le fui grata per la spiegazione, ne ero piuttosto lusingata. Sebbene mi fossi sentita trattare da grande, non ebbi il coraggio di aggiungere che lei aveva anche un altro motivo: spesso usciva per andare a ballare, e il suo rientro a tarda notte, probabilmente, avrebbe disturbato mio padre. Di certo disturbava me, anzi, proprio non lo sopportavo, non riuscivo a non provare un senso di abbandono, quando salutava e sentivo chiudere la porta.
Stai già pensando che ho imbastito tutto ‘sto pippone per non fare quello che devo?
Mi sa che hai colto nel segno. Ora però mi darò da fare sul serio. Lucio, spero di non averti annoiato, ma sento il bisogno di raccontarti di me, di rendermi visibile e più vicina. Abbi cura di te, ti voglio per sempre nella mia vita.
Giuli aggredisce i cassetti del comò: nel primo, sciarpe e foulard ripiegati in perfetto ordine si contendono lo spazio con gioielli e bigiotteria. Tutto è raffinato e di gran classe. Sua madre sosteneva che preferiva avere meno capi ma belli. Del resto il suo lavoro e quello di suo padre consentivano una vita agiata.
I ricordi riaffiorano, spingendosi e sgomitando come naufraghi che lottano per rimanere a galla, ora che sono emersi da profondità dov’erano relegati. I ricordi sono diabolici, ne afferri uno e ne segue immediatamente un altro; talvolta sono piccoli e poco significativi, altre volte, volato via il sipario, cadono addosso con tutta la violenza di una cascata gelida.
Le sue mani sul cassetto rimangono inerti, pensa che terrà tutto per sé, magari in un altro momento, quando esaminerà gli oggetti, potrà togliere qualcosa per Adelina.
Fissa lo sguardo sul piano del comò: un flacone di essenze floreali posato sul marmo grigio le riporta con intensità il ricordo del suo profumo, una fragranza di fiori bianchi, annusata da quando era venuta al mondo.
Ha voglia di piangere, ma gli occhi sono secchi. C’è anche la loro foto di nozze, sul comò: sua madre, di media statura, formosa, con un tailleur bianco dalla gonna lunga e un cappellino con la veletta, suo padre la tiene sottobraccio. Sull’abito scuro si notano un fiore all’occhiello e il cravattino, come i cantanti country americani. I suoi capelli lunghi e rossicci sono raccolti in una coda. Avevano scelto il rito civile perché non credenti. Sotto la foto c’è una scritta: “Maria e Dante 11 febbraio1988”. Lo stesso anno della sua nascita.
Si sforza di riportare il pensiero ad Adelina: apre il secondo cassetto. Ci sono cardigan, maglioni e t-shirt di diversi colori. Trova il coraggio di immergervi le mani, di prenderli e riporli con ordine in una valigia. Fa la stessa cosa con il cassetto seguente, colmo di camicette e con l’ultimo, pieno di pantaloni.
L’assale una stanchezza infinita. Va a mangiare qualcosa davanti alla tele.
Seduta a tavola, il suo sguardo passa dallo schermo al piatto. La vista deprimente del tonno in scatola e dell’insalata se la gioca con le notizie che sta dando la protezione civile.
Fa la spiritosa con sé stessa, ma non funziona. Le notizie le chiudono lo stomaco. I positivi al virus, ad oggi, sono1.577, di cui 984 in Lombardia. Alcuni comuni della Regione sono dichiarati zone rosse. Tutto è sospeso, o limitato: le visite ai parenti malati negli ospedali o agli anziani nelle residenze sanitarie, perfino le cerimonie religiose.
C’è la sospensione delle ferie per il personale sanitario e tecnico, e per tutti i dipendenti necessari a gestire le attività richieste dalle unità di crisi regionali.
Pensa a Lucio che non avrà riposi e sta già parecchie ore in ospedale. Che disastro!
L’ennesimo spot sul corretto lavaggio delle mani e le indicazioni per prevenire il contagio, nonché la disinfezione della casa, la strema. Vuole eliminare i brutti pensieri che le vorticano nella mente.
Dal bovindo s’intravede il parco illuminato dalla luna. Una luce calma si riversa su alberi e cespugli, dà un riflesso d’argento alle pietre dei vialetti, alle panchine. Sul muro di cinta una gatta cammina adagio: si ferma, guarda la luna e miagola piano.
2 marzo 2020
Ciao, Giuli,
ti ringrazio per i racconti che mi fanno vedere le tue giornate, seguire i tuoi pensieri. Sono convinto che alla fine di questa clausura forzata avrai fatto i conti con la tua famiglia e messo ordine nelle cose, rivedendole nella giusta prospettiva.
Le nostre videochiamate sono una gran consolazione, vederti e parlarti è una gioia infinita, eppure acuiscono la mancanza di noi e rendono evidenti stanchezza e tristezza, per questo scriverci crea condizioni migliori per raccontarci e approfondire i discorsi.
Giuli, i miei giorni ormai sono tutti uguali, non posso frequentare nessuno, all’infuori dei miei colleghi. L’idea disperante è non poter frequentare te: non potrò più incontrarti come l’altra volta, non ti metterei di nuovo a rischio…
Avverto un pungente senso di solitudine: mi lego sempre di più alle persone con le quali condivido fatiche e rischi. In questi momenti, che nessuno avrebbe mai voluto vivere, ci sentiamo formiche di fronte a una montagna da scalare.
E ancora, ho paura di non essere professionalmente all’altezza nella lotta contro questo nemico sconosciuto; l’ansia di trovare cure giuste o almeno più efficaci mi toglie il fiato, quasi a voler emulare i nostri pazienti ai quali il virus toglie il respiro.
Passo più tempo in ospedale che a casa: la nostra casa, vuota per la tua assenza, rimane buia anche con le luci accese.
Mi mancano il tuo cantare sotto la doccia, i nostri discorsi a tavola, le tue parole dolci, i sussurri e le carezze dell’amore. Ora tutto è silenzio: mi assale forte la malinconia, la nostalgia mi fa lacrimare gli occhi.
Anch’io non riesco a sentire musica, come dici tu, “susciterebbe emozioni troppo forti”, e di emozioni forti è invasa tutta la mia persona.
In reparto, alcune infermiere e qualche operatore sanitario si sono ammalati e ora fanno i pazienti. Quelli che stanno meglio sono in quarantena.
Io sto bene, ho fatto il tampone e sono negativo. Sono più forte del virus che sicuramente ho già incontrato. Ti dico questo per farti capire che puoi stare tranquilla: il virus, anche se coronato, a me fa un baffo.
Chissà se stai abbozzando almeno un sorriso. I contagiati di cui ti parlavo, sono stati infettati nei giorni in cui non sapevamo niente del coronavirus e scambiavamo le polmoniti come complicanze dell’influenza stagionale. Adesso ci siamo attrezzati per difenderci quando curiamo i nostri malati.
Vorrei svegliarmi e osservare il tuo viso mentre dormi, studiare i piccoli movimenti delle palpebre che celano sogni che vorrei conoscere, e mentre guardo lo schiudersi delle tue labbra immaginare che stai ricambiando un mio bacio. Sarebbe bello sentire il tuo respiro dolce, che ascoltavo quando ti addormentavi, prima di raggiungerti nel sonno.
3 marzo 2020
Giuli,
temevamo di essere investiti da un’ondata, invece è arrivato a travolgerci un vero e proprio tsunami. Arrivano decine di ambulanze, in continuazione giungono malati con sindromi respiratorie gravi. Siamo impreparati di fronte a un’emergenza di questa portata. Sempre più disperatamente alla ricerca di nuovi posti letto, nuovi spazi, nuovi ventilatori e nuove energie. L’imperativo è impedire il contatto tra pazienti con e senza coronavirus, dobbiamo riuscire a fare tutto questo nel minor tempo possibile.
I reparti di terapia intensiva, sub-intensiva e malattie infettive, hanno tutti i letti occupati. Dal triage continuano a mandarci pazienti, non abbiamo neanche più barelle libere, stiamo trasferendo i malati di Covid-19 in tutti i reparti che ospitavano altre specialità, però stiamo saturando anche questi. Le nostre telefonate agli altri ospedali per cercare posti letto hanno esiti negativi, sembra che tutta la Lombardia si sia infettata.
Lavoriamo più di dodici ore per turno: quando manca qualcuno perché in malattia, siamo tutti pronti a farci avanti per sostituirlo.
È un’esperienza estrema che mette a dura prova i nostri nervi e la nostra resistenza fisica. Questo nemico invisibile mette a rischio la vita di molti anziani, ma anche di uomini robusti e in ottima salute.
Se non ci sentiamo al telefono non preoccuparti, è solo perché gli orari in cui sono libero, sono inadatti a chiamare chi fa una vita normale. Farò di tutto per sentirti, anche solo per qualche minuto. Ti abbraccio.
4 marzo 2020
Oggi, un nuovo Decreto Legge ha esteso a tutto il territorio nazionale le norme previste per le Regioni ad alto tasso di contagi. La chiusura delle scuole è stata prorogata fino al 15 marzo, suscitando sollievo o preoccupazione tra studenti, genitori e nonni. Giuli segue con crescente apprensione i notiziari TV: è impressionata dal fatto che la sua Regione continui ad avere quasi la metà dei contagi di tutta Italia. In TV i virologi danno, a volte, giudizi differenti rispetto al virus e al suo evolversi, passando dagli allarmismi assoluti al ridimensionamento della gravità della situazione. Nonostante lo sbigottimento e la paura che avvertono dentro, Giuli e Aurora proseguono con molto zelo il lavoro. In questi momenti sono in fibrillazione, perché hanno individuato una piccola falla. Se verrà confermata, Milano potrebbe fare il botto e salire al primo posto nella considerazione degli americani.
Alle cinque del pomeriggio Giuli stacca dal lavoro col cervello in pappa. Si fa un caffè, poi va nella camera della madre: sul letto le due valigie sembrano attenderla. Apre le ante dell’armadio, viene investita dal profumo della lavanda. Durante le vacanze in Liguria, sua madre non mancava di fare scorta di essenza al Col di Nava. Nei cassetti, pile di lenzuola, asciugamani e biancheria per la casa. Appesi alle grucce, giacconi per ogni stagione, cappotti, abiti da sera e completi eleganti. Si mette d’impegno: riempie le valigie, quasi senza guardare quello che le passa per le mani: sente che si bloccherebbe, in preda ai ricordi, se si soffermasse sui capi che evocano la vita passata. Eppure, la vista dell’armadio vuoto le stringe il cuore. Fa i conti, ora più che mai, con la morte della madre, con la sensazione di essere lei a cancellarla, spezzando i suoi legami con gli oggetti che amava, togliendoli dai loro posti e in questo modo snaturandoli. Le sembra di aggiungere palate di terra sulla sua tomba, eliminando le tracce materiali del suo passaggio. Poi l’assale un altro pensiero: forse sta solo conducendo gli oggetti della madre al loro divenire naturale, al loro riutilizzo o alla loro distruzione. Li immagina ricoprirsi di polvere: un velo capace di sollevarsi solo col vento della memoria, che soffia dai ricordi che albergano nei cuori e nella mente di chi ha incrociato la sua strada. Concretizza pienamente il significato di essere come acqua di fiume: fa tanto male il “panta rei”…
Chiude le valigie. Domattina arriverà Adelina a prenderle, e se lei lo desidera, le darà anche le scarpe. Quante ne comprava sua madre! Sono quasi tutte nuove, alcune mai indossate. La morte improvvisa, a sessantun anni, non gliene ha dato il tempo. È mezzanotte quando chiama Lucio.
- Ciao, Giuli, scusa per l’ora.
- Te l’ho già detto, chiamami quando puoi, in qualsiasi momento.
- Ok. Farò il possibile, non siamo più padroni del nostro tempo, i malati hanno la priorità assoluta. Ma questo te l’ho già scritto.
- Lucio, mi manchi. Io vorrei ci vedessimo ancora, ma cedo alle tue ragioni. C’è una cosa nella tua e-mail che mi ha colpito, mi ha fatto arrabbiare e stare un po’ male. Hai scritto della vicinanza e dei legami che crescono tra voi colleghi. Posso capirlo fino a un certo punto. Mi chiedo quale sia il mio ruolo, com’è possibile che tu non trovi in me, in tua moglie, quelle cose?
- Perdonami se ti ho ferita, ma quello che dicevo sui miei colleghi è dovuto, come spiegarti… a un senso di cameratismo, al fatto di essere in prima linea, di dover combattere, rischiare insieme. Ti chiedo di comprendere il momento anomalo, sotto tutti gli aspetti, che stiamo vivendo. Giuli, tutto questo non ha nulla a che fare con noi due.
- Lo so che stai passando giornate tremende, immagino i sentimenti di cui mi parli, però voglio ricordarti che io ci sono e ti amo.
- Lo so. Sei la cosa più importante della mia vita.
5 marzo 2020
L’aria è satura di umidità: il vento fa viaggiare nuvole scure, a tratti una pioggerella lucida le strade e i parchi di questa città sempre più deserta.
Giuli esce per fare la spesa: si devono indossare mascherine e guanti, disinfettarsi con il gel posto all’ingresso del supermercato. Un addetto regola l’afflusso e misura la temperatura con un termometro che sembra quasi una pistola. Si entra in pochi: bisogna fare in fretta a scegliere i prodotti da acquistare per limitare la lunghezza delle code. Dentro, le persone si evitano, mantenendo le distanze, si guardano con sospetto. Chiunque potrebbe essere
”l’untore”.
Scarseggiano molti prodotti alimentari, guanti monouso, alcool e gel disinfettanti, senza parlare dell’assoluta mancanza di mascherine. Molti s’industriano a farle in proprio, i meno bravi possono trovare molteplici video su internet, dove tutor improvvisati mostrano come fare.
Giuli torna a casa con una scorta di viveri decisamente abbondante per una persona sola, lo fa anche per limitare le uscite per la spesa. Ne divora una piccola quantità: dopo aver sorseggiato l’amatissimo caffè, ritorna nella camera della madre, in attesa di Adelina, che ha dovuto posticipare il suo arrivo.
Si siede sul letto. Il suo sguardo è attratto dal grande dipinto sulla parete dove poggia la testiera. È una veduta di Riomaggiore: il luogo delle vacanze da quando è nata. Ha imparato ad amare questo paese, con la stessa intensità dei suoi genitori. Per lei sarà sempre un posto speciale. Ripensa alle giornate di villeggiatura e sente un’acuta nostalgia di quel tempo.
Suo padre amava l’abbronzatura, ma la sua pelle chiara e lentigginosa, tipica di chi ha i capelli rossi, diventava paonazza per poi tornare al colore di prima. Teneva alla tintarella tanto da rischiare spesso di ustionarsi. Diceva che donava un aspetto sano e abbelliva anche gli scorfani.
“Dante, togliti dal sole, prima o poi finisci in ospedale per le scottature e rovini la vacanza a tutti”
Così lo ammoniva sua madre, che intanto si arrostiva al sole per intere giornate. Alla fine delle ferie, lei aveva preso solo un colore dorato, pelle e capelli chiari non le permettevano un’abbronzatura caraibica, motivo di somma irritazione quando incontrava conoscenti e amiche che esibivano colori bronzei da brasiliane.
Giuli invece diventava un carboncino: “fai concorrenza ai negher” le diceva suo padre con evidente invidia.
“Maria, questa bimba non ha i vostri colori, lei sì che diventa nera!” dicevano gli amici, con i quali a volte passavano le vacanze.
“Sì, Giuli ha preso dal nonno,” rispondeva piccata.
Sua madre aveva un rapporto simbiotico col mare: amava tuffarsi e fare lunghi bagni. La trascinava con sé, facendole scoprire la bellissima sensazione di sentirsi scivolare l’acqua sulla pelle, di nuotare in sintonia con le onde e godere di quel piacere unico che è l’assenza di peso, quel galleggiare sospeso tra la superficie del mare e l’inizio del cielo. Giuli s’innamorò di quell’immenso azzurro: adorava tuffarsi, penetrando l’acqua come i raggi del sole, per osservare i pesci e il fondale. Cercava il blu più scuro per sentirsi fuori da ogni cosa, da ogni tempo, con una sensazione di gioia e pace insieme, con l’idea di appartenere alla profondità marina, dove tutto giungeva attutito, e pareva più sopportabile. Ma le piaceva anche sdraiarsi sulla spiaggia fatta di sassi e sentire il vento e il calore del sole sulla pelle.
La sera, mangiavano il pesce che il padre pescava: la madre insinuava che, in realtà, lo comprasse dai pescatori del borgo. Qualsiasi fosse la provenienza, la bravura di lei ai fornelli regalava cenette regali.
Il trillo del campanello la fa sobbalzare, riportandola alla realtà. Apre ad Adelina: è contenta di vederla, ogni visita, in questo periodo di scarse frequentazioni, la rallegra, persino le incursioni della portinaia.
Le mostra gli indumenti, le cose “della signora Maria”, come dice Adelina con affetto. Lei ammira tutto, incredula. “Ora potrò vestirmi da signora… mio marito s’innamorerà di nuovo…” La voce le si rompe in un singhiozzo.
Sono sicura che in questo momento anche “Maria” è felice: i suoi abiti potranno realizzare un piccolo sogno.
A tarda sera, Giuli telefona a Lucio, non vede l’ora di raccontagli tutto. Lui si complimenta per il modo in cui si sta rapportando ai problemi della sua infanzia, la rassicura sulla sua salute. Si parlano a lungo: le parole, come carezze, esaltano il senso di vicinanza. Quella notte, la tenerezza li invade, avvolgendoli in un sonno tranquillo.
6 marzo 2020
Giuli si affaccia al bovindo: nel parco la pioggia lava via lo smog, rinverdisce alberi e prati. Sotto un cielo grigio, sfidando il freddo e l’acqua, runner e ciclisti corrono sui viali incrociando persone che portano a spasso cani. Qualche animale di grossa taglia strattona, tirando con violenza il guinzaglio nel tentativo di inseguire i corridori, e abbaia furiosamente. Spesso le mani che tengono il guinzaglio appartengano ad anziani, che rischiano di essere trascinati a terra dalla veemenza di quelle bestie, pesanti anche più di cinquanta chili.
È un venerdì che le lascia tempo libero. Lei e Aurora hanno messo a punto una relazione sulla falla individuata nello studio americano. Facendo gli scongiuri l’hanno inviata al capo. Se la loro analisi dovesse essere confermata, sarebbe una grande affermazione professionale per loro due, potrebbe aprire notevoli prospettive di carriera.
Giuli abbandona la finestra e le riflessioni. Va nella stanza della madre e apre l’armadio, ora quasi vuoto: ci sono ancora alcune borse, riposte nelle custodie di stoffa, sono tutte firmate, in pelle, bellissime. Ne sceglie alcune da tenere, spostandole in un altro lato dell’armadio, ripone le altre in un borsone, per la prossima venuta di Adelina. Sta per chiudere le ante, quando nota una cartellina di plastica verde, posata sulla carta che fodera il fondo: incuriosita, la prende e la porta in cucina. Non mangia da ore, ha bisogno di bere e ingerire qualcosa. Mentre prepara un tè, si chiede cosa contenga la cartellina. Forse documenti della madre: conosce la precisione da ragioniera con la quale conservava tutto. Si siede a tavola, dove ha portato la bevanda fumante e una generosa fetta di crostata alle fragole.
Addormenta i sensi di colpa con la promessa che farà almeno un’ora di Pilates.
Masticando il dolce, apre la cartellina; dentro ci sono tre buste di dimensioni diverse. Un misto di curiosità e inquietudine le serpeggia dentro. Si ferma a pensare un attimo, poi decide di aprire la busta gialla, la più grande. Ne estrae delle foto, ritraggono sua madre con un uomo che non ha mai visto. Si ritrova, sbigottita, a fissare le sue stesse sembianze: realizza di avere gli stessi occhi scuri e stretti, lo stesso naso dritto e sottile, gli stessi riccioli scuri dell’uomo nelle foto. L’assale una vertigine. Ha la bocca asciutta, sente il bisogno di bere. In uno stato di agitazione crescente, inghiotte il tè ormai freddo.
Si alza, dopo pochi passi torna a sedersi. Riprende in mano le foto: in una di esse, l’uomo con la sua faccia, alto e magro, tiene un braccio intorno alle spalle di sua madre. Guardano entrambi verso l’obiettivo, con un leggero sorriso. Sono in mezzo al verde, forse in un parco.
Giuli lascia cadere la foto e ne raccoglie un’altra. In questa sono seduti vicini, a un tavolo con altre persone, non conosce nessuno di loro. Nell’ultima stanno ballando, abbracciati stretti, in una sala da ballo affollata. Qual è stato il tempo in cui si sono frequentati? Una scossa le attraversa il cervello, non riesce a materializzare le domande talmente le fanno male. È per lui che l’abbandonava, le sere in cui usciva per andare a ballare? È con lui che tradiva suo padre?
Si alza, cammina misurando a gran passi il salone. Ripensa a tutti quegli anni, in cui aveva cercato di trasformare momenti di sofferenza in ricordi vaghi, scavando buchi nella coscienza dove seppellirli.
Ora, con un rigurgito della memoria, ritorna tutto a galla: rivive scene della sua infanzia come stessero accadendo in quel momento. Crolla sul divano e si prende la testa tra le mani. Ha il viso indurito, dagli occhi aridi cadono poche lacrime, cristalli di sale che li feriscono.
Rivede le sere in cui la madre usciva, di norma un paio di volte la settimana, quasi sempre il mercoledì e il sabato. Diceva che “adorava ballare”. Giuli sapeva che era vero: appena sentiva una musica, il suo corpo si muoveva all’unisono col ritmo, con l’istinto di una ballerina. Ma questo non significava niente per Giuli bambina. Niente, di fronte al senso di abbandono che sentiva, soprattutto al sabato, quando poteva stare sveglia fino a tardi.
La prima volta che sua madre era uscita, privandola della sua compagnia, Giuli aveva poco più di sei anni, aveva iniziato da poco la prima elementare.
In quelle sere, dopo che si era infilata sotto le coperte, la madre passava a darle il bacio della buonanotte. Entrava nella cameretta, si sedeva sul letto e l’abbracciava forte. Giuli sentiva il suo profumo, stringeva le labbra, arrabbiata, e non ricambiava il suo abbraccio. Allora lei le prendeva il viso tra le mani, mettendo gli occhi vicinissimi ai suoi.
“È vero che vedi gli occhi di un’ape?” chiedeva ridendo.
Poi le faceva il solletico, sussurrandole che era la sua bambina adorata, riempiendole di baci le guance. La bimba voltava il viso dall’altra parte e lei andava via, augurandole di fare bei sogni. Giuli percepiva nella sua voce e fretta e allegria. Il ticchettio dei tacchi sul pavimento e la porta che si chiudeva erano gli ultimi suoni che sentiva.
Certe sere, in cui era più inquieta del solito, si attaccava alla madre per non lasciarla andar via; Maria si fermava davanti alla porta a parlare con suo padre, poi ritornava da lei per darle altri baci e abbracci, giurandole che era la cosa che amava più al mondo, quindi volava via.
Giuli pensava agli amici della madre in attesa sotto casa, e la odiava, l’amava, la odiava: un’altalena emotiva che la lasciava spossata, con la necessità impellente della presenza del padre, subito pronto a coccolarla, a leggerle le favole di Rodari.
Ora, come Sisifo, Giuli comprende l’inutilità della fatica; l’inutilità di aver trascinato il fardello di quei ricordi in una zona oscura, per ritrovarselo adesso davanti agli occhi, pronto a riprendere il suo posto.
Dovrebbe parlarne con Lucio, raccontargli quello che sta succedendo, ma non trova le parole, decide di inviargli solo la buonanotte.
Si stende sul letto, tenta di sciogliere il groppo che le serra la gola, sa che i sogni della notte saranno impietosi.
7 marzo 2020
Si sveglia avvoltolata nel lenzuolo e nel piumone, in un groviglio di stoffe che sembrano imprigionarla al letto. Traffica per liberare le gambe, alzandosi stordita, con i muscoli indolenziti, neanche avesse fatto due ore di ginnastica senza allenamento. Nello specchio del bagno vede un viso provato, con gli occhi cerchiati, febbricitanti. Si allarma all’idea di essersi beccata qualcosa, si affretta a misurarsi la temperatura: i trentasei e quattro la tranquillizzano. Mette su la moka e sbrana due fette di crostata, ha una smania nello stomaco che amplifica il senso di fame, sospetta possa essere l’inizio di una gastrite. Fregandosene, si scola la caffettiera, seduta al tavolo dove è tutto come ieri, la cartellina, le foto, le buste chiuse.
Non se la sente di riguardare le foto. Allunga una mano verso la busta rettangolare, tipo quelle usate per comunicazioni commerciali. Ne estrae un assegno bancario, lo studia con attenzione: è intestato a sua madre, Maria Garbi, undici milioni di lire, a firma di Marcello Villa. La data è del 1988, lo stesso anno della sua nascita. Che significa? Chi è questo Marcello Villa? Perché sua madre non ha mai incassato l’assegno? In lei si fa strada la paura.
Pensa sia meglio chiamare zia Elda: lei ha condiviso quasi tutta la vita della madre, saprà certo darle delle risposte, aiutarla a dipanare questo rebus.
La curiosità di aprire l’ultima busta ha la meglio, rimanda la chiamata.
Riconosce la scrittura minuta della madre, spalmata fitta su due fogli di carta da lettera. Le parole le ballano davanti agli occhi, per le mani che tremano e le lacrime che la soffocano.
Che cos’altro l’aspetta? Hanno deciso tutti di rivoluzionare la sua vita? Il Covid-19, l’assenza di Lucio, ora il contenuto di quella cartellina di plastica verde… Tutto sembra fatto apposta per toglierle certezze.
Giuli, figlia mia adorata,
avrei dovuto dirtelo molto tempo fa, ma non ho mai trovato il coraggio. Zia Elda mi ha invitato a parlarti, lo stesso ha fatto Dante: con rispetto, senza prevaricazioni, me lo hanno ripetuto mille volte. “Diglielo a Giuli, ha diritto di sapere”, io facevo di no con la testa e mi si seccava subito la gola, tanto da non potere spiccicare parola.
Non ce la facevo a dirti niente per il terrore di deluderti, di perdere il tuo amore, di non riuscire a farti comprendere il perché delle cose, delle decisioni prese. Più ci pensavo, meno trovavo il coraggio. “Dopo, dopo, quando finirà la scuola, dicevo a Dante, adesso è piccola, sta facendo le medie. Glielo dirò quando farà il liceo.”
Poi è arrivato il giorno della maturità: Elda mi spronava. “Ecco, adesso è il momento, è abbastanza adulta, potrebbe capire.”
Io ero ripresa dallo stesso terrore e invocavo tempo. “Non adesso, lei andrà all'università e giuro, appena si laurea glielo dico.”
Dopo la maturità, la morte è entrata nella nostra famiglia, portandosi via Dante. Eravamo sconvolte, non si poteva aggiungere altro dolore. Passò anche l’università e in seguito ci fu il Master in America. Macerandomi nell’incapacità di affrontare la situazione, intravidi una via d’uscita: capii, per la prima volta sino in fondo, che avrei potuto dirtelo soltanto nel momento in cui tu avresti avuto un bambino, nel momento in cui fosse nato e lo avresti tenuto fra le braccia, ma anche prima, quando lo avresti cullato ancora dentro di te, cantandogli dolcissime ninnenanne, facendogli ascoltare la musica che amavi.
Se adesso tu leggi questa lettera, è perché io non ci sono più: lo scrivo come nota scherzosa, degna dei miei tempi migliori. Spero sorriderai e ripenserai ai nostri anni più belli. Volevo tu fossi una persona con una grande voglia di vivere e delle enormi passioni. Adorata Giuli, non rinunciare ai tuoi sogni, alle tue aspirazioni. Fatti tremare il cuore di emozione, abbi uno sguardo pietoso e non distratto verso i più deboli, i bisognosi, questo può rendere la vita più ricca e felice. Quando arriverò alla fine della mia strada, non so se avrò il tempo di vedere scorrere il film della mia vita, non so se avrò il tempo di buttar via le pene inutili e aprire le mani per lasciare andare le persone che ho amato: TU, prima di chiunque altro.
Se invece mi spegnerò, se la luce andrà via di colpo, come quando si schiaccia un interruttore, allora sappi che ti ho amata, sentendomi in paradiso quando ti stringevo a me e giocavamo a farci il solletico o a fare la lotta con me e Dante. Tu eri una bimba molto affettuosa, lui aveva un istinto materno più spiccato del mio. Io ti facevo scherzi barbini: quando giocavamo a ‘tana liberi tutti, mi nascondevo, sbucando fuori all’improvviso, tu urlavi spaventata e ti mettevi a piangere. “Non vale, sono io che ti devo spaventare, invece poi lo fai tu”, protestavi arrabbiata. Poi con l’adolescenza cominciasti a ritrarti quando volevo abbracciarti. “Mamma, adesso sono grande.” Quegli abbracci e quei giochi da bambini li ho amati immensamente.
Giuli interrompe la lettura, sente la gola strozzata da un grumo che non va né su né giù. La nostalgia l’avvolge, scorrendole addosso come miele amaro, riportandola alle cose speciali che l’allegria di sua madre le aveva regalato; è felice di averne ereditato una parte. Ciò nonostante, nella sua mente, l’incubo della notte si apre un varco, vuole essere rivissuto per l’ennesima volta, giacché per lei è realtà, non fa parte dei brutti sogni rielaborati durante il sonno.
Da bambina, una notte, sognò che un coccodrillo sotto le coperte voleva morderle le gambe: si svegliò tremando, talmente spaventata che l’urlo che aveva in gola rimase muto.
Si buttò giù dal letto: corse nella penombra, sentendo le fauci del rettile toccarle un piede. Si precipitò in camera di sua madre, balzando nel letto. Si ritrovò sopra il corpo di qualcuno: non era sua madre, perché lei era nel materasso accanto, capì che in quel letto c’erano due persone. Le sembrò strano, perché i genitori non dormivano mai insieme. Piena di paura e di sonno, s’infilò sotto le coperte tra i due. Sua madre strillò e finalmente lo fece anche lei. L’altra persona si coprì la testa col lenzuolo, sua madre la prese in braccio e la riportò nel suo letto. Si fermò a tranquillizzarla, fino a quando lei si riaddormentò.
Dopo qualche ora, andando in bagno per fare la pipì, Giuli vide sul pavimento il pezzo di una cravatta rossa rimasta pinzata fuori dalla porta chiusa. Andò in camera del padre: lui stava dormendo profondamente. Suo padre non possedeva cravatte, tantomeno rosse, e dormiva nel suo letto. Ne ebbe la certezza: con sua madre c’era un altro uomo. Sebbene avesse solo sette anni, sentiva che non doveva dire niente, il padre non doveva saperne nulla.
Il mattino dopo, raggiunse la madre in cucina: si rannicchiò su una sedia abbracciandosi le ginocchia, poi le chiese chi aveva dormito nel suo letto. Con la faccia stanca lei rispose: “Non ti ricordi? Hai avuto un incubo, lo hai sognato!”
Il viso sereno del padre, entrato in cucina, la rese incerta. I dubbi si fecero spazio a spese delle certezze. Forse aveva avuto davvero un incubo, tuttavia non poteva dimenticare quello che aveva vissuto: esperienze come quelle s’incidono nella mente e non smettono mai di fare male.
Giuli torna al presente: raccoglie le forze per riprende la lettura.
Tesoro mio, forse sarà troppo tardi, ma devo dirti che il tuo padre biologico si chiama Marcello Villa, l’uomo che avrai visto accanto a me nelle foto. Vorrei essere con te, per cercare di attutire il colpo che ti sto dando, ti prego di perdonare la mia vigliaccheria.
Conobbi Marcello una sera in cui Dante suonava in un locale. Avevamo degli amici in comune e finimmo tutti allo stesso tavolo. A quei tempi, io e Dante non avevamo legami, se non una profonda amicizia che durava dalle elementari. Lui è stato il mio migliore amico di sempre.
Marcello era un leader nato, sapeva ammaliare le persone, era allegro e incline allo scherzo; un uomo bello, alto e snello: tu hai ereditato i suoi i capelli, il suo stesso viso, sei identica a lui. Il nostro fu un colpo di fulmine, l’amore, quello vero, arrivò nelle nostre vite. Furono anni in cui esistevamo solo noi, la nostra urgenza di stare insieme, di amarci. Purtroppo Marcello non era solo, aveva fatto un matrimonio riparatore, dopo una notte passata con una ragazza: un’unione senza amore che aveva visto nascere due figlie. Lui non mi nascose nulla e io l’amavo troppo, al punto da superare preconcetti e sensi di colpa. Quando rimasi incinta di te, mi sentii benedetta dal cielo, la donna più felice di questo mondo. Tutti i ginecologi dai quali mi ero fatta visitare mi avevano sempre detto che non avrei mai potuto avere figli, mi parve un vero e proprio miracolo.
Il seguito di questa lettera l’ho affidato a zia Elda, vorrei ti stesse vicino quando la leggi. Ti ho già ferita troppo e non mi sembra umano aggiungere tutte le altre spiegazioni che devo ancora darti.
Sei la cosa più bella che la vita mi abbia regalato e ti amo immensamente. Perdonami se puoi.
Tua madre
Giuli solleva gli occhi dalla pagina, fissa il soffitto, pregando che non le crolli addosso come sta facendo la sua vita. Si sente travolta da un vento degno di Cime tempestose. Sua madre aveva visto giusto: adesso non può assorbire nient’altro, neppure una singola parola, un‘emozione qualsiasi.
Scarta l’idea di chiamare Lucio. S’infila il giaccone ed esce in cerca d’aria.
8 marzo 2020
Ciao, Giuli,
sono giorni duri, zeppi di responsabilità a volte troppo pesanti da accollarsi. Come stai? Perché non ti fai sentire? Non mi racconti più le tue giornate. Hai visto la TV? Sarai preoccupata delle notizie che ci danno, dei morti che in questa giornata sono 366, numero destinato a salire. Anche oggi abbiamo il primato della Regione con più contagi, poco meno della metà di tutto il paese. Gran parte del Nord è diventato zona rossa, con tutte le restrizioni del caso, per arginare l’epidemia.
Giuli cara, ti dico tutto questo per rafforzare la tua convinzione che bisogna prendere tutte le precauzioni. Ti prego di metterci ogni attenzione possibile.
Se vedessi come sono gli ospedali ora, a partire dal mio, non li riconosceresti. Abbiamo raddoppiato o addirittura quadruplicato i posti di terapia intensiva per i malati più gravi. Inoltre abbiamo improvvisato un corso di formazione per medici di altre specialità, cardiologi, urologi, ecc. e per gli infermieri, che verranno impiegati nei reparti Covid-19 per pazienti non intubati. Anche per loro è difficile, devono imparare il lavoro dei nostri reparti, occuparsi di malati che non possono ricevere visite dai familiari, persone isolate dal mondo esterno e spaventate.
La verità è che ci aspettavamo l’onda, invece è arrivata una montagna d’acqua. Le autorità sanitarie locali, prese alla sprovvista, per diversi giorni hanno cercato di minimizzare, per evitare di provocare il panico.
In un ospedale di Bergamo ci sono più di 80 pazienti gravi intubati, occupano tutte le terapie intensive. È così praticamente dappertutto, abbiamo numeri impressionanti, da tempi di guerra. Per molti di noi anestesisti è cambiato il lavoro, siamo costretti a prendere decisioni straordinarie.
C’è un lavoro che nessuno di noi vorrebbe fare: si tratta del turno di “triage” o “explorer”, come viene chiamato in qualche ospedale, un compito difficile e complicato sotto tanti aspetti: dobbiamo fare il giro al pronto soccorso e nei reparti occupati dai pazienti positivi al virus, controllarne le condizioni di salute e decidere chi ha la necessità di essere intubato, nel caso si liberi un respiratore. Immagina, umanamente, come possiamo sentirci. Si cerca di affidare questo lavoro, il più difficile da affrontare, ai medici con più esperienza. Io sono tra questi.
Perdonami, Giuli, per le cose che ho scritto, ma davvero non ne trovo altre nella mia testa.
Abbi cura di te perché tutto questo finirà e riprenderemo insieme il nostro cammino.
Il tuo Lucio.
9 marzo 2020
La videochiamata di Aurora trova Giuli ancora in pigiama.
- Ciao, Giuli, hai sentito? Siamo anche noi zona rossa, non possiamo uscire di casa se non per fare la spesa, andare in farmacia e poche altre cose. Ho una fifa nera. Ma cos’è quella faccia? Hai avuto un incubo?
- Ho paura anch’io, Aurora, sono terrorizzata per Lucio, come se non bastasse mi sta crollando il mondo addosso…
Aurora vede il viso dell’amica in preda all’angoscia.
- Che succede, è accaduto qualcosa di brutto? Perché non mi hai chiamata? Io ci sono per qualsiasi cosa.
- Grazie, Aurora, lo so. Ma questa volta non avevo né forza né voglia di parlare, non ho detto niente nemmeno a Lucio…
La voce s’incrina.
- Dimmi, stai bene? Non è che hai la febbre?
- No, sto bene, non è quello. Faccio fatica a parlarne.
- Ma che c’è?
Giuli abbassa gli occhi, china la testa, poi la rialza, ha la bocca stretta in una smorfia.
- Senti, Aurora, tu hai mai notato qualcosa di strano nella mia famiglia? Secondo te io assomiglio ai miei genitori?
Aurora aggrotta le sopracciglia, scruta l’amica.
- Lo sai che ho sempre ammirato la tua famiglia, così moderna, così viva e in armonia. Mi è sempre piaciuta più della mia. Loro erano davvero avanti, all’avanguardia.
- Sì, ma secondo te, io somiglio ai miei genitori?
- Direi, un po' a tua madre. Devi aver preso dai nonni, come dicevano loro.
- Non so come dirtelo. È una cosa troppo grossa…
- Ascolta, magari lo farai un’altra volta.
- Aspetta, cerco di spiegarti. Ho trovato al fondo dell’armadio di mia madre una cartellina verde con dentro tre buste. La prima che ho aperto conteneva foto che ritraevano mia madre con uno sconosciuto.
Fa una pausa di qualche secondo.
- Quindi?
- La visione di quell’uomo mi ha stravolta, perché gli somiglio come una goccia d’acqua, ho il suo stesso viso, gli stessi capelli… Lui abbracciava mia madre, ballavano, si capiva che stavano insieme…
- Dio mio! Povera, chissà che shock!
- Quell’uomo è mio padre. Me lo ha scritto mia madre, in una lettera che era nella stessa cartellina.
Aurora la fissa stupita, annaspa per trovare qualcosa da dire che abbia un senso.
- Giuli… mi spiace tantissimo. Che botta! Credo bene che tu stia male. Una bella mazzata, proprio in questo periodo. Ma tua madre ti ha spiegato come stavano le cose?
- Ha scritto che si amavano e che in tutti questi anni non ha mai trovato il coraggio di dirmelo.
- Questo si può capire, non so, credo che mi sarebbe molto difficile dire a mio figlio che suo padre non è Loris.
- Credo sarebbe stato meno doloroso se me lo avesse detto prima, di persona.
- Hai ragione, però non poteva sapere che sarebbe morta così presto.
- Hai ragione anche tu, l’infarto non le ha lasciato più tempo, però ne ha avuto tanto prima.
- Che farai ora? Mi spiace, non posso neanche venire a trovarti.
- Sei un conforto già così. Grazie. Contatterò la sorella di mia madre, zia Elda. L’hai vista un sacco di volte dai miei.
- Certo, la ricordo benissimo. Insegna ancora pianoforte?
- Sì, anche se in questo periodo ha sospeso le lezioni.
- Giuli, volevo dirti una cosa bella: ha telefonato il nostro capo, in via del tutto informale mi ha anticipato che la verifica sul nostro lavoro è agli sgoccioli, finora ha confermato la falla che abbiamo individuato.
- Ma dai! Finalmente una buona notizia. Grazie, Aurora. Ti terrò aggiornata.
- Fatti sentire presto.
10 marzo 2020
Giuli prende il coraggio a due mani, deve andare in fondo alla storia: telefona a zia Elda. Si sforza di avere un tono normale.
- Ciao, zia Elda, come stai?
- Giuli, sono contenta di sentirti, che sorpresa! Io tutto ok. Vi ho pensato tanto in questo periodo. State bene tu e Lucio?
- Grazie, stiamo bene, nonostante tutto. Zia, devo chiederti delle cose di mamma…
- Che cosa vuoi sapere di tua madre? – le chiede con voce incerta.
- Ho trovato la lettera e le foto di mamma. Ho visto l’uomo che è mio padre.
- Prima o poi doveva succedere - dice la zia, quasi in un sussurro. - Avrebbe dovuto dirtelo. Il terrore di perderti, di farti male, glielo ha impedito. Mi spiace tantissimo che tu l’abbia saputo così. Povera piccola. Chissà che colpo…
- È stato uno shock, non ho mai pensato che Dante potesse non essere mio padre. Zia, la mamma ha scritto che ti ha consegnato delle lettere per me.
- Sì, cara, le ho io. Senti, domani devo andare in farmacia, se vuoi, posso lasciartele nella buca delle lettere. Purtroppo non ci si può frequentare. In questo momento, vorrei abbracciarti forte, cercare di consolarti. Sei l’unica rimasta della mia famiglia, la persona più cara che ho.
- Anche per me è così. Grazie. Zia, non voglio che tu corra rischi venendo da me, fallo solo se davvero puoi.
Per favore, parlami di mio padre. Che persona era? Perché non si è fatto mai vedere? Perché mamma ha sposato Dante?
- Mi chiedi di tuo padre. Non lo vedo da tanti anni. Era un uomo affascinante. Ricordo le loro uscite, anzi, le nostre. Io avevo tre anni meno di tua madre, ma frequentavamo gli stessi amici, eravamo inseparabili.
- Dimmi la verità, zia, raccontami tutto.
- Certo. Ti racconterò ogni cosa, tutto quello che so. Si amavano pazzamente, sai, quegli amori rari, quando si uniscono le due metà di una mela.
- Forse non si amavano così tanto, visto che si sono lasciati.
- Lui era sposato, aveva due figlie. Uscivamo con amici comuni, un paio di sere alla settimana.
- Trovi che ci somigliamo?
- La vostra somiglianza è imbarazzante, ma nessuno vi ha mai visti insieme, non vi siete mai incontrati.
- Perché si sono lasciati? Perché mi ha rifiutato? - chiede Giuli a fatica. Sente la lingua asciutta, ruvida come carta vetro.
- Lui non avrebbe mai distrutto la sua famiglia, per nessun motivo, nemmeno per la nascita di una figlia. Tua madre ne è quasi morta. Probabilmente si era ingannata nei suoi confronti, o aveva voluto farlo.
- Magari lui le aveva promesso di andare a vivere con lei, forse per questo mia madre si era fatta mettere incinta, è così?
- Ti prego, cara nipote, ora basta. Sono stanca, e lo sei anche tu. Ci sentiamo presto. Ciao.
Elsa riattacca, prima che Giuli possa salutarla. Probabilmente questi ricordi sono dolorosi anche per lei.
Nel silenzio che segue, cerca di rendere viva l’immagine del padre biologico, senza riuscirci. Com’era la sua andatura? E la sua voce? E il tocco delle sue mani quando carezzava le figlie? Dio mio! Non ci aveva ancora pensato. Sono le sue sorellastre. Aveva due sorellastre! Il cuore le martella impazzito, i pensieri si solidificano, colpiscono le sue tempie come palline da ping-pong. Si stende sul divano, con un gran mal di testa.
Come saranno, somiglieranno al padre, a lei? Come farà a raccontare tutto questo a Lucio? Per il momento non gli dirà nulla. Mancano ancora tanti tasselli del puzzle.
11 marzo 2020
Ciao, Lucio,
ho letto la tua e-mail e sono terribilmente preoccupata che tu possa ammalarti, non solo per il virus ma anche per la stanchezza e le dure prove alle quali sei sottoposto.
Posso soltanto immaginare quanto sia difficile decidere di attaccare a un respiratore un malato piuttosto che un altro, quanto sia torturante anche solo il più piccolo dubbio di non aver fatto la scelta giusta.
Non essere troppo severo con te stesso, come al solito, concediti delle attenuanti, Lucio, ti prego. Sono certa che non si possa fare meglio di così. Tutti i tuoi colleghi conoscono lo scrupolo e il rigore con i quali hai sempre affrontato il tuo lavoro, la tua “missione”.
Io sto bene. Solo piena di preoccupazioni e inquietudine. Troppi fantasmi in questa casa… Ho sentito zia Elda, mi ha rivelato fatti di mia madre che non conoscevo. Ne parleremo più avanti o quando potremo farlo di persona.
In tutto questo casino, però, una buona notizia c’è: il capo ha chiamato Aurora per dirle, ufficiosamente, che la falla che avevamo individuato nello studio americano per il momento è confermata. Considerando che sono al termine dei controlli direi che ce l’abbiamo quasi fatta. Ovviamente ne sono felice.
Abbi cura di te. Ti amo.
12 marzo 2020
Giuli si affaccia al bovindo, nel parco solo qualcuno porta a spasso i cani. C’è un silenzio innaturale, rotto dal suono delle sirene in costante aumento. Sono spariti i rumori del traffico e anche quelli del condominio. Sebbene siano tutti a casa, tutto tace, gli alloggi sembrano vuoti, persino i vecchietti sordi sembrano avere riacquistato l’udito, non tenendo più il volume della TV in modalità discoteca.
È metà mattina, quando il trillo del citofono la fa sussultare; solleva il ricevitore.
- Ciao tesoro, sono zia. Se mi apri, metto le lettere nella buca.
- Subito. Zia, vuoi salire?
- No, meglio essere prudenti.
- Grazie mille, sei stata tanto cara a venire fin qui.
- Hai diritto di sapere, non è giusto tenerti ancora nell’incertezza. Quando te la senti, chiamami. Se posso esserti utile…
- Te ne sono riconoscente, ti ringrazio ancora infinitamente. Zia, quando esci dal portone, guarda in alto, così ci salutiamo almeno da lontano.
- Ok. Bella idea. Ciao, Giuli.
- Ciao, zia. Ti voglio bene.
Giuli si affaccia dal balcone del sesto piano, sul marciapiede vede la zia che fa cenni di saluto, si mandano baci, poi la donna sale in macchina e si allontana.
Pensa a zia Elda, a quanto sia simile a sua madre, solo un po’ più bassa e robusta, ma con gli stessi capelli biondi e il colorito chiaro. La differenza più marcata stava nell’abbigliamento: la zia ha sempre vestito abiti dai colori vivaci, prediligendo fantasie etniche, sua madre aveva gusti più classici e sobri.
Giuli ha fretta di avere le lettere, attende impaziente l’ascensore, le recupera dalla buca, sono due.
Si siede al tavolo della cucina, apre quella indirizzata a lei. Sulla busta c’è la scritta “A Giuli”. Dentro, due fogli di colori diversi, con la grafia della madre. Fa un respiro profondo e inizia a leggere.
Giuli adorata,
dovevo aspettare che tu avessi dei figli, soltanto allora mi avresti potuta giudicare, comunque è indispensabile che ti parli di tuo padre.
Marcello era una persona sicura di sé. Eppure, col tempo, quando lo conobbi meglio, mi resi conto che c’era dell’altro. Tra noi era cresciuta la confidenza, e con questa, la capacità di percepire i nostri stati d’animo, anche quando non eravamo insieme. Appresi i suoi tormenti e le insicurezze, le sue ferite mai rimarginate.
Sospende la lettura, pensando che anche fra lei e Lucio è così. Un barlume di tenerezza si posa sullo strato di malessere e rabbia. Poi i suoi occhi ritornano alla lettera.
Seppi che era stato adottato: la madre lo aveva abbandonato. Non sapeva niente dei suoi genitori biologici, della sua famiglia di origine. Era riconoscente e amava i genitori adottivi, che lo avevano allevato con amore, si sentiva appagato come figlio. Tuttavia, nel suo “dentro”, sanguinava la ferita dell’abbandono. Si era costruito una corazza per nascondere la sua fragilità, ma ne era vittima. Aveva una sensibilità per certi versi esasperata: con lui si rischiava di essere un elefante in un negozio di cristalli, a volte gesti e parole, per gli altri insignificanti, potevano fargli male.
La pena si aggiunge alla tenerezza, Giuli avverte una smania nello stomaco, ha bisogno di un pezzo di pane per tamponarla. Riprende a leggere.
Forse anche per questo, quando una ragazza gli disse che era incinta, dopo una sola notte passata insieme, accettò di sposarla, sebbene lo avesse ingannato assicurandogli che prendeva la pillola. La ragazza gli chiese che cosa dovesse fare, lui rispose che la scelta spettava solo a lei: non l'avrebbe forzata in nessun senso. Lei decise di tenere il bambino. Lui disse che se quella era la sua decisione l’avrebbe sposata, anche se non l’amava: la loro era stata l’avventura di una notte, ciò nonostante non avrebbe lasciato il bambino senza un padre.
Quando le nostre vite s’incrociarono, tuo padre aveva due bambine, un rapporto inesistente con la moglie, e una profonda infelicità. Un’unica certezza: non le avrebbe mai abbandonate, per nessuna ragione al mondo.
Giuli, figlia mia, perdonami, penso a quanto male ti sto facendo.
Non ho la forza di continuare.
C’è ancora l’altro foglio da leggere, Giuli si sente stremata: anche lei non ha la forza di continuare, non vuole sapere più niente. Manda un messaggio a Lucio, poi si abbandona al sonno, che la salva temporaneamente da un’angoscia opprimente.
13 marzo 2020
È una bella giornata: un anticipo di primavera. Nel salone, le finestre del bovindo attraversate dai raggi del sole sprigionano giochi di colori verdi e azzurri, formando fantasmagorici disegni: invadono parte della stanza, posandosi come gocce di luce su Giuli, seduta sul divano a sorseggiare un caffè. Dovrebbe uscire per fare provviste, non ne ha voglia. Si costringe ad alzarsi e andare a fare la doccia. Esce di casa e fa le scale a piedi, nel tentativo di evitare la portinaia. Giunta nell’androne, se la vede sbucare all’improvviso dalla guardiola.
- Buongiorno, signora Maggioni, mattiniera oggi?
- Buongiorno, Caterina. Vado a fare la spesa.
Caterina la fissa attentamente, scuote la testa.
- Non si offenda, ma è proprio sciupata, dimagrita e con le occhiaie. Sicura di star bene?
Lo sguardo della portinaia si fa più acuto, fa due passi indietro portandosi la mano sulla mascherina scuotendo la testa.
- Se non sapessi che è sempre a casa da sola, mi preoccuperei molto. Sa, per via del virus, del contagio.
Giuli squadra la donna da capo a piedi.
- Lei, Caterina, invece è in perfetta forma. Neanche la clausura la scalfisce. Sono certa che è il virus a temerla.
- E tutto questo nonostante debba disinfettare tutto più volte. Anzi, volevo chiedere una piccola gratifica per questi lavori supplementari.
- Ok. Le suggerisco di proporlo all’amministratore. Io sono d’accordo. Ora la saluto. Buona giornata.
- A lei. Grazie.
Fuori tutto è diverso. Negozi con le serrande abbassate, pochissime auto in giro, le strade sono deserte, le scuole e gli edifici pubblici chiusi. L’urlo delle sirene squarcia il silenzio. Sembra di essere proiettati in un film di fantascienza.
Davanti al supermercato una lunga coda. S’incolonna con gli altri e attende con calma. Guarda occhi spaventati sottolineati dalle mascherine.
Davanti a lei una signora anziana si guarda intorno ansiosa, poi le si avvicina mollando il carrello.
- Sto aspettando mio marito che è andato a parcheggiare la macchina. Ormai dovrebbe essere qui.
- Stia tranquilla, signora, vedrà che arriverà a momenti. Però, per favore, non mi stia così vicino…
La signora con riluttanza torna al suo posto. Poi si sbraccia per segnalare al marito in arrivo la sua posizione. Un uomo senza mascherina, dal passo strascicato e dall’aria trasandata, la raggiunge, si guarda intorno e si sposta all’indietro vicino a Giuli.
- La prego di allontanarsi da me, non lo sa che deve stare almeno un metro dalle altre persone? E si metta la mascherina, per favore.
- La mascherina ce l’ha già mia moglie.
Giuli è senza parole. Nella coda, i più vicini cominciano a rumoreggiare.
“Sta’ a distanza di sicurezza. Non sputare in faccia alla gente, mettiti la mascherina, se no va via, pirla! Si può entrare uno per famiglia per evitare assembramenti. Ma non la guardate la TV? Lo ripetono tutti i momenti.”
All’arrivo della vigilanza, l’uomo si allontana, dicendo alla moglie che l’aspetta in macchina.
Giuli torna a casa di pessimo umore, neanche la tavoletta di cioccolato fondente glielo migliora. Sistema la spesa e si sposta in salone con l’altra lettera e il foglio ancora da leggere.
Ha un colore diverso dall’altro, cambia anche l’inchiostro, questo è blu. Si capisce chiaramente che è stato scritto in un altro momento.
Figlia mia adorata,
quando mi accorsi di essere incinta, ero fuori di me dalla felicità e nello stesso tempo sbalordita. Aspettavo un figlio, io che mi ero sentita dire dai ginecologi che non ne avrei mai potuti avere. Sapevo che non avrei potuto chiedere a Marcello di lasciare la sua famiglia, mi sarebbe bastato che lui ti riconoscesse e mi aiutasse a crescerti. In un'altra casa, sì, ma insieme, tutte le volte che si poteva. Invece, la sua reazione alla notizia mi fece piombare in un abisso di disperazione. Lui si sentì ingannato per la seconda volta, si infuriò. Non riuscii a convincerlo che ero più sorpresa di lui. Ero offesa per il fatto che mi credesse capace di inscenare una commedia simile, non avrei mai potuto farlo. Che idea si era fatta di me? Finora era stata tutta una finzione? Non mi davo pace. Come avevo potuto credere fosse un uomo diverso?
Ma avevo una certezza anch’io: non avrei mai abbandonato mio figlio. Lo avrei cresciuto da sola. Quel bimbo avrebbe illuminato la mia esistenza.
Poi Marcello partì per un lavoro in Germania, io non volli più vederlo. La gravidanza fu meravigliosa: una gioia profonda m’invadeva quando posavo la mano sulla pancia e sentivo i tuoi palpiti, i piccoli spostamenti. Non avevo un gran pancione e ti s’indovinava sotto la pelle tesa, ci posavo sopra la mano, accarezzandoti, ti cantavo ninne nanne. Tu eri impaziente di venire al mondo: nascesti prematura. Dopo un mese d’incubatrice, ci fecero tornare a casa.
In ospedale mi avevano aiutata zia Elda e Dante. Anche loro s’innamorarono perdutamente dello scricciolo che eri. Tuo padre mi fece pervenire l’assegno di undici milioni da Ermes, l’amico per la pelle di Dante, che frequentava casa nostra. Io lo rifiutai e tentai di rimandarlo al mittente tramite Ermes, ma non ci fu verso. Allora lo tenni: la convinzione che lui non fosse degno di essere presente nella tua vita, nemmeno con un assegno, me lo fece seppellire al fondo dell’armadio. Non lo avrei mai incassato! Quello che mi aveva fatto era imperdonabile. Avevo toccato un punto di non ritorno. Sai come posso essere ostinata.
L’immenso affetto che legava me e Dante ci fece decidere di sposarci. Saremmo stati la tua famiglia e lui il padre meraviglioso che hai avuto.
Giuli, ti supplico, fatti aiutare da zia Elda, da Lucio, anche da Aurora, non vivere da sola questo dramma. Non ho saputo essere migliore. Ti ho amata immensamente. Perdonami.
Sono le 18 quando, in gran parte della penisola, i balconi e le finestre si riempiono di gente. Ciascuno si affaccia dalla propria casa, parecchi armati di strumenti musicali, per un flash mob. Qui a Milano l’invito è di suonare e cantare “Madonnina”. L’intento è suonare insieme anche se lontani, per rallegrare le città. Chi non ha uno strumento può far suonare le pentole di casa, o cantare, l’importante è vedersi, farsi sentire, perché in questo momento la musica è la migliore medicina per curare l’anima e mitigare la paura.
14 marzo 2020
Sono le sei del mattino: Giuli decide di mettere fine alla notte pressoché insonne. Come farà a metabolizzare tutto quello che ha saputo? Riuscirà a capirlo sino in fondo? Per il momento non è in grado di esprimere giudizi, nella sua mente c’è una specie di nebbia. Ha bisogno di tregua, di fare domande. Appena sarà un’ora decente, chiamerà zia Elda. Nel frattempo le rimane ancora una lettera da leggere. Il calvario non è finito.
La busta è indirizzata a sua madre. C’è scritto Maria, con una calligrafia spigolosa e inclinata a destra.
Dentro, un foglio color avorio mette in risalto il blu dell’inchiostro. La lettera è certamente scritta con la stilografica.
Giuli prende fiato, sta vedendo per la prima volta la scrittura di suo padre. Prova un brivido, sta per leggere i suoi pensieri.
Maria,
come hai potuto farmi questo? Anche tu mi hai ingannato, dicendomi che non potevi avere figli. Perché lo hai fatto, sapendo che non avrei mai abbandonato le mie bambine? Non è valso a nulla raccontarti i miei tormenti? Mi hai detto che i ginecologi te lo avevano assicurato: il dubbio che non sia vero mi rode. Se volevi un figlio nostro, avremmo dovuto deciderlo insieme, non avevi il diritto di pensare di crescere un figlio da sola. Io non posso fare il mio dovere di padre, essere presente nella sua vita, stargli accanto, esserci sempre come è giusto che sia.
Sono furibondo e deluso. Mi chiedo chi tu sia veramente.
Ho bisogno di riflettere. Parto per un lavoro in Germania. Non so bene quando e come ne riparleremo di persona.
Marcello
Un sentimento di rabbia, di dolore, di spaesamento invade Giuli, le procura un male fisico. Si rannicchia sul divano come un animale ferito. Girandole di pensieri senza senso s’intrecciano nella sua mente, incapace di recuperare la parte razionale. La curiosità, come un tarlo, la spinge, ancora una volta, a chiamare zia Elda.
- Ciao, zia, stai bene?
- Sì. La tua voce mi dice che sei tu a non star bene.
- Come potrei? Niente è come prima. Le mie certezze cancellate con un colpo di spugna. Un padre che non mi ha voluta. Mi ritrovo in una storia tutta sbagliata.
- Ascolta, Giuli, non sempre le cose vanno come dovrebbero. C’è il caso, la sfortuna, c’è la sofferenza che ha lasciato graffi nell’animo della gente. Niente è prevedibile.
- Ma come ha fatto mamma a innamorarsi di uno che aveva già famiglia?
- Credi che queste cose si possano decidere razionalmente? La passione è stata più forte di loro. Ha travolto entrambi.
- Dopo la mia nascita, lui non mi ha più cercata? Mai in tutti questi anni?
- In realtà, lo ha fatto. Ermes, l’amico di Dante, è stato il suo tramite. Tuo padre abitava in un altro quartiere, ma ha seguito la tua crescita. Avrebbe voluto, dopo la tua nascita, riallacciare i rapporti con tua madre, ma lei è stata irremovibile. Le accuse di Marcello le avevano spezzato il cuore.
- Zia, è tutto così confuso, non so quale sia il confine tra il torto e la ragione. Ma non posso giudicarli.
- Giuli, cara, un padre che ti adorava lo hai avuto.
- Sì, non avrei potuto averne uno migliore. Ma perché si sono sposati senza essere innamorati?
- Il loro era un affetto talmente grande da essere simile all’amore. Hanno unito le loro vite per questo sentimento e per darti una famiglia.
- Hai mai visto le mie sorellastre? Non sai che effetto mi fa questa cosa. Avrei tanto voluto avere dei fratelli, delle sorelle. Ma così…
- Lo so, lo dicevi sempre, da bambina.
- Zia, tu sei in contatto con Ermes? Da quando è morto papà, lo hai più sentito?
- Siamo in contatto. Abbiamo la passione per la musica che ci accomuna. A volte abbiamo suonato insieme. È una gran bella persona. Davvero speciale. Dopo la morte di Dante, lui ha cercato di allontanarsi, ma senza perdervi mai di vista. Era un grande amico anche di tua madre. La morte di Dante lo ha distrutto.
- Zia, grazie. Ho bisogno di riflettere, di digerire questo minestrone. Ti chiamo presto. Ti voglio bene.
- Anch’io te ne voglio, nipote carissima. Forza, sii forte.
Giuli si siede per terra, cerca di rilassarsi rallentando la respirazione. S’immerge nella meditazione: quando si riscuote, è passata quasi un’ora. Sente una grande calma. Cerca di guardare in faccia la sua nuova realtà. Sa che molte parti del puzzle sono oscure, avrà bisogno di maggiori dettagli, di fotogrammi che uniscano in un film tutta la storia.
Scrive una e- mail a Lucio.
Ciao, Lucio,
in questi ultimi giorni siamo rimasti poco in contatto. Per quanto riguarda te, capisco che tu sia immerso fino al collo nel tuo lavoro. Io invece sto cercando di riprendermi da novità sconvolgenti che mi sono piovute in testa, riguardano i miei genitori e me. Non allarmarti, io sto bene, lo sai che sono forte, ma sempre più spesso il mio lato fragile si fa vivo. Come dirtelo in questo modo? Difficile trovare le parole. È iniziato tutto da una lettera di mia madre, che ho trovato in fondo al suo armadio. C’erano anche alcune foto, che mi hanno messo in crisi, perché mia madre era con un uomo che mi somiglia come una goccia d’acqua. Nella lettera, mia madre scrive che quell’uomo è il mio padre biologico. Puoi immaginare come mi sia crollato il mondo addosso. Ora sono in contatto con zia Elda: mi racconta delle cose e mi sta vicina.
Scusami, non riesco a continuare, è già stato molto difficile così. Lucio, dobbiamo tenerci su a vicenda quando stiamo per cadere. Sarebbe bello annullarci in un abbraccio che spazzi via la solitudine di questi giorni.
Sappi che oggi, alle 12 e alle 18, c’è stato un flash mob in tutto il paese. La gente si è affacciata da finestre e balconi per applaudire l'Italia che non molla, ringraziare con un applauso medici, infermieri e personale sanitario, tutti quei lavoratori impegnati a garantire i servizi essenziali. In tutti i palazzi, i balconi e le finestre erano gremiti di persone che si scambiavano sorrisi e saluti, che intonavano canzoni come “Azzurro”. Insieme a chitarre, trombe e clarinetti si sono suonati oggetti vari e pentolame. È evidente il bisogno di scaricare la paura e soddisfare il desiderio di “tribù”. Per strafare, stasera alle 21, si spengneranno le luci di casa e tutti alle finestre per un minuto con torce e luminarie. Un’iniziativa che farà vedere al mondo tramite il satellite che l'Italia è viva.
Ti amo. Scrivi presto o chiama se puoi.
15 marzo 2020
Giuli,
vorrei esserti accanto e consolarti. Ti tengo stretta col pensiero, spero ti arrivi il calore del mio abbraccio. Capisco ti sia crollato il mondo addosso: ti ritrovi con la storia della famiglia che conoscevi fatta a pezzi dalle lettere, in questo momento di solitudine.
Le parole sono una blanda consolazione, oltretutto io ne trovo poche, ma voglio dirti: “sono con te, teniamoci in piedi a vicenda”. Confido nella tua forza, nella tua razionalità. Coraggio!
Giuli, non te l’ho ancora detto, ma è da diversi giorni che non vado più a casa, mi fermo alla foresteria dell’ospedale, dove ho una stanza con un letto, un armadietto, una sedia e un tavolino. Rassicurati, sto benissimo, ho appena fatto il tampone e sono negativo. Solo, qui, per la verità, gli orari non li guardiamo più. Molti colleghi stanno male, sono in quarantena o ricoverati nei nostri reparti. Qualcuno si è messo in malattia, terrorizzato dall’idea di essere contagiato. Ci sono sempre dei volontari per coprire le assenze. Lavoriamo bardati dalla testa ai piedi. Alcuni di noi hanno una targhetta col nome, la maggior parte, il nome per identificarci ce l’ha scritto a pennarello sulla tuta. Di noi i pazienti vedono solo gli occhi, sembriamo degli astronauti, meglio ancora degli alieni vestiti di bianco. Siamo le uniche persone che i malati vedono e siamo tutti mascherati, per questo è più che mai necessario stabilire e mantenere con loro un rapporto umano.
Il tempo per comunicare con l’esterno è poco, finito il lavoro siamo stremati.
La rianimazione è piena di pazienti intubati e ventilati da un respiratore, soffrono molto e necessitano di assistenza continua. Molti di loro non ce la faranno. Alcuni se ne rendono conto e vogliono il prete. Moriranno senza una persona cara che gli tenga la mano. Cerchiamo di fare del nostro meglio per accompagnarli fino all’ultimo respiro.
Concetta, la caposala, è risultata positiva al tampone, è a casa a far la quarantena. A sostituirla è arrivata Claudia, una ragazza giovane che avevano assunto da poco e lavorava in Diabetologia. Inutile dire che ha una gran paura, anche se cerca di nasconderlo.
Ti abbraccio. Abbi cura di te.
Lucio
16 marzo 2020
Giuli sta lavorando al computer da qualche ora. Si è alzata presto, decisa a riconquistare pezzi di normalità. Si concede il secondo caffè e si affaccia al balcone della cucina. Fuori il sole scalda le vie pressoché deserte, percorse da mezzi di soccorso. L’urlo di un’ambulanza si fa più forte, la vede avvicinarsi e fermarsi davanti al portone. I balconi e le finestre del palazzo si riempiono di curiosi. Dal veicolo scendono sanitari vestiti con tute bianche, che ricoprono anche la testa, la faccia semicoperta da mascherina e occhiali protettivi. Vedere infermieri e medici così abbigliati fa impressione, sembrano davvero degli alieni. C’è un silenzio totale, le persone affacciate stanno zitte e ferme, muovendo solo le teste per cercare gli sguardi degli altri. L’urlo di un’altra sirena in avvicinamento rompe l’immobilismo dei curiosi. L’ambulanza si ferma accanto all’altra. “Dev’essere qualcosa di grave” - si sussurrano. “Speriamo non si tratti del virus” - si dicono, già disillusi.
Dall’ambulanza escono altri sanitari con alcune bombole di ossigeno, entrano anche loro nel portone. Nessuno sa a quale piano stiano andando, tranne quelli che si trovano sullo stesso pianerottolo. Un quarto d’ora dopo, escono due barelle, non si capisce chi possa esserci. Le ambulanze partono a sirene spiegate, tutti rientrano in casa in preda all’ansia.
La portinaia si precipita a disinfettare tutti i luoghi comuni. Giuli, incollata allo spioncino per vedere se si apre qualche porta, socchiude l’uscio e le chiede a bassa voce se sa cosa sia successo. Lei non è portinaia per niente e, nonostante un’evidente agitazione, le confida che i signori portati via sono i Locatelli, quelli del primo piano, il padre e una figlia, avevano entrambi l’ossigeno. La madre e l’altra figlia sono rimaste a casa. Lei li ha visti dai vetri della portineria. La esorta a fare attenzione, a usare i guanti o il gel disinfettante, prima di toccare tasti e maniglie o altro delle parti comuni del palazzo. Giuli la ringrazia con calore, è contenta di parlarle, comincia a considerarla non solo una ficcanaso.
Anche oggi tutti affacciati per il flash mob, l’invito parte dai social, che durante questa clausura impazzano, la canzone da cantare è “Volare” di Domenico Modugno.
Il 13 marzo è apparso sul cancello dell’Ospedale Spallanzani di Roma un grande striscione con scritte di ringraziamento a medici e infermieri per il duro lavoro che stanno facendo in questi giorni di pandemia. Sopra c’è il disegno di un arcobaleno e la scritta “Andrà tutto bene”, un’iniziativa partita da bambini e insegnanti di Fiumicino, che si è sparsa a macchia d’olio in tutta Italia colorando di arcobaleno cancelli, finestre e balconi diventando il simbolo di un paese che non si arrende, un messaggio di ottimismo.
17 marzo 2020
Per Lucio è iniziata la quarta settimana del suo girone all’inferno. Al pronto soccorso e nelle rianimazioni tutti i ricoverati sono collegati all’ossigeno, lui e gli altri medici non sanno come fare: non hanno più bombole e posti letto, si è arrivati al punto che non tutte le ambulanze hanno potuto scaricare i pazienti.
Non basta più fare il medico come prima: Lucio lo ha sperimentato. Ha dovuto acquisire altre capacità, trovare risposte a domande che non vorrebbe mai sentirsi fare.
“Senta, dottore, vorrei sapere quanto mi rimane.” Una richiesta pesante come il piombo resta sospesa nell’aria, tra lui e il malato, ed è un momento che ha bisogno di una risposta onesta, che non può essere differente da una condanna senza appello, una risposta che nella sua mente dovrebbe essere accompagnata da un “Ci perdoni, non siamo riusciti a salvarla, la scienza che conosciamo ha bisogno di competenze di cui ancora non disponiamo.”
Lucio e due infermiere stanno facendo il giro dei letti, controllando le condizioni dei pazienti: sudano copiosamente, infagottati nelle tute di protezione che trattengono il calore, in aggiunta, non possono togliersi la mascherina ffp2 perché non hanno il ricambio.
Si avvicinano al letto di un uomo anziano: è quasi alla fine della corsa, fa cenno di voler parlare, riesce a farfugliare che vuole un prete. Tentano di rassicurarlo: un’infermiera telefona a don Giuseppe, il cappellano dell’ospedale.
Don Giuseppe ha tracciato sulla tuta col pennarello una croce, l’unico elemento che lo distingue dai sanitari. Lucio e le infermiere stanno accanto a lui mentre somministra al moribondo l’estrema unzione, poi il prete gli tiene una mano: qualche minuto dopo il paziente esala l’ultimo respiro.
Lucio avverte la morte dei pazienti come una sconfitta. Sente il bisogno di parlare con il prete, suo amico da quando lavora in ospedale.
- Don, nella nostra regione è un disastro anche oggi. Su oltre venticinquemila positivi in tutta Italia, noi ne abbiamo quasi la metà. È mostruoso. Anche per i decessi è la stessa cosa, la maggioranza sono nostri. Quelli che riusciamo a guarire sono inferiori ai morti.
- Sono molto preoccupato per quello che sta succedendo…
- Io, Don, non ci dormo la notte, non credo di reggere ancora per molto questo carico pesante, e non parlo solo del fisico.
- Ascolta, Lucio, sei un ottimo medico, fai di tutto per i malati. Non caricarti di croci che non ti appartengono. Prega e abbi fede in Dio.
- Don, si può anche pregare, ma qui sembra di stare in trincea, al posto delle granate è il virus a falciare le persone. Come se non bastasse, attraverso il telefono, dobbiamo cercare di stare vicino ai parenti, sono disperati anche loro. È duro comunicargli la morte di un loro caro, sapendo che l’ultima volta che l’hanno visto lo stavano caricando su un’ambulanza: poi non lo vedranno morire, né lo vedranno da morto.
- Che Dio ci aiuti, Lucio.
- Sì! Ciao, Don, temo che ti richiameremo presto.
A fine turno Lucio scrive una e-mail.
Ciao, Giuli,
se mi vedessi adesso non mi troveresti tanto bello: ho il viso segnato dalla mascherina che tengo per tutto il turno. In compenso sto acquisendo un fisico da modello: si suda tanto per via delle tute e si dimagrisce. Ma stai tranquilla, mangio e sto bene, non devi preoccuparti.
Mi sembra di essere dentro un tunnel senza intravedere una via d’uscita. Quando finirà questa pandemia? Grazie per le notizie dal mondo di fuori. Se devo essere sincero, questi flash mob mi lasciano perplesso… sapere di avere la solidarietà della gente fa piacere. Tuttavia, più di ogni altra cosa, vorrei, anzi vorremmo, dagli ospedali, dire a tutti di stare a casa, di non uscire, li preghiamo di aiutarci in questo modo: siamo tutti allo stremo delle forze.
Ti spero bene, magari un pizzico in ripresa. Vorrei parlare di persona delle tegolate che stai ricevendo sulla testa. Mi sento di dirti che Dante è stato un padre meraviglioso, sono convinto che il tuo padre biologico non ti avrebbe amato di più.
Giuli, mi appoggio a te e tu fai lo stesso, cosi restiamo in piedi. Mi manca tutto di noi, mi manchi tu.
18 marzo 2020
Giuli lavora da diverse ore con Aurora in videoconferenza. L’amica le sta tentando tutte per risollevarle il morale.
- Giuli, ora basta! Prendiamoci una pausa e parliamo un po’. Lo so che non è facile, ma devi reagire. Quello che conta è che tu e Lucio stiate bene. Tutto il resto si aggiusta.
- Sono terrorizzata che Lucio possa ammalarsi o andare in crisi per le cose che deve affrontare. Se penso che solo poco più di un mese fa tutto era normale…
- Io sono più fortunata perché Loris e il bimbo sono a casa con me. Però, vedrai che ne verrà fuori indenne, attento e scrupoloso com’è. Non voglio far la stupida, ma ci farebbe bene ridere. Li vedi i video e le foto che i nostri colleghi postano nella nostra chat?
- Ne mandano tanti, non sempre li guardo, anche se in fondo mi fanno compagnia e a volte anche ridere.
- Hai visto quella della mamma e della bambina che fanno colazione?
- No.
- La bimba chiede sorridendo alla mamma: “Mammina, cosa pensi riguardo alla chiusura delle scuole?” E la mamma, spalmando marmellata su una fetta di pane, con un sorriso angelico stampato sulla faccia: “Al suicidio, amore. Penso al suicidio.”
Il riso arriva spontaneo.
- A me è piaciuta anche quella dove c’è un’esplosione atomica e la scritta “Quando cerchi di fare l’amuchina in casa, ma la cosa ti sfugge di mano…”
- Mi fa scompisciare la clip del Sindaco di Boscoreale, - aggiunge Aurora, - Lui vuole chiarire la situazione per l’emergenza del Coronavirus e dice:
“… non sono stati segnlati casi di sieroposiviti, qui in questa cittadina. Se vi fate una domanda, la risposta è: dobbiamo stare tutti a casa, è l’unico modo per sconfiggere la diffusione di questo coronarovirus, stare da soli, si può anche uscire per andare a prendere un caffe, ma purtroppo da soli. Più tutti quanti insieme staremo a casa, più tutti quanti insieme riusciremo a sconfiggere questo coronarovirus…”
Si abbandonano a un’ilarità gioiosa, come da tempo non accadeva; Giuli sente allentarsi la morsa nello stomaco. Le interrompe la videochiamata del capo.
- Buongiorno, signore, come state? Domanda difficile in questi giorni.
Le due donne rispondono che stanno bene.
- Vi ho chiamate per comunicarvi una bella notizia. Di questi tempi non è cosa da poco.
Nel viso delle amiche passano espressioni diverse. Non osano ancora abbandonarsi alla gioia.
- Non ci faccia stare sulle spine, - dicono all’unisono.
- Ebbene sì, ce l’abbiamo fatta! Mi hanno appena chiamato dall’America per comunicarmi che la vostra analisi è esatta, avete centrato il punto vulnerabile del loro studio. Inutile ribadire l’importanza di questa cosa.
Un coro di evviva e una gioia incontenibile accomuna le due donne. Il capo le guarda divertito, anche lui non riesce a trattenere la soddisfazione.
- La vostra carriera ne beneficerà, sarete promosse e vi saranno affidati lavori sempre più impegnativi. Gli americani vi offrono di andare a lavorare da loro, se siete interessate.
Il coro di no non lascia dubbi.
- Mi sento sollevato, - confessa il capo, - non vorrei perdere due collaboratrici come voi.
- Grazie, capo, - anche noi non vogliamo muoverci da qui, - assicura Giuli.
- Naturalmente, gli americani hanno previsto una congrua gratifica. Proporrei di prenderla come un buon augurio e un’iniezione di ottimismo per il futuro. Sono orgoglioso di voi per il prestigio che il vostro risultato dà alla nostra sede. E ora bando ai sentimentalismi e rimettiamoci al lavoro.
- Capo, ma è il virus che le fa questo effetto? - chiede Aurora ridendo, - non l’abbiamo mai visto così contento e amichevole.
- Che dire? Forse hai ragione. Complimenti a entrambe. Un’ultima cosa: se avete dello spumante, è il momento di stapparlo. Buona giornata.
Le due amiche si abbandonano alla gioia, il morale decolla e avvertono prepotente la voglia di andare avanti.
Per quel giorno non lavoreranno più. Assaporeranno il senso di vittoria che le invade. Giuli non attende oltre, scrive a Lucio per dargli subito la bella notizia, con la speranza di riuscire a sollevargli il morale. Se ci riuscisse, anche per poco, sarebbe bello.
Sui social, c’è un appuntamento per tutti i credenti al flash mob delle 19.30. Ci si potrà unire al gruppo di cantanti milanesi che hanno realizzato, restando nelle proprie case, il brano Alleluya. Una preghiera collettiva per i tanti amici e parenti ammalati di Covid-19.
Giunta la sera, Giuli cena davanti al televisore acceso. Sta seguendo il telegiornale e si sente agghiacciare, mentre le scorrono davanti agli occhi le immagini di un drammatico corteo di camion dell’esercito, che arriva al cimitero di Bergamo per portare le bare dei defunti in altre città per la cremazione. I continui arrivi delle salme hanno esaurito tutti gli spazi possibili, rendendo necessario far accogliere le bare in alcune chiese. Le imprese di onoranze funebri ricevono un numero altissimo di richieste, che spesso non riescono a fronteggiare. La stessa situazione vale per il forno crematorio di Bergamo. Alla presenza di pochi intimi, le sepolture vengono fatte anche di domenica. Ci sono state famiglie che non hanno voluto ritirare il proprio morto, sembra per paura del contagio. Molte persone non sono più ricoverate negli ospedali per mancanza di posti, spesso muoiono in casa.
19 marzo 2020
Oggi è la festa di S. Giuseppe e del papà. Giuli pensa che di padri ora ne ha due, non sa se ridere o piangere. Però, dopo le sconvolgenti scene di ieri sera, di fronte alla tragedia che sta flagellando la sua regione, ai rischi ai quali è esposto Lucio e tutti coloro che garantiscono cure e servizi, si convince che lei non ha più il diritto di sentirsi vittima per quello che le è successo.
Pensa a Dante, suo padre, l’unico che conosca e che si sia preso cura di lei fino alla morte. Rammenta la sua dolcezza, la discrezione che favoriva le confidenze, la capacità innata di instaurare sentimenti di complicità e dimostrare affetto. Si reca nella camera del padre: tutto è come prima. Sua madre aveva voluto conservarla così, con il letto, le chitarre, la tastiera, il computer e un grande armadio sistemati come aveva voluto lui. Le basta chiudere gli occhi per rivederlo sul lettone, invaso per tre quarti da fogli, intento a riempire spartiti di note e arrangiamenti per il suo gruppo Pop-Rock; oppure mentre suonava la chitarra o la pianola, con lo sguardo perso nello sforzo creativo di immaginare la sua musica, quella che voleva scrivere lui.
Rivede il suo fisico alto e muscoloso, i capelli rossicci raccolti in una coda di cavallo, l’abbigliamento stravagante, l’immancabile gilet di pelle nera. Dante era un affermato grafico: aveva firmato molte campagne pubblicitarie di successo. Era un artista a tutto tondo. Lo ricorda quando suonava il basso e cantava con voce roca e profonda le canzoni dei Pink Floyd, il suo gruppo preferito.
Tra i ricordi, si fa strada il pensiero della sua morte, nel 2007, stroncato da un’emorragia cerebrale a soli cinquantasette anni. Era accaduto il giorno dopo la festa per la maturità: rammenta l’orgoglio con cui andava dicendo a tutti che sua figlia si era diplomata a pieni voti al Liceo Scientifico.
Si lascia andare al pianto, nascondendo la faccia fra le mani, come aveva fatto allora. Adesso il dolore si mescola alla dolcezza, non brucia più.
Avverte il bisogno di parlare con zia Elda, prende il telefono e la chiama.
- Pronto, sei tu, Giuli?
- Sì, ciao zia, come stai? Sopravvivi a questo isolamento?
- Non mi pesa, almeno per ora: suono il piano, mi diletto in cucina, e sto molto al telefono con gli amici. Alcuni sono soli come me e ci teniamo compagnia. Inoltre ho deciso di non angosciarmi e non guardo più i notiziari, solo film e concerti.
- Brava, zia, buona idea. Mi raccomando di essere molto prudente, se esci per fare la spesa.
- Me la faccio portare a casa, cerco di evitare uscite. Ho una paura fottuta del virus. Sbaglio o stai un po’ meglio?
- Non sbagli. Da ieri sera ho deciso di diventare adulta e ridimensionare le cose che mi sono successe.
- Ne sono felice. Saggia decisione.
- Vorrei che mi parlassi ancora di mamma, di Dante e Marcello. Posso farti delle domande?
- Certo. Non lesinerò le risposte. Sempre che sia in grado di farlo.
- Marcello mi ha mai vista?
- Sì, da lontano. Lui era amico di Ermes che, frequentando casa vostra, era al corrente di tutto quello che ti riguardava. Gli volevate tutti un gran bene.
- Ho ben presente Ermes, per me era uno zio: l’ho visto un mucchio di volte suonare con papà. Mi piaceva perché sembrava un indiano, con quella pelle ambrata e i capelli neri e lunghi.
- È vero! Anche la faccia ce l’ha da pellerossa, mascelle forti e viso squadrato.
- Da piccola mi divertivo, quando mi sollevava per la vita con le sue mani grandi e mi faceva piroettare in aria così forte che mi sembrava di volare.
- Adorava farti giocare, ti era molto affezionato. Ti vuole molto bene anche adesso, mi chiede sempre di te. Se ti fa piacere, posso darti il suo numero di telefono.
- Grazie, non ci sentiamo da secoli, ma mi farebbe molto piacere. Dunque, era lui a dare notizie a Marcello…
- Sì. Ti ha visto crescere appostandosi nelle vicinanze di casa tua, della scuola che frequentavi: controllava persino i tuoi amici, voleva essere sicuro che non avessi cattive compagnie.
- Se è così, perché non si è mai fatto vivo?
- Giuli, te l’ho già detto: tua madre non voleva più saperne, non lo ha mai perdonato. Per lei la fiducia e la stima erano la cosa più importante in un rapporto.
- A me sembra che mamma sia stata troppo severa, ma non posso giudicarla per le scelte che ha fatto.
- Fai bene. In fondo, noi non sappiamo come reagiremmo. Ma che idea hai di Marcello? Ne senti la mancanza?
- Ho provato a immaginarlo, a figurarmi com’era. Non ne sento la mancanza, come fa a mancarti uno sconosciuto? Eppure, a volte lo penso, e penso anche che ho due sorellastre. Da quando la rabbia mi sta abbandonando, la curiosità nei loro confronti sta crescendo. Zia… che tipo di rapporto avevano i miei genitori? Si amavano?
Elda viene colta da un accesso di tosse.
- Questa è una domanda difficile, - dice con voce roca, - non so se conosco la risposta.
Giuli capta uno strano riserbo.
- Rispondimi con quello che sai. Per favore.
L’imbarazzo colora la voce di Elda.
- Vedi, ehm… Dante e Maria erano legatissimi fin dalle elementari. Un rapporto forte che non si è mai modificato nel tempo.
- Questo lo so, zia, ma ti ho chiesto se si amavano. Si sono sposati per amore, o solo per me?
- Si sono sposati perché si volevano bene, e per te. Ora, cara nipote, ti devo lasciare. Ho una telefonata urgente da fare. Ci sentiamo domani.
- Ok. Ciao. Grazie. A domani.
Giuli sa di ignorare cose importanti che riguardano i suoi. Giunta a questo punto, non mollerà, andrà fino in fondo.
20 marzo 2020
Giuli videochiama al cellulare Lucio: per fortuna risponde subito.
Si osservano per qualche secondo, la gola stretta dalla commozione, hanno facce stanche e smagrite, gli occhi invasi da zone d’ombra sconosciute e palpebre che si abbassano per eludere domande.
- Ciao, Lucio, ho visto il corteo dei camion militari… ho sentito più che mai la necessità urgente di vederti, di cercare conforto nei tuoi occhi.
- Giuli, la situazione è grave, ma stiamo combattendo con tutte le nostre forze. Coraggio, ce la faremo. Per fortuna ero uscito dal reparto per andare al Pronto Soccorso, così ho potuto risponderti.
- Perché vai al Pronto?
- Noi rianimatori dobbiamo andare a visitare i malati per valutarne le condizioni, sai, per i caschi, la ventilazione… Giuli, non vedevo l’ora di dirti che sono orgoglioso di te. Congratulazioni! Tu e Aurora siete due geniacci. Almeno, nel campo dell’informatica, posso stare tranquillo. Non c’è problema al computer che vi resista.
- Grazie, Lucio…
Cala il silenzio, si sforzano di leggersi, di capire le storie che i loro occhi non vogliono svelare, cose non elaborate di cui non sono pronti a parlare. Tutto questo li fa sentire più vicini, accomunati in un travaglio doloroso che travalica la lontananza fisica.
Si salutano con un “abbi cura di te, ti amo.”
21 marzo 2020
È mattino presto, quando Giuli sente dei rumori sul pianerottolo. Guarda dallo spioncino: è la portinaia che fa le pulizie. Socchiude la porta e la saluta.
- Buongiorno, Caterina, come sta?
- Bene, per fortuna. Come vede sono sempre in movimento.
- Lo vedo! Non si stanchi troppo, però. Senta, ha mica notizie dei Locatelli?
Caterina assume un’aria contrita.
- Purtroppo non buone. Il padre è intubato, è grave. La figlia è sotto il casco, dovrebbe cavarsela. L’altra figlia e la moglie sono malate anche loro, per fortuna possono curarsi a casa.
- Poveretti! Ma come fanno le due a casa per la spesa?
- Mi occupo io di comprare tutto quello di cui hanno di bisogno. Non hanno parenti vicini. La Locatelli mi telefona la lista delle cose che le servono, poi gliele lascio davanti alla porta e scappo via. Sto molto attenta.
Giuli la guarda con affetto e ammirazione.
- Lei è proprio una brava persona. Non tutti lo farebbero. L’ammiro per la solidarietà che sta dimostrando.
- Siamo una comunità. Io la vedo così.
- Bravissima, Caterina. Buona giornata.
Un buon caffè bevuto davanti al bovindo le fa scorgere un pezzo di vita fuori. Nei viali del parco, ormai da giorni, si vedono correre persone che chiaramente sono runner alle prime armi. Cani al guinzaglio a tutte le ore. La gente le tenta tutte pur di uscire di casa. La reclusione forzata sta sortendo i suoi effetti.
Squilla il telefono: è Aurora.
- Ciao, Giuli, come stai? Che stai facendo in questo sabato di bel tempo?
- Guardavo fuori dalla finestra, nei viali del parco ci sono panzoni che si improvvisano runner e cani disidratati a forza di pisciare.
- Li ho visti anch’io. Povere bestie: hai notato che verso il tardo pomeriggio li devono trascinare? Pare che si nascondano, quando i padroni prendono il guinzaglio.
- Qualcuno dice che li affittano. Sta nascendo un nuovo business.
Il piacere di parlarsi fa crescere il buonumore. Hanno voglia di sentirsi ragazze spensierate, come prima.
- Hai visto il video del sindaco di Lucera? - chiede Aurora. - Te lo mando subito. È fantastico. Buona visione. A dopo.
Giuli apre il video, il sindaco di Lucera fa queste considerazioni:
Gli anziani, i vostri genitori, i vostri figli, li vedo camminare in mezzo alla strada come capre che pascolano, a due, tre, quattro, cinque, cioè, ma che cazzo vanno facendo, diteglielo, “ma dove vai? Statti a casa che non puoi uscire”. Ci stiamo prendendo per il culo, e che cazzo c’entrano ‘sti parrucchieri ed estetisti, la pizza a casa... O lo facciamo il sacrificio, o non lo facciamo, se no apriamo tutto! Quindi abbiamo scoperto da adesso che pittarsi le unghie, pittarsi i capelli, tirarsi i peli sulle gambe è una cosa necessaria, se fosse agosto lo capirei perché si va in spiaggia, e non puoi arrivarci, in spiaggia, come King Kong. No? E si doveva chiaramente depilare, ma se siamo a febbraio, a marzo, è vero che non fa freddo, ma immagino che nessuno ha la necessità di andare in spiaggia adesso, e quindi non l’avrebbe vista nessuno la peluria uscire dai pantaloni, non vedeva nessuno se esce King Kong…
È una delle cose più spassose che lei abbia sentito, ride fino alle lacrime. Evviva questo sindaco. Uno così lo voterebbe al volo.
22 marzo 2020
Lucio è in reparto: deve soccorrere Claudia, la nuova caposala, in preda a una crisi di panico. La ragazza si sforza di affrontare le “spietate” incombenze in questi giorni disumani. Insieme a lui, tutto il resto del personale si stringe attorno alla giovane, la quale, riavutasi, riprende con coraggio le sue funzioni, confortata dalla vicinanza dei colleghi.
È una domenica frenetica, molti deceduti tra i pazienti intubati: si liberano dei posti che devono essere occupati al più presto da altri malati. Lucio è incaricato di fare il giro di visite tra le corsie, per scegliere quelli che hanno più chance di guarigione con la ventilazione assistita. Nei letti trova alcuni conoscenti e Renzo, il miglior amico di suo padre. Un uomo appassionato di montagna, che lo ha visto nascere e crescere, con cui ha giocato da piccolo e che gli ha insegnato a sciare.
Non appena Renzo vede Lucio accanto al letto, il suo viso sofferente si rischiara.
- Meno male che sei qui, - mormora con un filo di voce. - Ora che ti vedo… sono più sollevato.
Lucio nota il colorito terreo.
- Stai tranquillo, Renzo, ora ti visito e controllo gli esami.
- Ti ho riconosciuto dal nome sul cartellino. Fate un po’ paura vestiti così…
La tosse lo interrompe.
Lucio gli prende una mano.
- Ascolta, Renzo, fai fatica a respirare, per cui dobbiamo aumentare l’ossigeno.
- Mi sento… la sabbia nei polmoni. È terribile.
- Lo so, vediamo di farti stare meglio. Finisco le visite e torno.
Lucio ha valutato le condizioni dei pazienti e ha visto che Renzo non ha molte possibilità, la sua TAC mostra una situazione disperata. Se ci fossero respiratori per tutti, potrebbe essere intubato nel tentativo di salvarlo, ma è costretto a scegliere pazienti che hanno più possibilità. Avverte un acuto senso d’impotenza, si sente il suo carnefice, colui che deve decidere della sua esclusione da cure più incisive, ma con scarsissime probabilità di successo. È rimasto fedele alla sua deontologia professionale, ma sa di aver tradito la fiducia dell’amico.
Dopo aver dato disposizioni in reparto, ritorna da Renzo: le sue condizioni si stanno rapidamente aggravando.
- Non riesco… a respirare, - sibila Renzo con un filo di voce, - sto morendo.
Le guance del malato sono rigate di lacrime.
Anche quelle di Lucio.
- Ora ti addormento, così non soffri. Vuoi?
- Sì… Prima un prete.
- Lo chiamo immediatamente.
Arriva trafelato Don Giuseppe e si accosta al letto.
- Ciao, Don, Renzo è come un parente per me. Ha chiesto un prete.
- Va bene, lasciami con lui.
Lucio si allontana tremando, sente tutta la stanchezza del mondo. La sua conoscenza della medicina non servirà a salvare una persona che ha condiviso buona parte della sua vita, a cui è molto affezionato.
Un cenno di Don Giuseppe lo fa riavvicinare al letto.
- Ha tentato di dire qualcosa, ma non ci è riuscito. Gli stavo tenendo una mano, quando l’ho sentito rantolare ed è spirato. Mi spiace.
- Grazie, Don. Recitiamo una preghiera e lasciami solo con lui, per favore.
Lucio ha pochi minuti per accomiatarsi da Renzo, il lavoro in reparto lo reclama. Prima di lasciarlo gli dedica parole mute.
- Caro Renzo, per noi medici tutti i malati sono uguali: il codice etico, la nostra morale, ci obbligano a essere imparziali. In questa prima linea, nulla in nostro potere è trascurato. Cerchiamo di salvare vite e non l’ho potuto fare con te. Ora telefonerò alla tua famiglia, per dar loro la notizia. Ci vorranno tutte le forze che mi restano per trovare il coraggio di farlo. Ciao, Renzo. Ti voglio bene e mi mancherai tanto.
In serata, in reparto giunge la notizia di un altro drammatico corteo di camion dell’esercito. Portano via bare contrassegnate da un foglio con i dati identificativi del morto. Ora per i defunti non è possibile organizzare i funerali, vietati da nuove disposizioni.
23 marzo 2020
Ciao, Giuli, vorrei parlarti delle paure che si sono insinuate nella mia mente da quando è cominciato questo tempo maledetto. Sono entrato in una spirale che mi sta avvitando ai gironi dell’inferno. È morto Renzo, non ho potuto né saputo fare niente per lui. Un senso di bruciante sconfitta mi rode lo stomaco. Stanotte, a letto, sentivo un dolore acuto in tutto il corpo, ogni movimento mi costava sforzi, avevo la gola arsa e gli occhi che bruciavano. Ho avuto degli incubi. Sognavo che i morti, come zombie, si sollevavano dalle bare e mi arrivavano addosso per sbranarmi. I morti erano vestiti come noi, con le tute, ma indossavano le maschere dell’ossigeno. Del viso si scorgevano solo gli occhi che lanciavano lampi d’odio. Avevo le corde vocali paralizzate, non un suono usciva dalla mia bocca. Cercavo di serrare le palpebre con la speranza che escludendoli dalla mia vista sparissero. La scena cambiava, ed era Renzo che mi guardava speranzoso, poi preoccupato, e ancora infelice. Infine, incredibilmente, le labbra gli si distesero in un sorriso che diventava una risata dilagante che condividevo. Ridevamo fino alle lacrime e piangevamo, mescolando il salato col dolce, gli stringevo le mani, pieno di imbarazzo per quel contatto fisico che lui ricambiava goffamente. I suoni delle ambulanze andavano e venivano, la notte era ancora fonda: mi sono alzato, ho aperto la finestra e ho visto tremolare la luce di qualche stella. Avrei voluto mandarne una da te per rapirti e portarti da me. Avrei voluto accendere un fuoco per sciogliere il gelo che mi avvolgeva, per rischiarare la notte. Avrei voluto spedirti questa e-mail ma non lo farò. Ti manderò un messaggio in cui ti dirò che va tutto bene. Non posso gravarti con i miei malesseri. Ti prometto però che la conserverò e te la farò leggere quando tutto questo sarà solo un ricordo e lo esorcizzeremo insieme.
Anche se non puoi leggerlo, te lo dico lo stesso che ti amo. Ciao, piccola Giuli.
24 marzo 2020
Piove anche oggi. Il cielo grigio e la giornata uggiosa peggiorano il suo umore.
Giuli lavora qualche ora al computer, distratta spesso da pensieri che
riguardano l’ultima telefonata con zia Elda. Qualcosa nel suo tono l’ha persuasa che non le ha detto tutto. Si ritrova a fare il numero senza riflettere oltre.
- Pronto?
- Ciao zia, tutto ok?
- Direi di sì. Tu?
- Anch’io bene. Ho solo dei tarli che mi rodono.
- Ahi, ahi, allora andiamo male. Di che si tratta?
- Lo sai già. Voglio sapere tutto, ogni cosa della mia famiglia. Non credi che sia abbastanza grande da saperlo?
Elda esita qualche istante prima di rispondere, emette un sospiro di rassegnazione.
- C’è una parte della storia che non conosci, non so se ho il diritto di essere proprio io a svelartela. Ma forse hai ragione tu, sei una donna adulta, ormai.
- Per favore, zia, dimmi come stanno le cose, non sentirti in colpa perché sei rimasta solo tu che puoi raccontarmele.
- E va bene. Così sia! Ti ho già detto che Maria e Dante si amavano di un amore fraterno… Lui era gay.
Giuli sente il bisogno di sedersi. Trattiene il fiato. Elda deglutisce a vuoto.
- Tua madre sapeva da sempre il segreto di Dante, lo aveva aiutato molte volte, fingendosi la sua ragazza. Lui non avrebbe mai avuto il coraggio di dichiarare le sue inclinazioni sessuali, in questo era un uomo all’antica.
Elda si sente esausta. Tace. Giuli parla lentamente, la lingua le gira a fatica in bocca.
- Non ci posso credere! Papà era un uomo così virile, non aveva nulla del…
- Vuoi dire dell’omosessuale? Infatti, Dante era un uomo al quale piacevano altri uomini, nulla in lui era effeminato. Per questo non hai mai sospettato nulla. Per questo dormivano in camere separate.
- Zia, io non ho nulla contro i gay, anzi, ma non ti nascondo che questa notizia adesso mi turba.
- Più che comprensibile. Non fartene un cruccio. Appena razionalizzi le cose andrà tutto a posto.
- Non è tanto per il fatto che papà fosse gay, certo è stata una botta, ma come ben sai, sono stata educata senza pregiudizi di sorta, men che meno nei confronti degli omosessuali. Davvero, per me non c’è differenza. Ma mi chiedo come hanno fatto a nascondermi la verità in tutti questi anni. Non si fidavano di me? Non mi ritenevano sufficientemente matura?
- No, cara, è il solito meccanismo persino banale, mi vien da dire: è il fatto che magari ti vergogni anche di queste cose e ti viene difficile confessarle, oppure non sai valutare la reazione di una ragazzina e temi di crearle dei problemi, dei complessi, nel paragone con le altre famiglie.
- Mi ci vuole un po’, ma questo posso capirlo.
- Sai com’è: più i figli diventano grandi, più si ha paura dei loro giudizi. E prima pensi che siano troppo piccoli… insomma è sempre un bel casino!
- Si sono sposati per me?
- Lei era distrutta e aspettava un figlio, lui aveva un amore con il quale non avrebbe mai convissuto né fatto nulla che potesse far sospettare la loro relazione. Si volevano molto bene, avrebbero rispettato le loro storie con altri. Sposarsi fu per loro la scelta giusta. Francamente, non conosco un’altra coppia meglio assortite dei tuoi.
- Su questo concordo: tra loro c’era molta armonia e un rispetto assoluto. Mi hanno garantito affetto, stabilità e molta allegria. La casa era piena di musica e risate.
- Avevano un gran senso dell’umorismo ed erano persone molto positive, quelli del bicchiere mezzo pieno.
- Zia, però c’è una cosa che mi ha fatto soffrire da piccola e mi ha accompagnato finora. Certi comportamenti di mamma.
- Di cosa parli?
- Mamma, al di fuori del lavoro, passava tutto il tempo con noi, fino a quando avevo sui sei anni. Poi cominciò a uscire per andare a ballare. Io mi sentivo abbandonata, anche se con me restava mio padre, pronto a coccolarmi. Provavo gelosia per gli amici che mi rubavano il tempo di mamma.
- Ma perché? Anche Dante usciva molte sere per suonare col suo gruppo. Questo non ti disturbava?
- No. Solo le uscite di mamma mi facevano male, la vedevo troppo contenta, mi dava fastidio la cura che metteva nel vestirsi, nel farsi bella, sentivo che non pensava più a me, anche prima che si chiudesse la porta alle spalle.
- Giuli, ora hai tutta la maturità che ci vuole per calarti nei panni di tua madre. Punto primo: sposando Dante, lei aveva rinunciato all’amore per altri uomini, per garantirti una famiglia serena e stabile. Per molti anni, come dici anche tu, non ha avuto una vita all’infuori di voi. Punto secondo: il diavolo, in alcuni casi, ci mette la coda. Fu così che un dirigente della banca dove lavorava fu trasferito nella sua filiale. Per la pima volta, da quando era finita con Marcello, tua madre s’innamorò. La cosa fu reciproca, pensa che questo collega, fisicamente, ricordava Marcello. Nonostante il loro amore, tua madre non ha mai pensato, neanche per un momento, di lasciare Dante, di farti soffrire.
- Zia, ho una grande confusione in testa, non so che dire… Dev’essere stato lui l’uomo che una notte ho trovato nel letto di mia madre…
- Lo so, cara. Maria mi aveva raccontato tutto. Quella è stata l’unica volta che lo ha portato a casa. Quella sera non avevano avuto la forza di lasciarsi.
- Ma papà? Come poteva fargli una cosa così?
- Era perfettamente al corrente della storia, ne era contento. Dopo la reazione di Marcello, tua madre era stata così male da non riuscire ad alzarsi dal letto. Era caduta in uno stato profondo di prostrazione: solo la tua presenza nella sua pancia le diede la forza di andare avanti. Dante voleva veramente bene a Maria, desiderava vederla felice.
- Perché negò la presenza di quell’uomo nel suo letto? In tutti questi anni l’ho vissuto come un incubo. Ero arrabbiata con lei, non riuscivo a perdonarla per avermi mentito. Anche se aveva negato, io ero certa di quello che avevo visto.
- Cara nipote, siamo esseri umani, la vita ci mette alla prova, nessuno è perfetto.
- Questo è vero. Mi serve un po’ di tempo. Un’ultima cosa, zia. Di chi era innamorato mio padre?
- L’amore di tuo padre è sempre stato Ermes. Tua madre ne era felice e li sosteneva in ogni modo. Lo stesso faceva Dante con lei. I tuoi genitori erano così. Persone intelligenti, aperte e proiettate in avanti.
- Zia, ora ti saluto. Devo rimettere a posto i tasselli. Ho bisogno di riflettere.
25 marzo 2020
Il ventidue marzo, cinquantadue medici cubani hanno preso un aereo da Cuba per l’Italia. Lavoreranno per il nostro paese nella lotta contro il coronavirus. Al terminal di Malpensa, tra gli applausi che li hanno accolti, uno dei medici ha detto: “Chi muore per la vita non può essere chiamato morto”.
L’Italia dei nostri giorni ha bisogno di eroi!
Lucio è alle prese col giro del triage, si sente oppresso da questa incombenza diventata un fardello, ogni giorno più pesante. Ha pregato il primario di sollevarlo, almeno per poco, ma ha ricevuto un rifiuto.
“In rianimazione, tu sei uno dei medici più esperti, quindi sei più adatto a svolgere un compito così delicato”.
Lucio si ritaglia qualche minuto di tempo per parlare con Don Giuseppe, venuto in reparto per un paziente. Ha bisogno di sfogarsi, di trovare risposte.
- Ti stiamo chiamando di continuo, eh Don? Sarai stanchissimo.
- Non è niente in confronto al vostro lavoro. Hai sentito che il Capo della Protezione Civile oggi ha la febbre? Qui non si salva più nessuno!
Don Giuseppe accenna un sorriso; la faccia di Lucio è seria.
- Scherzo, Lucio, lo capisco che sei molto provato, ma cerca di alleggerire il tuo animo. Così scoppi!
- C’è poco da alleggerire: anche oggi i dati sono terrificanti.
Don Giuseppe si fa il segno della croce.
- Chiedo ogni momento a Nostro Signore di aiutarci.
- Don, sinceramente, comincio a pensare che Dio si sia girato da un’altra parte. O voglia punirci.
- Non bestemmiare, Lucio. Dio ci ama ed è misericordioso.
- Don, tutti i santi giorni devo svolgere un compito durissimo: devo decidere chi può avere una speranza di vita e chi no. Questo dovrebbe farlo il padreterno, non io. Come posso sopravvivere all’angoscia di sbagliare? Come posso dimenticare gli occhi di quelli che condanno e che mi guardano speranzosi? Lo so benissimo, è un compito che un medico si deve accollare. Ma così è troppo.
- Lucio, amico mio, non peccare di presunzione. Non ti stai sostituendo a Dio. Sei chiamato a un ruolo difficile, ma tutto quello che fai, lo fai in buona fede e col massimo rigore. È come in guerra. Lo hanno fatto altri prima di te e speriamo non debba farlo più nessuno. Pensa invece a tutti quelli che con le vostre cure guariscono.
- Don, io sono tormentato dal fatto che se avessimo tutti i respiratori necessari se ne potrebbero salvare di più. La notte fatico a dormire, nonostante sia sfinito ho un sonno disturbato, dalla mia mente escono morti che sembrano demoni e mi atterrisce il loro odio, come se volessero vendicarsi. Le loro ombre striscianti mi rimangono in testa anche da sveglio.
- Mi spiace tantissimo. Ora, Lucio, vorrei tanto che mi ascoltassi. Tu non sei colpevole delle loro morti. Sono situazioni estreme in tempi estremi. Pensa che rischi di ammalarti tutti i giorni, sono morti tanti medici e infermieri, lo sai meglio di me. Tu e tutto il personale ospedaliero state compiendo, in molti casi, veri e propri atti di eroismo. Liberati delle ombre e cerca di stare sereno.
- Grazie, Don. Perdonami per averti scaricato i miei malesseri.
- I Don servono a questo. Ciao, amico mio. Stai sereno.
26 marzo 2020
Ciao, Lucio, come stai, amore mio?
Il pensiero dei rischi che corri mi fa tremare.
Io sto bene, però questa lontananza mi pesa tantissimo. È come se mi mancasse una parte, quella che mi completa quando stiamo insieme. Mi manca il suono della tua voce, i nostri abbracci, le nostre mani che si stringono parlandosi, il nostro fare l’amore.
Certo, sei con me e ti sento vicino, ma non è la stessa cosa, non mi basta, ho bisogno della tua presenza. Quando ti rivedrò?
Ci sono un mucchio di cose che vorrei raccontarti: zia Elda tira fuori cose di mamma e di papà come un prestigiatore fa con le colombe dal cilindro. Le ignoravo tutte, si sommano con quanto ho appreso dalle lettere. Non ti nascondo che sono piuttosto stravolta. Non mi va di scriverne, Lucio, preferisco raccontartele a voce. Tuttavia, in tutto questo casino, una cosa positiva c’è: ebbene sì, credo di essere cresciuta. Ora vedo con altri occhi i miei e persino me stessa. Ho spazzato via gli incubi dell’infanzia e messo i tasselli del puzzle al posto giusto. Posso solo aggiungere che si può tentare di giudicare gli altri solo quando si conosce a fondo la loro anima, le loro motivazioni.
Ti stritolo in un abbraccio. Sogno le tue labbra.
Giuli”
Ps. Non so se avrai tempo e voglia di vedere i video che impazzano sui social, te ne mando uno: è del Presidente della Campania. Ci sono persone che tentano di far capire alla gente come comportarsi per evitare la diffusione del virus con un senso dell’umorismo che mi piace molto. Ti scrivo quanto ha detto, così puoi leggerlo qui di seguito senza perdere tempo. Posso sperare in un sorriso? Ti riabbraccio ancora, e ancora, e ancora…
“[…] Sappiamo che qualcuno vorrebbe preparare la festa di laurea. Noi vi mandiamo i carabinieri, ma ve li mandiamo con i lanciafiamme - Ma una festa di laurea… Ma fatela tra due mesi, tre mesi, quattro mesi… Per i giovani: voi ricordate quello che è successo una decina di giorni fa? Noi qui avevamo già avviato la chiusura dei locali. Ricordate le immagini dei giovani che facevano la movida? Tutti allegri, ammucchiati l’uno sull’altro, magari dopo aver bevuto dallo stesso bicchiere. Tutti allegri all’insegna del chi vuol essere lieto sia di domani non c’è certezza. Bene, chi vuol esser lieto sia. Quelli che volevano essere lieti dieci giorni fa adesso se ne sono andati lietamente negli ospedali, e hanno mandato in ospedale lietamente i loro papà, le loro mamme, i loro nonni. Possiamo decidere di vivere allegramente, ma il risultato dopo dieci giorni è questo […]”
27 marzo 2020
Giuli continua a rimuginare sui racconti di Zia Elda: dopo i primi momenti di sorpresa e di sbandamento, ha raggiunto un’accettazione delle vicissitudini e delle scelte fatte dai suoi. Capisce, adesso, quanto poteva essere difficile mettere in chiaro le zone oscure delle loro vite. Le loro morti premature, in ogni caso, non gliene hanno lasciato il tempo. Ora che sa la verità, il ricordo delle persone che erano, le dà la certezza che un giorno le avrebbero detto ogni cosa. Ora sente che è lei a dover dire delle cose, a dover riallacciare il filo che legava e lega alcune persone alla sua vita. Zia Elda è il suo riferimento, la persona cara che ancora una volta può aiutarla.
- Pronto?
- Ciao zia, mi rendo conto che ti sto stressando, ma ho ancora bisogno del tuo aiuto, di confrontarmi con te.
- Non farti problemi, cara, essere vicini in momenti come questi, ti garantisco, è una gioia. Anche perché, per fortuna, ti ho raccontato ogni cosa, - dice con allegria.
- Zia, ti ringrazio di cuore. So di averti chiesto cose difficili. Ma voglio dirti che sto bene e mi sento in pace con me stessa e con gli altri. Intendo Ermes, per esempio. Sento la voglia di parlargli, di testimoniargli il mio affetto, la mia comprensione. Mi aiuti a farlo?
- Cara, mi fai commuovere, sei degna dei tuoi genitori. Certo che ti aiuto.
- Grazie, ho preso anche da una certa zia Elda. Che fortuna a essere capitata in una famiglia come la nostra: vero, zia?
- Puoi dirlo forte! Che vuoi fare, Giuli?
- Vorrei telefonare a Ermes. Puoi annunciargli la mia chiamata? Sai, solo per evitare imbarazzi… sarebbe meglio che lo aggiornassi sulla situazione.
- Lo faccio volentieri. Ermes è un mio carissimo amico, siamo rimasti sempre in contatto, uniti dall’affetto e dalla musica.
- Bene. Allora, se puoi, tu lo chiami stamattina e io lo farò nel pomeriggio.
- D’accordo!
- C’è dell’altro. Il pensiero di Marcello è diventato sempre più frequente. La rabbia che ho provato nei suoi confronti sta sfumando, lasciandomi un vago timore e una certa curiosità. Vorrei conoscerlo… penso anche alle sorellastre. Eppure, mentre te lo sto dicendo, mi prende una fitta allo stomaco e non sono più sicura di niente.
- Più che comprensibile, cara. Te lo avevo già chiesto: senti la mancanza di questo padre sconosciuto?
- In un certo senso… Ho le idee confuse e pensieri contraddittori. Ho capito che nella vita quello che ci capita e le scelte conseguenti non sono messi in ordine per renderli più comprensibili e gradevoli. Ti voglio bene, zia. Grazie di tutto.
Giuli si concentra sul lavoro: insieme ad Aurora stanno approfondendo alcuni nuovi sistemi per aumentare la sicurezza informatica. È l’una quando decide di fare una pausa per il pranzo.
Si prepara un piatto di spaghetti al pomodoro, la sua pasta preferita. Accende la TV: al TG un giornalista annuncia che il Capo della Protezione Civile è negativo al Coronavirus. Si teme un ulteriore aumento di contagi e decessi. Il governo autorizza il Dipartimento della Protezione civile a costituire una Unità medico-specialistica a supporto delle strutture sanitarie, formata da medici su base volontaria.
Giuli tira un sospiro di sollievo, pensando che nei reparti Covid arriveranno forze fresche a dare una mano a Lucio e al personale sanitario stremato.
Il giornalista continua con una notizia piuttosto curiosa: nei supermercati deserti gli scaffali sono vuoti. I prodotti ancora reperibili, cioè quanto gli italiani hanno scartato sono: penne lisce e farfalle, mele Granny Smith, pane in cassetta e uova di quaglia. Il tempo di consegna della spesa a casa è di circa una settimana. Molti supermercati sono andati in tilt per l’eccessiva richiesta di consegne domiciliari e non le effettuano più.
Spegne la tele, pensando che a lei le penne lisce piacciono molto, quindi si concede una generosa tazza di caffè con due biscottini al cioccolato. È sempre più golosa, si augura sia dovuto al particolare momento. Si guarda allo specchio, che le rimanda una rassicurante figura snella, non è ingrassata, per fortuna.
Per la prima volta dall’inizio del lockdown avverte il desiderio di accendere lo stereo e ascoltare un CD dei Pink Floyd, sceglie “Dark Side of The Moon”. Note dolci e avvolgenti rievocano il padre, Immagini di lui che suonava questo brano nella sua camera, mentre lei si sedeva sul letto e lo ascoltava rapita, di lui ed Ermes che suonavano con la loro band. Cerca di ripensare ai loro comportamenti e conclude che erano proprio bravi a nascondere i loro sentimenti, nulla più di una grande amicizia è mai trapelato da loro. Stenta ancora a crederci, si chiede se sia lei che non ha mai voluto vedere una realtà diversa. Eppure no, non è stato così!
Spegne lo stereo e compone il numero di Ermes. Vorrebbe riattaccare, ha la testa vuota, ma lui ha già risposto.
- Ciao, Giuli, immaginavo fossi tu.
- Ciao, Ermes, quanto tempo…
- Sì, sono molti anni che non ci sentiamo.
- Scusa se non ti ho mai cercato, sai l’università e poi l’America…
- So tutto. Tua madre ed Elda mi hanno informato.
La voce di Giuli svela imbarazzo ed emozione.
- Ermes… ora so tutto anch’io… Mi preme dirti che ti voglio bene, sei ancora il mio zio, come quand’ero piccola, - finisce tutto d’un fiato.
Anche Ermes ha gli stessi toni nella voce.
- Grazie, Giuli, davvero non ti senti tradita, non ci condanni? Forse, dovrei dire, non mi condanni?
Lei sospira forte, tace per qualche secondo, durante i quali sentono entrambi l’aria rarefarsi.
- Non posso nasconderti che è stata una botta. Non tanto per quello che puoi pensare tu, piuttosto per il fatto di avermi nascosto la verità, di non avermi ritenuta capace di comprendere.
- Sono davvero dispiaciuto.
- Mi riferivo ai miei genitori. Adesso tutto questo è acqua passata. Non ci sto più male. Ci sono ferite che rimangono sempre aperte, altre che si rimarginano e spariscono. Il rapporto tra te e Dante mi appare bello, una bella storia.
La voce di Ermes s’incrina, parla lentamente, con fatica.
- Dal primo incontro, abbiamo intuito che in amore eravamo come due naufraghi in cerca di una zattera. Nessuno dei due voleva far sapere agli altri com’era. Abbiamo fatto di tutto per nasconderlo. Oggi sarebbe più facile, la società si è evoluta.
Giuli percepisce tutta la difficoltà con la quale lui ha pesato ogni singola parola e la spossatezza alla fine del discorso.
- Ognuno ha il diritto di amare chi vuole, questo è stato il credo che la mia famiglia mi ha trasmesso, ed è inciso profondamente in me. Quindi, Ermes, ti prego, parliamone liberamente, non credi sia arrivato il tempo di farlo?
- Grazie, Giuli. Sei speciale.
Grazie a te. Ermes, ti posso chiamare qualche altra volta? Vorrei chiederti altre cose. Se ne hai voglia, puoi farlo anche tu.
- Certamente. Sappi che è un piacere. Il mio affetto pe te è immutato.
- Bene! Allora non ci perderemo più. A presto, Ermes.
28 marzo 2020
Una spiacevole sorpresa colpisce il personale delle terapie intensive: da stamane Don Giuseppe fa parte dei malati. Lucio lo raggiunge per la visita, cerca di schermare la preoccupazione per l’amico, controllando le uniche cose che Don può vedere e sentire: gli occhi e la voce, tutto il resto è nascosto dentro la tuta.
- Don, che scherzi fai?
- Scherzi da prete! – risponde lui, accennando un sorriso abortito in una smorfia.
- Ora ti ascolto i polmoni e controlliamo saturazione e temperatura. Da quanto ti senti così?
- Da stanotte. Mi sono svegliato respirando male. Mi sento la polvere nei polmoni.
- Ho visto la TAC, hai la polmonite. Don, la saturazione è scarsa, devo metterti il casco, l’ossigeno che ti stiamo somministrando non è sufficiente. Sei d’accordo?
- Tu sai cosa fare. Sono nelle mani di Dio e nelle tue. Se non dovessi farcela, stai in pace, perché la morte è un viaggio all’indietro verso la casa del Padre.
Lucio fa cenni di assenso, gli accarezza una guancia mentre cerca di spiegargli come sarà avere il casco.
- L’impatto con l’ossigeno che ti arriva nel casco collarino è piuttosto forte, avvertirai un soffio potente da un lato, vicino a un orecchio, sarà così giorno e notte. Non preoccuparti se ti sentirai disorientato, se non sarai lucido. Anche se ti sembrerà che ti manchi l’aria, sappi che ti stiamo dando il cento per cento di ossigeno; cerca in tutti i modi di sincronizzare il respiro con il soffio, così respirerai meglio. Ti somministreremo cure antivirali e sperimentali. Non scoraggiarti, Don, ce la farai!
Don fa cenno di aver capito, gli occhi dilatati dalla paura e la bocca aperta in cerca d’aria. Lucio gli stringe una mano.
Si avvicinano tre infermiere: iniziano le manovre per posizionargli il casco. Il Don si dibatte, gli fanno un calmante. Il Cpap è chiamato anche ghigliottina, perché viene sigillato fortemente intorno al collo, al punto da lasciare tagli sulla pelle quando lo si tiene per diversi giorni. Dagli occhi del malato sgorgano copiose le lacrime. Lucio lo lascia alla sorveglianza delle infermiere. Ha parecchie incombenze da sbrigare.
In reparto è deceduta una coppia di poco più di cinquant’anni: marito e moglie si sono ammalati insieme, all’arrivo al pronto soccorso avevano la febbre alta e respiravano a fatica. Non c’è stato niente da fare: la donna è morta dopo qualche ora per arresto cardiaco, nonostante un lungo tentativo di rianimarla; l’uomo, con un polmone totalmente collassato, l’ha seguita due ore dopo.
Lucio raggiunge la caposala per incaricarla di informare la figlia della morte dei genitori, hanno il suo recapito telefonico. Col Covid, per i sanitari è sopraggiunto un ulteriore lavoro: devono informare i congiunti sullo stato di salute dei ricoverati, giacché le visite in ospedale sono vietate e i famigliari non possono più avvicinarsi ai loro cari. Un altro compito gravoso, in quanto, molto spesso, devono comunicare i decessi. Ci sono state, in alcune zone della Lombardia, famiglie decimate; in diverse località quasi tutti hanno perso parenti e amici.
Claudia, cerca di sottrarsi alla richiesta, guarda Lucio con occhi supplichevoli.
- Ti prego, oggi no, non farmelo fare. Ieri ho comunicato io i decessi, è stata particolarmente dura: non ti dico la reazione della madre di Giacomelli, il ragazzo di trent’anni. Non sapevo più cosa dire.
- Va bene. Allora tu darai notizie ai famigliari dei vivi: per oggi comunicherò io i morti.
La ragazza china la testa, si lascia andare su una sedia.
- Forse non è un lavoro per me, - mormora.
Lucio le si avvicina e le poggia una mano sulla spalla.
- Claudia, il lavoro che siamo costretti a fare non è adatto per nessuno. Stiamo affrontando situazioni fuori dall’ordinario. Non mollare, sei una brava infermiera e una brava ragazza. Di sicuro sei stata particolarmente sfigata a iniziare la tua professione di questi tempi. Ma vedrai: “Passerà anche questa stazione senza far male…” come canta De André.
- Adoro De André, - dice Claudia, - grazie.
Lucio prende il cellulare del reparto e compone un numero.
- Pronto? - risponde la voce agitata di una donna.
- Sono il Dott. Casati, la chiamo dall’ospedale. Purtroppo devo darle delle notizie non buone.
- Cos’è successo, come stanno i miei genitori?
- Vede, signora, il fatto è che sono giunti in ospedale troppo tardi, sono insorte delle complicanze, il loro fisico era già molto compromesso.
L’irritazione nella voce della donna sale di tono, quasi urla.
- Troppo tardi un corno! Lo sa perché sono arrivati troppo tardi? Glielo dico io! Perché ci dicevano di stare a casa, in isolamento fiduciario, perché non c’erano posti in ospedale e nessuno veniva a vederli. Ci dicevano di chiamare solo se non respiravano. Io l’ho fatto, loro stavano malissimo. Pensi che hanno avuto il coraggio di dirmi che non potevo immaginare quante persone chiamavano solo perché avevano paura e così facevano perdere tempo, intanto i miei peggioravano.
- Mi spiace moltissimo. Creda, abbiamo fatto tutto il possibile, ma non c’è stato niente da fare.
Lucio sente i singhiozzi e una morsa gli stringe lo stomaco.
- Signora, mi creda, abbiamo fatto tutto quanto in nostro potere. Sono mancati a poche ore di distanza uno dall’altra.
- Come sono morti? - chiede la donna, rauca.
- Non hanno sofferto, erano sedati. A sua madre non ha retto il cuore… a suo padre i polmoni. Riceverà le carte dei decessi. Sono veramente spiacente.
- Posso vederli?
- Purtroppo no. Le bare saranno chiuse subito.
- Lo sa qual è l’ultimo ricordo che ho di loro? È quello delle ambulanze che li hanno portati via. Delle carezze che ho avuto la fortuna di fargli prima che venissero inghiottiti dal nulla.
- Le porgo le nostre condoglianze, la prego di credere che ogni malato che perdiamo è un dispiacere anche per noi, una pesante sconfitta.
Lucio è scosso, non si è ancora ripreso dalla telefonata, quando arriva in reparto un ragazzo di vent’anni. Dopo aver visto la TAC che evidenzia una brutta polmonite interstiziale bilaterale e dopo averlo visitato, Lucio è costretto a proporre l’intubazione e la ventilazione. Il malato lo prega di fare di tutto per salvarlo, ha già perso i genitori per il virus e ha una sorellina di dodici anni, quello che è rimasto della sua famiglia; poi si mette a piangere.
Lucio ha gli occhi lucidi, come si fa a tenere il distacco professionale? Gli promette che nulla sarà trascurato per guarirlo, che daranno sue notizie alla sorellina. Infine lo esorta a tirare fuori tutta la grinta che ha e a lottare senza mollare mai.
Quella notte, Lucio non riesce a prendere sonno: sente il sudore scorrere sulla schiena come un corpo estraneo che gli procura disagio. Si affaccia alla finestra della sua stanzetta: respira l’aria fresca della notte, che porta sentori di primavera dai cespugli di rose fiorite, nel giardino che circonda l’ospedale. Si chiede per quanto tempo potrà resistere a questi ritmi, alle pressioni psicologiche che lo tormentano. Ripensa alle parole di Claudia, cercando nel profondo se anche lui dubita di essere adatto per il suo mestiere.
Le luci tremolanti, nella notte serena, fanno apparire lo scorcio di città, fin dove arrivava lo sguardo, qualcosa di invitante. Pensa a quanti, chiusi nelle loro case, non stanno facendo pizze e pasta fatta in casa, non pensano a cimentarsi in prove da chef, ma soffrono in preda al virus, con la paura di non farcela.
Un gelido senso di solitudine gli procura un lungo brivido, si sente vuoto, come se qualcuno avesse scavato una parte dentro di lui e l’avesse buttata via. Si dice che, forse, le grandi prove della vita non possono essere condivise. Bisogna digerirsele da soli e tentare di trasformale, col tempo, in mattoni da aggiungere alla costruzione di sé stessi. Guardando il cielo notturno, si sente piccolo, un granello di polvere nel meccanismo che tiene insieme stelle e pianeti. Un guizzo inaspettato di gioia lo attraversa: sa che in tutti i modi, nel bene e nel male, lui è parte di quella magia.
Poi spegne le luci e si sdraia sul letto. Si rigira a lungo tra le lenzuola, piombando infine in sogni cupi. Si sveglia di colpo, in preda alla nausea e a un forte mal di testa: corre in bagno e vomita. Si ripulisce e torna in camera, si siede sul letto.
Bussano: è Claudia che gli chiede se va tutto bene. Lui va alla porta e la apre.
- Grazie, Claudia, tutto a posto, - dice, sentendo un gusto di fiele in bocca.
- Come? Sei livido! Mi sono svegliata perché hai gridato più volte stanotte.
- Ho avuto degli incubi. Sai… in questo periodo mi capita sovente.
- Cosa ti gira in testa?
- Hai presente il triage? Stamane parlerò al primario. Non me la sento più di andare avanti così.
Lei lo abbraccia con dolcezza, lui ricambia con una scossa al cuore.
- Dio mio, Claudia, da quanto tempo mi mancava un abbraccio, quasi non ricordo più.
Lei non risponde, alza il viso cercando il suo bacio.
Lucio vede il volto di Giuli sovrapporsi a quello della ragazza e si ritrae.
- Scusami, Claudia, forse ho fatto confondere le mie intenzioni. Io sono innamoratissimo di mia moglie, per te provo un affetto fraterno.
- Scusami tu. Sono stata io a fraintendere. Tu sei sempre stato chiaro e corretto.
Lucio china il capo, ha un’aria contrita, Claudia cerca di nascondere l’imbarazzo, poi reagisce.
- Lucio, non è successo niente, ok? Amici come prima? - dice, porgendogli la mano.
- Certo! Anzi, meglio di prima.
Si scambiano un abbraccio, stavolta fraterno, senza più imbarazzi né equivoci.
29 marzo 2020
Il primario è appena giunto nella sala delle consegne, quando Lucio chiede un colloquio. Il suo aspetto convince l’altro a concederglielo subito. Si siedono attorno a un tavolo.
- Dimmi tutto, che ti succede?
Lucio, i gomiti poggiati sul tavolo, si tormenta le mani.
- È per il giro, che ormai chiamo della morte: sono oppresso dalla possibilità di condannare dei pazienti, escludendoli da cure che forse potrebbero salvarli.
- Hai detto bene, forse! Ci sono sempre state norme precise, inoltre il 13 di questo mese è stato stilato un documento di etica clinica: ci arriva direttamente dalla società scientifica degli anestesisti e rianimatori, con le linee guida per aiutare i medici come noi quando i respiratori sono pochi. La regola è privilegiare i pazienti con maggiori aspettative di vita: i più giovani senza patologie importanti. E, perdiana, tu le conosci a memoria queste regole, - asserisce con durezza.
- Questo è vero, com’è vero che dovremmo mettere a conoscenza i parenti di quello che intendiamo fare. Ma come si fa a dire serenamente: “Mi spiace, ma sua madre non sarà intubata perché non abbiamo respiratori sufficienti”?
- Lucio, torna in te, forse sei troppo stanco. Ti ho caricato troppo.
- Il fatto è che qui siamo in Lombardia e lavoriamo in condizioni estreme, ci troviamo soli di fronte a scelte difficili.
Si fissano, studiandosi a vicenda. Il primario capisce bene il malessere del medico, perché è anche il suo. Addolcisce il tono.
- Tutto vero, ma questa è la realtà. Scusa, ma non dovevi prendere decisioni analoghe anche prima del Coronavirus?
- Sì, ma capitava di rado. Qui dal 21 di febbraio è un martellamento continuo: con i numeri che abbiamo, le cose sono ben diverse.
- Ascolta, Lucio: qualche segnale buono c’è. Mi hanno comunicato che ci daranno il via per il trasferimento di malati presso altre strutture, arriveranno medici e infermieri volontari a darci un po’ di tregua. Finalmente sarà possibile diminuire gli orari dei turni e prendere qualche giorno di riposo, sempre sperando che il personale non si contagi e non debba stare assente per la quarantena. Stiamo utilizzando gli specializzandi degli ultimi anni: abbiamo raschiato il barile. C’era già da prima carenza della nostra figura professionale, figuriamoci ora.
- Qualche giorno di riposo, questa è una bella notizia, - dice Lucio, tirando un sospiro di sollievo.
- Da quanto tempo non vedi tua moglie?
- Da una vita, dall’inizio di questa tragedia. L’ho allontanata per paura di contagiarla.
- Capisco! So del personale che dorme, come te, in foresteria, di Elisabetta che dorme in un camper per paura di contagiare i suoi figli e altri che tornano a casa col terrore di trasmettere il virus. Sono tutte paure legittime, abbiamo già perso tanti colleghi… e adesso arrivano parenti e amici… diventa sempre più duro. Ad ogni modo, ci tengo a dirti che sei il miglior medico del mio staff, hai testa e volontà di migliorarti con un aggiornamento continuo, perciò non lasciarti distruggere dallo stress. Hai fatto solo il tuo dovere, nel miglior modo possibile, di questo stanne certo.
- Grazie, le sue parole mi confortano. Qualche giorno a casa mi darà la possibilità di ritrovare un po’ di equilibrio, sgombrare la mente dalle nuvole nere.
- Bene! Ora abbiamo un sacco di lavoro da fare. Mi raccomando, nervi saldi e consapevolezza di fare il proprio dovere.
Lucio fa il giro dei letti. Quando arriva da Don Giuseppe, prova sollievo: l’amico sta migliorando, risponde bene alla terapia. Il Don apre gli occhi, in cui la paura la fa da padrona, poi li richiude, perdendosi nelle nebbie dell’incoscienza. All’infermiera che si avvicina, Lucio raccomanda di provare a fargli bere qualche goccia d’acqua.
- Lo faccio regolarmente, ma è difficile per i pazienti bere da una cannuccia infilata in un buchino nel casco, anche perché di frequente non capiscono nemmeno dove sono e piangono disperati.
Si avvicina anche il primario, che ha molta stima del prete.
- Come sta il nostro Don Giuseppe? - chiede a Lucio.
- Sta rispondendo bene alla terapia, non ci speravo così in fretta.
Il primario sogghigna.
- Vedi, caro ragazzo, lui ha un canale diretto con Dio, vorrà ben significare qualcosa.
- Sembra che funzioni, - conferma Lucio, sentendo uno spiraglio di buonumore farsi spazio.
- Ho stabilito i turni, ti ho assegnato tre giorni di riposo dal primo aprile. Il 31 marzo farai il tampone, così se sei negativo puoi vedere tua moglie.
- Mi sembra un miracolo. Grazie, Primario.
- Direi, in questo caso, che funziona anche il canale diretto con me. Sono riuscito a fare miracoli, - dice ridacchiando, – Hai visto mai…
Lucio si sente galvanizzato dalla possibilità di uscire dal tunnel che è ormai la sua vita in ospedale. Fuori c’è tutto il resto del mondo, c’è Giuli che lo aspetta. Approfitta della pausa mensa per videochiamarla.
- Ciao, piccola.
- Lucio, mamma mia, che emozione vederti.
- A chi lo dici. Ho il cuore a mille.
- Il mio vuole scappare dal petto. Guarda che la barba non nasconde la magrezza del tuo viso.
- Sono stati giorni duri. Troppo…
- Lo credo! Ovunque si dice che siete degli eroi.
- Gli eroi fanno una cosa una sola volta, noi di continuo. Non siamo eroi, facciamo il nostro mestiere. Ma dimmi, come mai quel faccino sciupato? Non stai bene?
- Dottore, non sei stanco di occuparti di pazienti?
Lui le sorride con dolcezza, lei si lascia contagiare dagli occhi color cielo in una giornata di sole, che traboccano amore.
- Per te farò un’eccezione, - dice, - colorando di note liete la voce.
- Allora, dottore, devo confessare che da un po’ di giorni la sensazione di smania allo stomaco è peggiorata e la mattina ho la nausea. Poi durante la giornata passa la nausea e sto bene.
- Giuli, stai curando l’alimentazione? Non è che mangi male per non cucinare per te sola?
- No. Qualche volta non cucino, ma di norma mangio bene, cucina leggera.
- Magari evita sughi, grassi e caffè, vedrai andrà meglio.
- Toglimi tutto, ma non il caffè, - protesta lei, scuotendo la testa in segno di diniego.
Lui osserva divertito le labbra imbronciate e i riccioli che ondeggiano.
- Ho una voglia matta di accarezzarti i capelli e baciarti - dice, facendosi serio.
- Non vedo l’ora. Mi manchi tanto.
- Anche tu. Giuli… se tutto va bene, se il tampone è negativo, il primo aprile torno a casa, mi concedono tre giorni di ferie.
Giuli si lascia andare a gridolini di gioia.
- È incredibile, era ora! - Gli occhi le diventano umidi. - Stavolta non potrai impedirmi di vederti. Non ci sono scuse, se il tampone è negativo.
- Muoio dalla voglia di stare con te, ma non si può escludere del tutto il rischio, una probabilità, anche se minima, può esserci…
- Ti prego, Lucio, non mi allontanare, - lo interrompe lei con tono deciso.
- Va bene, va bene, non ti arrabbiare! Ti farò sapere. Devo tornare in reparto. Ti bacio. Abbi cura di te.
- Non tenermi in ansia, dammi notizie al più presto.
Lucio riprende il giro dei letti, è sollevato nel constatare che il Don sta facendo progressi da gigante: se continua così, presto potranno togliergli il casco.
Purtroppo ci sono tanti decessi; tra i ricoverati i giovani aumentano. Gli tornano in mente volti di agonizzanti, di morti, facce terree e sfatte, rigate dalle lacrime, occhi attoniti che si svuotano. Li vede passare davanti a sé in un carosello: spuntare dal nulla, sollevarsi dai cuscini, svanire in un accesso di tosse e un respiro rauco. Sente la stanchezza fisica appesantirsi per il dolore che lo invade.
Claudia, la caposala, vede la sua figura incurvarsi, si alza dalla sua scrivania e gli va vicino.
- Che cos’hai, Lucio?
- A volte mi assalgono i fantasmi di quelli che hanno occupato questi letti, - dice, indicando con un gesto della mano il reparto, - mi sale una rabbia impotente, una cupa ribellione per ciò che siamo costretti ad affrontare.
- “Mala tempora currunt sed peiora parantur”, - declama la ragazza, - mi chiedo se abbiamo già toccato il fondo o se il peggio deve ancora venire.
- Voglia il cielo che non sia così, non potremmo reggere ulteriori carichi.
Claudia cambia discorso.
- Di certo l’hai già vista in TV quella gigantografia che hanno posto su una facciata dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo: mi piace la scritta in alto che dice “A Tutti Voi… Grazie”. Adoro l’immagine dell’infermiera, l’espressione dolcissima che la mascherina non riesce a celare, trovo bellissimo come stringe tra le braccia, con un gesto di protezione e cura l’Italia malata avvolta nel tricolore. A te che effetto fa? A me suscita commozione, trovo che quella figura, renda alla perfezione l’amore che ci stiamo mettendo nel fare il nostro lavoro.
- Sì, è molto bella! Comunque sono convinto che apprezzeremmo di più i comportamenti responsabili dei cittadini: devono evitarci di doverli curare arrivando a valanga negli ospedali. In certi giorni siamo stati pressati da oltre cinquanta ambulanze, molte delle quali giungevano in contemporanea, quando avevamo già il Pronto strapieno e riempito ogni spazio possibile. Ecco, il vero ringraziamento per noi è che la gente resti a casa, evitando di contagiare e contagiarsi.
- Sono d’accordo. Per fortuna la maggioranza dei cittadini si sta comportando bene. Il lockdown non è una passeggiata per nessuno.
- La clausura non è uguale per tutti. I poveri, le famiglie numerose che abitano in alloggi piccoli e non in ville di 300 metri quadri, per quelli sì che è dura. Chissà quanti litigi e violenze si scopriranno quando si ritornerà alla normalità, ma anche un incremento demografico, speriamo in tanti nuovi nati. Grazie, Claudia, per l’appoggio morale. Prenderai anche tu qualche giorno di riposo?
- Non adesso, lo farò più avanti. Da ieri pioviggina e le previsioni non sono buone. Aspetto giornate di sole, poi da oggi, con l’ora legale, le giornate si allungheranno, vediamo…
30 marzo 2020
L’urlo delle sirene riempie la città: dal cielo la pioggia cade leggera. Giuli guarda dalla finestra il mondo fuori, prova sgomento sentendo quel suono stridulo, che non scompare neanche di notte. I silenzi vestono di irrealtà il resto del tempo, tutto sembra fissarsi in un modo diverso. La natura si sta riappropriando dei propri spazi: passerotti cinguettano, fermandosi sicuri sui davanzali, piccioni si posano baldanzosi sui balconi, e nell’aria grigia sfrecciano le gazze ladre. Dagli alberi scendono scoiattoli, si avventurano senza timori sui prati. Nelle periferie di alcune città e paesi i cinghiali passeggiano per le strade, i cervi scendono dalle montagne e invadono colline e boschetti vicino alle abitazioni. È la rappresentazione di un possibile futuro, in cui gli umani scompaiono: la terra si libera di chi la sta minacciando, di questa razza che di umano ha serbato poco, dello sfruttamento selvaggio delle risorse del pianeta e della scelta di inquinare, spinta al punto da compromettere per sempre la sua stessa sopravvivenza.
Giuli sa che, da quando esiste, l’uomo si è dovuto difendere dalla potenza della natura imparando a conviverci, ma lo ha scordato inquinando e distruggendo in nome del profitto e del vivere come se non ci fosse un domani. Abbandona le fosche riflessioni e dà un’occhiata all’orologio: le lancette segnano le 9, si siede davanti al computer, è l’ora della videoconferenza con Aurora.
Lo schermo inquadra il viso florido dell’amica, subito raggiunta dal piccolo.
- Ciao, Giuli, Andrea vuole salutare zia Uli.
Il bimbo fa ciao con la manina e le manda tanti bacetti. Lei è intenerita dalla dimostrazione d’affetto che il bimbo non manca di darle.
- Grazie, Andrea, - dice, - sei così carino che ti mangerei di baci.
Fa capolino sullo schermo anche Loris, scuote una mano in segno di saluto, preleva il piccolo lasciandole sole.
- Come va stamane? Ancora nausee? – s’informa Aurora, con fare indagatore.
- Ormai mi capita tutte le mattine. Dopo va meglio.
- Ti capitava qualche volta anche prima?
- No.
- Non voglio fare la curiosa, ma il tuo ciclo è regolare?
Lei sgrana gli occhi segnati da cerchi scuri.
- Che stupida, non ci avevo pensato, non ci avevo dato importanza… In effetti, questo mese non mi sono arrivate, ho un ritardo di oltre quindici giorni, - riesce a dire, mentre la sua faccia esprime un’incredulità crescente.
L’amica s’illumina.
- Giuli, ci pensi se aspetti un bimbo? Sto già gasandomi dalla contentezza. Devi andare in farmacia per comprare il test di gravidanza.
- Ti spiace se lo faccio subito? Non resisto.
- Non dirlo neanche per scherzo. Ricordati che sono impaziente di nuove. Incrocio le dita. Vaiiiii!!!
Giuli infila la giacca e si precipita fuori. Nell’androne, implacabile, si materializza Caterina.
- Dove corre così di fretta, signora Maggioni? È da parecchio che non la incrociavo, - dice, sistemandosi i capelli.
- Sono uscita poco, lo stretto indispensabile, - risponde, dirigendosi verso il portone.
- Brava, ha fatto bene. Non sa della signora Brambilla?
L’altra fa cenno di no con la testa, la guarda impaziente.
- La signora anziana che abita da sola al terzo piano: non resiste a stare in casa, esce a tutte le ore e non ha mai l’autocertificazione compilata. Quando la fermano, fa finta di non starci con la testa.
- Mi dica cosa è successo: sono di corsa.
- Ieri la Brambilla, come ogni giorno, si è recata al supermercato per l’undicesima volta.
- Undicesima volta? - chiede sbalordita.
- Assolutamente sì! Lei usa comprare ad esempio il pane, poi ritorna per il latte e così via. Alla cassa, la commessa, che poveretta lavora terrorizzata per il contagio, non ne poteva più e ha chiamato la vigilanza. L’hanno accompagnata fuori, ma vedrà che domani lo farà di nuovo.
- Poveretta, per fare così deve sentirsi tremendamente sola.
- Eh, sì. Brutto non avere figli ed essere vedova.
- Devo proprio scappare. Arrivederci, Caterina.
Si mette in coda in farmacia e torna a casa con la scatola del test.
In bagno legge le istruzioni due volte per essere sicura, dopo, con mani tremanti, le esegue. Ci vogliono tre minuiti per il risultato, troppi per il suo sguardo fisso sulla striscia che deciderà del suo futuro. Finalmente si colorano le finestrelle. Sono due. È incinta! Passa dal riso al pianto, le lacrime arrivano dal profondo, paiono lavare ogni pensiero, trascinare fuori le cose brutte del passato. Si precipita allo specchio posto sopra il lavandino: si studia con attenzione il viso. Non trova niente di diverso, è quello di prima, o forse no, gli occhi sono più luminosi, non saprebbe dire con esattezza, ma hanno qualcosa di diverso.
Avverte il bisogno di ringraziare i genitori, è certa che l’hanno protetta, anche da chissà dove, con il loro amore. Si reca nelle loro stanze.
“Grazie, mamma. Grazie, papà.”.
Torna in bagno, fotografa il risultato del test, lo spedirà subito a Lucio. Sta per inviare la foto e il messaggio che dice “Appena fatto. Sono super felice. Sarò mamma, sarai papà, saremo genitori. Non è meraviglioso?”.
In un lampo ci ripensa: cosa c’è di più bello che dirglielo dopodomani, mentre si stringono come pazzi? Un regalo più bello di questo, per il loro incontro, non esiste. Nondimeno, frena a fatica la voglia di dirglielo subito. Desiste, tenta di quietarsi: si ricollega con Aurora che non frena la curiosità.
- E allora? Sì o no?
L’altra tiene gli occhi bassi, per un attimo gode dell’attesa, di tenerla sulla corda. Poi esplode.
- Sì, sono incinta!
Un’incontenibile gioia coinvolge entrambe: si lasciano andare all’esultanza. Tutto il dramma di quei giorni sembra svanire di fronte all’importanza che la notizia reclama.
- Lucio lo sa già?
- Ho deciso di dirglielo di persona dopodomani. Avrà tre giorni di ferie: lo aspetterò a casa nostra. Farà il tampone, prima di uscire dall’ospedale. Domani faccio i bagagli. Ci pensi che meraviglia?
- Non sto nella pelle io… A proposito, ti è arrivata la gratifica extra per il nostro lavoro? Sai com’è, zucchero non guasta bevanda, soprattutto quando cresce la famiglia.
La gioia si sparge su di loro come pulviscolo ceruleo nell’aria, persino il cielo grigio si fa partecipe, regalando uno spicchio di azzurro scoperto da una nuvola in movimento.
- Oggi per te niente lavoro. Goditi questo momento e, mi raccomando, non fare sforzi. Ti faccio tutti gli auguri del mondo. Ciao, amica mia.
Pensieri continui attraversano Giuli: sente la sue fragilità diventare forza, le paure farsi speranze. Un caldo ottimismo le scalda il corpo, poggia le mani sulla pancia: salgono alle sue labbra parole dolci, si sente piena d’amore, non vede l’ora di condividerlo con Lucio.
Le torna in mente Marcello, il padre sconosciuto. Deve telefonare a Ermes.
Il telefono squilla a vuoto, sta per riattaccare, quando una voce trafelata le risponde.
- Sì, Chi parla?
- Ciao, Ermes, sono Giuli.
- Scusa, stavo suonando con le cuffie, per poco non rispondevo.
- Cosa stavi suonando?
- Un pezzo dei Pink Floyd. Sai, li amavamo tanto…
- Ti manca molto Dante?
- Ogni singolo giorno, mi torna in mente di continuo: a volte il ricordo è un bel sogno, altre volte invece…
- Non vorrei essere indiscreta: in questi anni non ti sei mai innamorato di un'altra persona?
- Può essere difficile da capire. Dante era ed è l’unico amore della mia vita. Gli altri non m’interessano. Per fortuna mi è rimasta la musica e dei cari amici.
- Credo di capire. Posso chiederti di Marcello? Com’è la sua vita?
- Marcello è una brava persona, questo devo premetterlo, anche se tu puoi pensarla diversamente. Dopo la rabbia e lo smarrimento per la gravidanza di Maria, che gli era piombata in testa come un fulmine a ciel sereno, lui tentò di riallacciare i rapporti: voleva prendersi le responsabilità di padre, anche se part-time. Fu tua madre, che per carità aveva tutte le ragioni del mondo, a non volerlo più vedere.
- Questo lo avevo capito dalle loro lettere e me ne ha accennato zia Elda. Dimmi di lui.
- Marcello ha un’azienda metalmeccanica, è un imprenditore capace. Ha lavorato tanto e viaggiato per il mondo. Ha le vedute larghe dei viaggiatori e capisce la gente. Dieci anni fa sua moglie è morta per un tumore. Non l’aveva mai amata e gli aveva rovinato la vita, ciononostante non l’abbandonò un attimo, l’ha accudita per tutta la malattia.
Giuli non emette un fiato, persa a immaginare il padre.
- Le due figlie hanno quarantacinque e quarantadue anni: la prima insegna inglese al liceo e ha due figli adolescenti, la seconda ha girato il mondo, è single e fa ricerca a Boston nel campo delle biotecnologie. Un bel cervello, come il tuo!
- Mi somigliano? Somigliano al padre? - chiede, con un misto di ansia e curiosità.
- Solo la grande ha gli occhi chiari della madre. Hanno preso molto da Marcello: stessi capelli e colori scuri. Vi somigliate tanto.
- Ermes… per caso vi siete sentiti? Tu glielo hai detto che siamo di nuovo in contatto?
Ermes esita.
- Giuli, in tutti questi anni, prima insieme a Dante, poi da solo, sono stato sempre in contatto con Marcello: lui non ha fatto altro che chiedere di voi, di te. Ti ha seguita a distanza: sa come sei fisicamente, e per le cose che ti riguardavano mi ha sempre aggiornato Elda, così potevo metterlo al corrente.
- In tutti questi anni, però, avrebbe potuto farsi vivo, magari con una lettera.
- Ha rispettato la volontà di tua madre, ma da quando lei è morta la voglia di farsi vivo con te è diventata un chiodo fisso. Desidera tanto vederti, parlarti.
- È da un po' che ci penso anch’io. Mi sarebbe piaciuto tanto avere delle sorelle, ora che so di averle provo paura, ma anche piacere. Ermes, loro sanno di me?
- Sì. Marcello glielo ha detto dopo che è morta la moglie. Ha raccontato loro ogni cosa, sono persone intelligenti, hanno capito e sono interessate a conoscerti.
L’emozione stringe nell’imbuto della gola le parole, vorrebbe domandare altro, non le riesce.
- Grazie, Ermes, - sussurra.
- Aspetta! Devo chiederti una cosa io: lo faccio da parte di Marcello. Vorrebbe telefonarti. Te la senti?
- Questa cosa mi turba profondamente. In questo momento sto tremando, così come stai sentendo dalla mia voce. Lo vorrei… anche se devo pensarci su.
- Non sei obbligata a rispondermi subito. Me lo dirai tu quando sarai pronta.
- Lo farò. Sei una persona speciale. È da un po’ che volevo dirtelo. Grazie, zio Ermes.
Sta percorrendo a ritroso il cammino, adesso riempie le valigie per ritornare a casa sua e di Lucio, quella della sua infanzia è la casa dei suoi. La felicità le rende tutto lieve, ha voglia di sorridere al mondo.
Aurora è eccitata: la martella di messaggi e video.
“Hai visto questo?” Giuli apre l’sms e si trova davanti la foto della regina Elisabetta con la dicitura: “Sono molto preoccupata per gli anziani”
Presa dal gioco ne manda uno lei, sceglie l’immagine del Cenacolo di Leonardo da Vinci, che mostra un tavolo deserto e la scritta “Qui a Milano stiamo esagerando”.
Il bip del cellulare le annuncia un altro sms di Aurora “noi durante il lockdown”. Lo legge divertita: “Migliaia di italiani violano la legge per sfuggire da quella cosa per cui han fatto mutui e debiti per trent’anni.
Baby boom previsti entro Natale, e divorzi previsti entro maggio.
C’è gente che corre più di Forrest Gump.
Sindaco, le crocchette del mio cane le vendono a 30 km da qui, posso andare a prenderle?
Mobilio fuso dal fai da te chimico per il disinfettante.”
Il tempo corre e deve darsi da fare con le pulizie. Riempie la lavatrice di biancheria per la casa, meno male che c’è l’asciugatrice, così potrà stirarla in serata e riporla nei cassetti. Vuole lasciare tutto lindo, disinfettato, pronto da abitare, anche se al momento non sa quando ci rimetterà piede.
All’ora di cena, seduta a tavola, fissa lo schermo nero della tele. Stasera non vuole sentire né vedere niente. Non vuole angosciarsi con le brutte notizie, né saperne del virus, della pandemia: stasera vuole godersi quel grumo di cellule di vita appena accennata. Pensa alla strada percorsa fin qui, talvolta in salita, a tratti non più riconoscibile, ed è contenta delle mete raggiunte, delle vette conquistate, capaci di dare la spinta per andare avanti. Non deve lasciarsi afferrare dalla nostalgia di un passato conosciuto che appare sicuro, per l’incertezza del domani. Quel piccolo seme che sta radicandosi nel suo ventre le darà il coraggio di affrontare un futuro, in bilico su scenari oscuri. Se oggi la vita è questa, lei la affronterà.
Il grigio del cielo è virato al nero. Niente stelle né luna.
La stanchezza si fa viva di colpo: si sdraia sul letto e chiama la zia.
- Ciao, Giuli.
- Ciao, zia. Come facevi a sapere che ero io?
- Sesto senso.
- Non ci credo. Scommetto che hai parlato con Ermes.
- Indovinato! Mi ha informata.
- Ti ha detto che Marcello vorrebbe chiamarmi e tutto il resto?
- Si, che cosa ti senti di fare?
- L’idea mi attrae e mi respinge allo stesso tempo. Credo che accetterò di sentirlo. La vita può cambiare da un momento all’altro, soprattutto di questi tempi. Dobbiamo lasciar andare il passato, dimenticare le cose brutte.
- Brava, nipote. Questo mi piace molto.
- C’è un tempo che vorrei recuperare con Marcello, riempire il presente delle cose che ancora ci aspettano. Non devo temere quello che verrà, presto accetterò la sua chiamata.
- Sono colpita dal tuo buon senso, da quanto sei maturata in questi giorni.
- Siamo stati tutti persone diverse, lo saremo ancora di più in futuro.
- Sono ammirata, Giuli. Tutta tua zia, - gorgoglia Elda.
- Vero! Nei prossimi giorni ti farò una bella sorpresa. Ti abbraccio, zia. Buonanotte.
31 marzo 2020
Un altro giorno piovoso accompagna Giuli mentre si chiude la porta alle spalle e infila i bagagli in ascensore. Nell’androne si stupisce di non trovarsi davanti la portinaia, proprio ora che le avrebbe fatto comodo. Suona il campanello della guardiola: Caterina si affaccia scarmigliata.
- Scusi, mi stavo ancora preparando, - si giustifica, portandosi le mani alla capigliatura, nel vano tentativo di averne ragione.
- Scusi lei. Dopotutto è ancora presto. Volevo salutarla, perché torno a casa mia.
- Spero di rivederla presto. Buona fortuna, signora Maggioni.
- Anche a lei, Caterina. Mi stia bene.
In garage c’è un uomo che corre in bici avanti e indietro: non appena la vede smonta e si offre di aiutarla con le valigie. Lei, faccia perplessa, accetta.
Mette la macchina in moto: tira giù il finestrino, l’uomo si ferma per guardarla partire. Lei si sporge mentre chiede:
- Mi scusi, ma lei corre qui in garage?
- Certo, ho bisogno di fare del movimento.
- Ma non credo si potrebbe.
- Senta, non mi faccia una filippica. Questa del virus è tutto un complotto, dietro ci sono russi e americani, per non parlare dei cinesi che ce l’hanno mandato. Ma lei dove vive? Non ha mai visto i bambini con i papà giocare tutti i giorni qui a pallone? E le coppiette che la notte fanno l’amore nella macchina dentro il box? Non si è accorta che nel palazzo c’è gente che continua a frequentarsi da una casa all’altra? È di quelli che prestano i cani per uscire? Con questa clausura ci si arrangia come si può.
Giuli rimane a bocca aperta, non ha parole. Accelera di colpo prima di scoppiare e gridare all’uomo “Quelli come voi sono teste di cazzo, non valete la vita e i sacrifici disumani che i sanitari fanno per curarvi.”
Scossa, guida per le strade semideserte: nell’aria il solito urlo angosciante delle sirene si slancia a bucare il cielo, dai balconi sventolano i tricolori. Fa fatica a calmarsi, ripensa all’ominide. Comprende la necessità di uscire dalla clausura, ma non chi se ne infischia delle direttive e davanti ai numeri dell’epidemia ha il barbaro coraggio di lamentarsi perché non può giocare a calcetto, andare in palestra o al bar per l’aperitivo o ammassarsi per la movida notturna. Si chiede: ma non li toccano gli appelli continui dei medici che esortano a pazientare se non possono andare al cinema o nei teatri, a non ammassarsi e aver cura degli anziani che potrebbero essere sterminati da una condotta irresponsabile? In fondo, ci chiedono di stare a casa e uscire soltanto per le cose indispensabili, ai nostri nonni hanno chiesto di andare in guerra.
Fa tappa al supermercato per la spesa, ha davanti agli occhi i soliti scenari.
Il cuore è in tumulto, quando fa scattare la serratura della porta: entra in casa, accende la luce, trascina dentro i bagagli, poi pigia interruttori e spalanca finestre. L’odore di chiuso esce rapidamente. Si guarda intorno con la piacevole sensazione del ritorno, di ritrovarsi negli ambienti che sente profondamente suoi. Lucio ha lasciato la casa pulita: tutto è in perfetto ordine.
Sistema la spesa e disfa le valigie, riponendo gli indumenti. Dopo un paio d’ore è tutto sistemato: ha tempo per concedersi una pausa per uno spuntino. In seguito disinfetterà ogni cosa, avrà la massima cura nel fare della casa un luogo ragionevolmente sicuro.
Lucio è chiamato d’urgenza al Pronto, dove è stato portato Gianni, un amministrativo che conosce da molto tempo e col quale ha un rapporto di amicizia. È un uomo di quarantasei anni senza patologie, in piena salute fino a una settimana fa, quando ha accusato problemi respiratori e ha iniziato il periodo di isolamento fiduciario.
Dalla visita, appare evidente la gravità della situazione, la TAC evidenzia che i polmoni quasi non funzionano più. Non può fare nulla, cinque minuti dopo Gianni muore. Un dolore acuto invade Lucio, capita ormai di frequente perdere persone care. Lo incaricano di avvisare la moglie del decesso, vista la loro amicizia. Con un macigno nel cuore e le ginocchia che tremano, Lucio la chiama. Quando riattacca, si arrende a un pianto silenzioso che gli scuote le spalle. Non si azzarda a sentire il suo cuore. Si è così ristretto, che al suo posto potrebbe esserci un vuoto.
Ritorna in reparto e vi ritrova Gil, che gli va incontro.
- Lucio, ho saputo adesso di Gianni.
- Non c’è stato niente da fare. Ho appena telefonato alla moglie.
- Certo che non ti risparmiano niente.
- Siamo inchiodati al nostro dovere, come ben sai.
- Hai voglia di sfogarti un po’? – gli chiede, conscio della sua sofferenza.
- Non tanto, - risponde lui, con voce rotta dal pianto.
- Sono tuo amico e sono qui… Ti farebbe bene parlare…
Lucio si sforza di esprimere il suo animo.
- La situazione continua a peggiorare, è un crescendo di nuovi contagi e di morti, sono cifre da far tremare le vene ai polsi. Noi, qui, ne stiamo pagando il prezzo più alto.
Gil lo ascolta attentamente. Lucio fa un gesto sconsolato allargando le braccia, raccoglie i pensieri e riprende.
- Dall’inizio di questa maledetta storia il nostro mondo è cambiato, siamo collocati dentro giorni liquidi, pieni di cose sconvolgenti. Per ogni nostra azione, la situazione e il destino delle persone possono cambiare. La nostra vita si è fermata in ospedale e i malati ci sfilano davanti. Stiamo mettendo in pratica il concetto che non tutti i pazienti possono essere salvati, i più gravi devono essere lasciati andare.
- Lucio, ti capisco. Dentro sento un vuoto che cresce tutte le sere, quando alle ombre della notte che avanza si aggiungono le paure che affiorano nella mia testa. Come si fa a raccontare questi incubi alle persone che amiamo? Anche se Angela è un’infermiera e lavora in quest’ospedale, come faccio a riversarle addosso questa camionata di angoscia?
- È così, Gil. Anch’io non dico tutto a Giuli, la sommergerei con i miei incubi.
- Facciamo un patto: tutte le volte che ne sentiamo il bisogno, ci incontriamo e ci sfoghiamo. Ti va?
- Grazie, Gil, è una salutare valvola di sfogo, tra noi è possibile. Diciamo che è uno scambio alla pari.
Si salutano, sentendosi sgravati da una parte del carico che rimane aggrappato alle loro spalle come una scimmia.
Don Giuseppe sta meglio, riesce a respirare senza casco, la buona notizia corre tra tutto il personale del reparto. Lucio si siede davanti al letto, dove il prete, molto provato ma speranzoso, riacquista la lucidità.
- Ehi, Don, allora è vero che Dio esiste.
Lui fa cenno di sì.
- Sono certo che si è sistemato sul soffitto e non ha smesso neanche per un attimo di tenerti la sua santa mano in testa.
Il Don fa di nuovo cenno di sì. Poi riesce a sussurrare: “Si è fatto aiutare da te. Grazie a tutti e due.”
Una corrente di affetto e stima corre tra loro. Lucio gli accarezza una mano e lo lascia riposare.
Il suo turno è finito, come ultima cosa gli fanno il tampone, avrà il risultato del test in nottata. Lascia il reparto e raggiunge la foresteria; dopo una lunga doccia si sbarba, asciuga i capelli che si sono allungati, osserva che gli donano, poi si cambia e si reca a passo svelto in mensa: accorgendosi di avere una gran fame ripulisce i piatti di gusto. Non lo faceva da tempo.
È il momento di videochiamare il suo amore. Lei risponde subito, come se avesse già il cellulare in mano.
- Ciao, bellissima…
- Ciao, ragazzo. Come sei bello con i capelli lunghi.
- Mai quanto te con quei riccioloni neri.
- Rimarrai sorpreso da tutte le novità che devo raccontarti. Una in particolare, muoio dalla voglia di dirtela.
- Fallo subito. Non farmi penare.
- Mi costa molto non farlo, ma questa cosa va detta di persona.
- E va bene!
- Hai fatto il tampone?
- Sì, mi daranno l’esito stanotte.
- Sento che sarà negativo e domani sarai tra le mie braccia.
- Te l’ho già detto che ti amo? Non sto nella pelle all’idea, sto contando le ore.
- Io i minuti, amore mio.
Si osservano bevendosi con gli occhi, la voglia di ritrovarsi che trabocca dai loro volti. Rimangono in silenzio a bearsi delle loro immagini, dimenticando tutto il resto del mondo, si ritrovano in quel modo unico, magico ed esclusivo, di stare insieme degli innamorati.
primo aprile 2020
Sms di Lucio.
Buongiorno, amore. Tampone negativo. Volo da te.
“È quasi casa, è quasi amore”.