CONVERSAZIONE IN SICILIA - 3, 4, 5
CONVERSAZIONE IN SICILIA – III PARTE
Che senso può avere questa parte del romanzo? La madre si fa accompagnare nel “suo giro delle iniezioni”, durante il quale fa conoscere a Silvestro le sofferenze dei più miseri del paese e, per finire, (con un certo compiacimento) esibisce davanti a lui corpi femminili.
Perché Vittorini ce ne parla? Può sembrare una lunga digressione dal significato oscuro…
Ma seguiamo il racconto dall’inizio:
“E si mise su una sedia a cambiarsi le scarpe, si tolse quelle da uomo, infilò un paio di stivaletti da donna che stavano sotto la tavola.”(p.66)
È come se ora Concezione rivestisse un nuovo ruolo, tipicamente femminile: quello di visitare gli infermi e aiutare la vita dell’umanità afflitta.
“…con una grande borsa un po’ da levatrice infilata nel braccio, mi condusse fuori nel freddo sole, e il viaggio in Sicilia ebbe una nuova ripresa.”
Per Silvestro, è una sorta di iniziazione presieduta dalla madre, che gli fa scoprire stanze completamente al buio, antri quasi sotterranei, in cui gli uomini sono ridotti a ombre e voci.
“E ancora scendemmo per il fosso nero della strada, del tutto fuori del sole ormai… e ancora entrammo in luoghi di buio e odor di pozzo, buio e odor di buio, o buio e fumo… A questo modo viaggiavamo per la piccola Sicilia ammonticchiata… e mia madre era con me una strana creatura che pareva esser viva con me nella luce e con quegli altri nella tenebra, senza mai smarrirsi come io, un poco, mi smarrivo ogni volta entrando o uscendo.”(p.71)
Si tratta di una vera e propria discesa agli inferi, dal sapore dantesco, e la madre sembra un Virgilio in chiave ingenua e popolare.
“Ogni volta, uscendo, essa diceva il contrario della volta prima. Una volta diceva che quando era ammalato l’uomo, addio…E una volta diceva che quando era ammalata la donna, addio…” “Qualcuno ha un po’ di tisi, qualcuno ha un po’ di malaria”.
La donna non si decide su quale sia la sfortuna peggiore… ogni malattia ha le sue conseguenze, e la gente soffre comunque. Poi, per un attimo, in una casa dove c’è luce, avviene una sorta di riconoscimento tra Silvestro e un uomo malato, che di solito rifiuta di parlare. I due si guardano. “Né io vidi il colore dei suoi occhi, vidi in essi soltanto il genere umano ch’essi erano.”
Subito dopo, Silvestro rivela: “Io ero stato molto malato, qualche tempo prima… e conoscevo questa profonda miseria nella miseria del genere umano operaio”. (p. 75)
A questo punto, per lui, il presente si confonde con i ricordi personali legati alla malattia: sensazioni tattili, uditive, fame, insofferenza, umiliazioni subite… Ogni uomo può capire queste cose. “Ma forse non ogni uomo è uomo; e non tutto il genere umano è umano.”
Silvestro (e con lui Vittorini) sembra dire che solo i poveri, gli oppressi, sono veramente umani, mentre gli altri, gli oppressori, non capiscono, non hanno compassione. Parlando con la madre, cerca di approfondire il tema, senza ottenere risposta.
“Non è, l’uomo nella fame, più uomo? Non è più genere umano? E il cinese?...” (p.81)
“Ora andiamo dalla vedova…” In forza della sua femminilità, Concezione esercita sul figlio un ruolo arcaico di iniziatrice, di madre padrona. Ora vuol mostrargli le donne del paese, mentre fa loro l’iniezione, e in questo dovrebbe consumarsi la residua innocenza dell’infanzia. Silvestro sta al gioco, come la vedova stessa. “Questo è un sopruso, Concezione” disse sul cuscino, ridendo.
Incomincia una schermaglia fatta di malizia e spudoratezza, che porta Silvestro a ritrovare l’origine della propria sessualità. (La lettura de Le mille e una notte, l’amicizia di lui bambino con le sorelle Aladino, una delle quali morì: gli capitava ogni tanto di vederla nuda…).
“Mai un nato di sesso maschile conosce la donna come a sette anni e prima. Essa, davanti a lui, non è sollievo, allora, non è gioia, e nemmeno scherzo. È certezza del mondo; immortale.”
IV PARTE
“Ma ormai io ero stufo di quei malati e di quelle donne…”
“…la ruota del viaggio si era fermata in me... A che scopo avrei dovuto vedere un’altra donna? O anche un altro malato; a che scopo? ...Morte e immortalità io le conoscevo; e Sicilia o mondo era la stessa cosa.”
Finora, il senso del viaggio di Silvestro è stato ritrovare l’infanzia, e poi capire che morte e vita sono le stesse per tutti gli uomini, in tutto il mondo.
Guardando passare un aquilone, egli si chiede perché le illusioni dell’infanzia non possano durare.
“Ma dopo che farebbe (un uomo) con la certezza?... Dopo, uno conosce le offese recate al mondo, l’empietà, la servitù, l’ingiustizia… Che farebbe allora, se avesse pur sempre certezza?...Che farei?”
Silvestro, lo ha detto all’inizio, è un uomo deluso, incapace di agire: è la perduta fede in sé stesso che va cercando. Lo fa grazie a nuovi incontri, come sempre pieni di significato simbolico.
Il primo che gli capita di conoscere è l’arrotino Calogero, in cerca di lame degne di essere arrotate. Tra i due si stabilisce una naturale sintonia.
“Era per me come se fosse il mio aquilone che mi parlava.”
Il secondo incontro è con Ezechiele, il sellaio. Entrare nella sua bottega è come scendere “nel cuore puro della Sicilia… non ancora contaminato dalle offese del mondo”. Tra loro si svolge una conversazione che sembra obbedire a un codice segreto condiviso.
“Egli soffre” dice Ezechiele riferendosi a Silvestro. E l’arrotino: “È per il dolore del mondo offeso che soffre, non per se stesso”. E l’uomo Ezechiele: “Non per se stesso, si capisce. Ognuno soffre per se stesso, oppure…” E l’arrotino: “Eppure non vi sono né coltelli né forbici, non vi è mai nulla…”
Ezechiele rivela che sta scrivendo sui dolori del mondo offeso, poi li invita ad andare a bere un bicchiere di vino da Colombo. Calogero, l’arrotino, uscendo si accorge di essere stato multato e derubato, ma Ezechiele lo esorta a non soffrire per se stesso. Per strada s’imbattono nella bottega di Porfirio, il panniere, e decidono di presentare a Silvestro un nuovo amico.
Questa sequenza d’incontri ricorda lo stile delle fiabe, e si tratta, con tutta evidenza, di aiutanti dell’eroe, che condividono i suoi pensieri e i suoi modi di sentire. Ed eccoli tutti insieme da Colombo, il vinaio, dove “tutto il passato del vino nell’uomo era presente”.
Al terzo boccale gli uomini scoprono che Silvestro non è poi tanto forestiero, è figlio della Ferrauto, che ha tanti coltelli, e suo nonno “aveva l’acqua viva e soffriva per il mondo offeso” e il padre era poeta e attore shakespeariano.
Questo riconoscimento si accompagna a un inno alla vita e alle sue gioie. “…libere gambe, libere braccia, liberi petti, capelli e pelo al vento in libertà… il mondo è grande, il mondo è bello, il mondo uccello e ha latte, fuoco, tuono e inondazione…”
Tutti si uniscono agli evviva “e potevano essere come spiriti, partiti infine da questo mondo di sofferenze e di offese”. Finché Porfirio “giacque nella matrice del vino, e fu ignudo in beato sonno… padre Noè del vino”.
“Io posai il boccale, non era in questo che avrei voluto credere… e andai via, attraversai la piccola strada, giunsi dove stava mia madre”.
Era notte, brillavano i lumi a piccoli gruppi, e nel cielo “scintillava il ghiaccio di una grande stella abbandonata”. “…E pensai alle notti di mio nonno, le notti di mio padre, e le notti di Noè, le notti dell’uomo, ignudo nel vino e inerme, umiliato, meno uomo d’un fanciullo o d’un morto”.
V PARTE
“Mi venne allora in mente che Belle Signore, il nome della via là vicino, era molto notturno per la Sicilia: significava gli Spiriti.”(p.120)
L’ultima parte del libro è la più poetica e onirica, tutta calata in un’atmosfera notturna e misteriosa, in cui la realtà si mescola con l’immaginazione e con i ricordi.
Il “Padre shakespeariano…nella oscurità folle delle sue notti cresciute sotto il vino” caricava la famiglia su un carrello ferroviario, diretto a una sala d’aspetto o verso una pianura dove allestiva le sue recite per un pubblico di bifolchi.
“Ah, la notte, allora! Dai paralleli della terra abbaiavano i cani, agli orizzonti; e i sette cieli invisibili. Le montagne della Via Lattea, si riempivano di gelsomini…”
E mentre ricorda, lo sorprende una voce, una terribile voce: “Ehm!” E Silvestro si accorge che le luci non vengono dalle case, sono i lumi dei morti.
A questo punto inizia un dialogo con un soldato, in realtà suo fratello, morto in guerra.
Per quello spirito Silvestro è sempre il ragazzino di undici anni, coi calzoni corti, innamorato del mondo, con cui lui giocava, allora settenne. Gli racconta che lui recita ogni giorno una parte al cimitero insieme a tutti i «Cesari non scritti, i Macbeth non scritti». Inoltre, prima di scomparire, dice di trovarsi da trenta giorni su un campo di battaglia innevato.
Silvestro torna da sua madre; dopo aver dormito, proprio come faceva suo padre, in preda al vino, la osserva preparare il caffè.
“…io vidi i suoi movimenti intorno alla caffettiera e al fornello, la vidi isolarsi nelle faccende come ogni donna si isola, e tremai per la sua solitudine, per la mia, per quella di mio padre, per quella di mio fratello morto in guerra.” (p.130)
La madre intuisce chi ha incontrato suo figlio quella notte, e insieme parlano del fratello Liborio: “Non era ancora andato nel mondo e fu contento quando lo chiamarono…”
Segue il dialogo sulla fortuna di aver avuto per figlio un eroe, morto per la Patria, un motivo d’onore, come i Gracchi per Cornelia…
“Ma mia madre incominciò a crollare… Era solo un povero ragazzo!”
Silvestro ricorda, piange ed esce di casa, mentre i corvi continuano a gridare. Tanti gli vanno dietro chiedendogliene la ragione.
“Vi sono altri doveri” mi disse il Gran Lombardo. “Non piangete.”
Tutti i personaggi da lui conosciuti (che in fondo sono frutto della sua psiche, fanno parte di Silvestro stesso) confermano questo parere, e si soffermano con lui a osservare il monumento ai caduti, una donna di bronzo “fornita di tutto ciò che rende donna una donna”.
“Sa tutto” l’arrotino disse. … “Sa anche di più” dissi io. “Sa che è invulnerabile.”
Questa conclusione sembra voler ribadire la superiorità della donna-madre, portatrice di vita. Il maschio, al contrario, è rappresentato nella sua fragilità.
Nell’epilogo, Silvestro, tornato dalla madre per congedarsi, la trova in cucina che lava i piedi a un uomo, suo padre. Si avvicina, ma non riesce a vederlo in faccia, “pareva, ad ogni modo, troppo vecchio…” forse era suo nonno.
“Lo saluterò un’altra volta. Lascialo stare.” E uscii dalla casa, in punta di piedi.