Categoria: Materiali
Data: 30/01/2023

LEVI E CALVINO: LA MEMORIA DELL’IMMAGINAZIONE

Calvino e Levi, quasi coetanei, presentano varie affinità, sia come scrittori che come uomini. Entrambi di carattere schivo e taciturno, venivano da famiglie colte, di estrazione borghese.

Calvino, nato a Cuba, trascorse l’infanzia e l’adolescenza a Sanremo, in un ambiente aperto e cosmopolita. Levi, dopo un’infanzia piuttosto isolata, frequentò a Torino il liceo D’Azeglio, crogiolo di intelligenze e di pensiero antifascista.

Ebbero entrambi una formazione scientifica, oltre che umanistica: Calvino, figlio di un agronomo e di una botanica, studiò presso la facoltà di agraria di Torino, dove suo padre insegnava. In seguito, abbandonò quel campo per dedicarsi totalmente alla letteratura; pare, tuttavia, che invidiasse all’amico Levi la professione di chimico, a stretto contatto con la materia. Nel dedicargli una copia delle ‘Cosmicomiche’, affermò che la prima ispirazione per quel libro gli era venuta da alcuni suoi racconti, che si potrebbero definire di fantabiologia. I loro interessi andavano dall’astronomia alla zoologia, ai più svariati fenomeni naturali: si può dire che fossero enciclopedici.

Altro tratto comune dei due scrittori era l’umorismo, che vena le loro pagine più visionarie come quelle più drammatiche.

Levi e Calvino, cresciuti sotto il fascismo, si affacciavano alla vita adulta (21 e 17 anni) mentre l’Italia cadeva nel baratro della guerra, schierandosi con le potenze dell’Asse. Tre anni dopo, l’8 settembre, fecero entrambi la scelta del partigianato, Levi con i GL, Calvino con le Brigate Garibaldi. Poco dopo, Levi fu arrestato ed avviato ad Auschwitz, mentre Calvino partecipò attivamente alla Resistenza, sulle Alpi Marittime.

Nel 1947 esordirono entrambi come scrittori. Calvino pubblicò con Einaudi Il sentiero dei nidi di ragno, mentre Se questo è un uomo, rifiutato da Natalia Ginzburg, fu dato alle stampe per la prima volta dal piccolo editore Da Silva. In seguito Calvino recensì il libro e continuò a sostenere il suo autore, diventando per lui una sorta di editor. A sua volta, non mancava di chiedere consigli a Levi, specie quando le sue opere necessitavano di basi scientifiche.

Sia in Levi che in Calvino è molto importante il tema della memoria. Entrambi erano reduci e sentivano il bisogno di raccontare. Il reduce è un narratore, lo è sempre stato, fin dai tempi di Omero. Ma la loro esperienza era complessa e difficile da comunicare. Alla fine della guerra, le narrazioni sulla Resistenza erano fonte di divisione. E la Shoah rimase a lungo qualcosa di indicibile, che non si voleva ascoltare né credere.

Nel racconto “Ricordo di una battaglia”, pubblicato nel 1974, Calvino fa riferimento allo scontro che si svolse a Baiardo, nell’entroterra di Sanremo, il 17/3/’45, tra i miliziani della repubblica di Salò e i partigiani della II divisione garibaldina, che furono sconfitti.

È la prima volta che narra in prima persona un suo ricordo della guerra partigiana. E il racconto diventa riflessione sulla memoria, su ciò che la deforma e la fa sbiadire, ma anche sull’immaginazione che le ridà vita. “Non è vero che non ricordo più niente…”

L’incipit contiene alcune metafore dei ricordi: anguille acquattate nelle pozze della memoria, tra i grossi sassi che fanno da argine tra il presente e il passato…     

Dopo trent’anni, lo scrittore credeva di riuscire a rimuovere quei sassi, credeva che bastasse poco per ricordare, invece si accorge di annaspare nel buio.

Restano solo frammenti, sensazioni del corpo franato nel buio, con la mezza gavetta di castagne nello stomaco che non riescono a dare calore ma solo a pesare come un’acida manciata di ghiaia che s’insacca e sobbalza, con il peso della cassetta di munizioni del mitragliatore che mi sbatte sulle spalle e ogni volta che il piede mi manca rischia di sbilanciarmi in una caduta a faccia per terra o di rovesciarmi all’indietro di schiena sulle pietre.

Delle esperienze vissute – specie delle più drammatiche – spesso resta solo questa memoria involontaria, proustiana, fatta di odori, sapori, rumori… Il resto, ciò che vogliamo ricordare, s’impasta con ciò che è venuto dopo, con ciò che sappiamo, con le distorsioni del nostro io.

Calvino è ossessionato dal tema della sparizione: le città invisibili sono città che scompaiono, inafferrabili. Così la vera essenza di ciò che è stato viene tradita dal racconto che la definisce una volta per tutte e perciò la cancella.
Il primo libro sarebbe meglio non averlo mai scritto, dirà nella prefazione del ’64 a una nuova edizione del Sentiero dei nidi di ragno. E concluderà: Un libro scritto non mi consolerà mai di ciò che ho distrutto scrivendolo: quell’esperienza che custodita per gli anni della vita mi sarebbe forse servita a scrivere l’ultimo libro, e non mi è bastata che a scrivere il primo.

Anche Primo Levi, testimone per eccellenza, è pessimista rispetto alla capacità di ricordare. La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace: con questa frase inizia il suo ultimo libro, I sommersi e i salvati. Nelle numerose interviste che gli fecero, emerge la sua consapevolezza del conflitto tra testimonianza e storia. Lo storico guarda da lontano, ha una visione d’insieme. Il testimone – specie se coinvolto come protagonista, o come vittima, nel caso di Levi – coglie solo i dettagli, l’insieme gli sfugge. La testimonianza, allora, vale solo per sé stessa. Levi dubita della sua memoria, inquinata dalle illusioni. Arriva a pensare che i soli veri testimoni siano quelli che hanno toccato il fondo e non sono tornati.

Eppure, ricordare è necessario, è un comandamento.
Questo libro è intriso di memoria: per di più una memoria lontana. Attinge dunque a una fonte sospetta e deve essere difeso contro sé stesso. Questa frase conclude il primo capitolo de I sommersi e i salvati, ma potrebbe riferirsi a tutti i racconti di Levi sulla deportazione, in particolare, a Se questo è un uomo.

Ad Auschwitz, Levi ha ricevuto il dono della parola, diventando scrittore. (Voleva esserlo anche prima, ma senza l’esperienza del lager non avrebbe mai raggiunto tanta potenza espressiva). Proprio per questo la sua testimonianza ha valore, è in grado di farci sentire l’enormità di quella tragedia. Essa si nutre della memoria dell’immaginazione, che riesce a esprimere qualcosa che va oltre il vissuto individuale.

Uno dei capitoli più alti del libro, quello del canto di Ulisse, non trova riscontro nelle interviste fatte al Pikolo che ne era stato protagonista. Eppure, quanta forza passa in quelle parole, che forse furono scambiate in modo diverso, o magari solo immaginate… quanto desiderio di umanità, sopravvissuto all’annullamento. Un anelito così ci sarà stato, per qualche momento, almeno nei più forti: qualcosa che nell’inferno non era inferno, avrebbe detto Calvino. Dobbiamo all’arte di Levi che la memoria di ciò non si sia persa.

Il potere dell’immaginazione è ben presente anche a Calvino. Nel racconto Ricordo di una battaglia, egli rievoca qualcosa che non ha visto: a Baiardo i fascisti hanno vinto, Cardù è stato ucciso durante l’assalto. Lo scrittore immagina la scena. Ci arriva attraverso i dettagli, i rumori, i silenzi di quella mattina, in cui con i compagni aspettava nascosto il momento di attaccare. Poi il frastuono, il canto di vittoria… ma non quello dei garibaldini.

posso mettere a fuoco tutto quello che della battaglia ho saputo più tardi… vedo la colonna di quelli che si aprono la strada verso la piazza, mentre dai vicoli a scale scendono quelli che hanno aggirato il paese. Potrei dare a ognuno il suo nome, il suo posto, il suo gesto. Nella battaglia il ricordo di ciò che non ho visto può trovare un ordine e un senso più preciso di ciò che ho veramente vissuto… La memoria dell’immaginazione è anche quella una memoria d’allora perché sto tirando fuori cose che avevo immaginato a quel tempo.

Belpoliti, a proposito di Calvino e Levi, parla di tre piani narrativi: il primo piano del presente, il secondo del passato. In mezzo c’è il mezzanino, una sorta di raccordo o di intercapedine, che contiene la memoria dell’immaginazione. A volte questa può restituire più verità della cronaca, del freddo documento, o peggio ancora di un racconto che cristallizza la memoria fissandola in stereotipi.